David Leavitt

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David Leavitt (1961 – vivente), scrittore statunitense.

Citazioni di David Leavitt[modifica]

  • Ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama, la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo.[1]

Mentre l'Inghilterra dorme[modifica]

Incipit[modifica]

All'inizio degli anni Cinquanta, storia e politica ordirono una congiura di circostanze che mi impedì di esercitare il mestiere che avevo scelto, vale a dire quello di scrittore.[2]

Citazioni[modifica]

  • «Mr. Botsford, è vero che nel 1937 lei aveva in tasca la tessera del partito Comunista?»
    «In genere evito di portare tessere in tasca. C'è il rischio di smarrirle.» (Prologo: 1978; p. 11)
  • La memoria sarà forse una guida inaffidabile, ma è anche l'unica di cui dispongo. (Prologo: 1978; p. 12)
  • Era un anno di interminabili giornate grigie, il sole non compariva da tanto di quel tempo da essere ormai soltanto un ricordo, e Londra era tutto uno starnuto e una soffiata di naso. I mediterranei sarebbero impazziti, gli americani avrebbero intentato una causa; ma noi inglesi accettiamo l'inclemenza del tempo con la stessa cupa equanimità con cui accettiamo le schiere di case addossate una all'altra e le salsicce. Con la sua aria depressa, la gente tirava avanti, cioè faceva code interminabili sotto la pioggia. Code ovunque: sarebbe bastato attaccare un cartello su un muro con la scritta "Fate la coda qui" e la gente ci si sarebbe messa di fronte in fila indiana. (I; p. 19)
  • Furono dei buoni genitori. La cosa peggiore che ci fecero fu di morire. (II; p. 35)
  • Cos'altro potrei dire, se non che mi piaceva tutto della metropolitana? Amavo le lunghe gallerie, i treni fumosi, i collegamenti intricati delle linee, ciascuna delle quali possedeva caratteristiche proprie, una propria identità, per così dire. Avevo l'abitudine di bighellonare nella stazione di Richmond solo per guardare il cerchio rosso trafitto da una barra blu, il viavai dei convogli, e soprattutto per studiare la piantina, con quella forma che ricordava vagamente un insetto, il groviglio di fili colorati che, a un esame più attento, si rivelava qualcosa di più sensato: un simulacro di concatenazioni, un gioco di alternative. Me ne restavo lì impalato per ore a pormi domande tipo: Se dovessi andare da Chancery Lane a Rickmansworth, quale sarebbe il tragitto più breve? E il più lungo? Quale mi consentirebbe di percorrere le linee più colorate? Scegliere il percorso più veloce mi sembrava banale, rozzo persino, una scelta priva di immaginazione. Trovavo preferibile – o avevo fede – nel percorso più lungo.
    Il cerchio rosso trafitto dalla barra blu conteneva il nome della stazione. Era una promessa di altre stazioni: Richmond prometteva i Kew Gardens, che promettevano Gunnersbury, che prometteva Turnham Green, Stamford Brook, Hammersmith e Londra. Londra! Le linee sotterranee, la Piccadilly, la Northern e la Bakerloo! Le scale mobili che sembravano sprofondare per miglia e miglia, gli interminabili corridoi tubolari col loro caldo odore di gas di scarico, il vento dei treni, il misterioso vento sotterraneo dei treni. E altre stazioni verso nord. Altre ancora verso est e ovest. Stazioni che si moltiplicavano come isole, tutte in attesa di essere visitate, con il nome racchiuso, in modo identico, in quel cerchio rosso, con quella barra blu! (IV; pp. 56-57)
  • Non fatevi ingannare dalla rete ordinata di linee colorate che è la mappa della metropolitana: la vera Londra è un groviglio che gira in tondo, torna sui suoi passi e si ripiega su se stesso. (V; p. 90)
  • [...] l'amore sboccia tra persone, non tra sessi. Perché porsi dei limiti? Siamo nel 1936; è il futuro, o quasi. (Philippa: VII; p. 117)
  • Chiunque abbia detto che negare la corruzione è il peggior segnale di corruzione aveva senz'altro ragione. (VIII; p. 119)
  • D'altronde, dubito che esistano i bravi mentitori; ci sono solo persone più o meno disposte a lasciarsi ingannare. (VIII; pp. 119-120)
  • Insomma, anche il sesso divenne una bugia, parte di un'imponente impalcatura di menzogne che finì per avere il solo scopo di sostenere se stessa: ciò che avrebbe dovuto reggere all'inizio, qualunque cosa fosse, era crollato da molto tempo. (VIII; p. 121)
  • Le bugie ti corrompono, ti spingono ad azioni crudeli che di norma troveresti sconvolgenti. Eppure non ti tiri indietro. Ferisci alla cieca gli altri per difendere le tue menzogne, che ormai sono i tuoi figli, bambini disperati che ti prosciugano e non si accontentano di succhiarti il latte fino all'ultima goccia, perché sono sempre affamati. Così ti finiscono col mordere il capezzolo, col divorare la carne, eppure tu li proteggi ancora. Il problema non è più che tu non puoi vivere senza le tue bugie, quanto il fatto che loro non possono più sopravvivere senza di te. (X; p. 142)
  • Gli spagnoli amano l'arte della discussione e la praticano come uno sport. (XIII; p. 162)
  • Gli spagnoli non hanno paura di guardare la morte in faccia. (XIV; p. 168)
  • La gente pensa che la pazzia sia romantica, ma non è vero. La pazzia è noiosa, è come pulire e ripulire una stanza che resta sporca. (Joaquim: XIV; p. 184)
  • Ti sei mai domandato se la gente che ha sempre sofferto, fisicamente intendo, fin dal momento in cui è venuta al mondo – be', ti sei mai domandato se queste persone sanno che è dolore ciò che provano? (Caroline: XVIII; p. 214)

Incipit di La lingua perduta delle gru[modifica]

Nel primo pomeriggio di una piovosa domenica di novembre un uomo scendeva frettoloso lungo la Terza Avenue, superando fioristi ed edicole chiusi e sbarrati, le mani sprofondate in tasca e la testa china contro il vento.[2]

Note[modifica]

  1. Da La lingua perduta delle gru.
  2. a b Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • David Leavitt, La lingua perduta delle gru (The Lost Language of Cranes, 1986), traduzione di Delfina Vezzoli, Mondadori, Milano, 1998. ISBN 88-04-45874-7
  • David Leavitt, Mentre l'Inghilterra dorme (While England Sleeps, 1993), traduzione di Delfina Vezzoli, Mondadori, Milano, 1998. ISBN 88-04-41469-3

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