Donna Tartt

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Alcune opere di Donna Tartt (edizione tedesca)

Donna Tartt (1963 — vivente), scrittrice statunitense.

Dio di illusioni[modifica]

Incipit[modifica]

La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont – polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell'esercito; il college chiuse, la fabbrica di colori a Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal nord dello Stato di New York, addirittura da Boston.

Citazioni[modifica]

  • 24 aprile
    Caro Richard,
    vorrei poter dire che questa è per me una lettera difficile, ma mentirei.
    La mia vita è stata un perpetuo spreco, e mi sembra giunto ora il momento in cui io compia l'onorevole gesto.
    È la mia ultima occasione di parlarti, in questo mondo almeno. Ciò che ti voglio dire è questo: lavora sodo, sii felice con Sophie. [Non sapeva della nostra rottura.] Perdonami per tutte le cose che ho fatto, ma soprattutto per quelle che non ho fatto.
    Mais, vrai, j'ai trop pleuré! Les aubes sont navrantes. Che verso triste e bellissimo, vero? Avevo sempre sperato che mi fosse data un giorno la possibilità di usarlo. E forse le albe saranno meno tormentose, in quel paese per il quale sto per partire. Ma d'altra parte gli ateniesi ritengono la morte un sonno: presto lo saprò di persona. Mi domando se incontrerò Henry, nell'aldilà: e se sì, non vedo l'ora di chiedergli perché diavolo non ci ha sparato a tutti, per farla finita una buona volta. Non soffrire troppo per tutto questo. Davvero.
    Con allegria
    Francis
  • Alcune cose sono troppo terribili per entrare a far parte di noi al primo impatto; altre contengono una tale carica di orrore che mai entreranno dentro di noi. Solamente più tardi, nella solitudine, nella memoria, giunge la comprensione: quando le ceneri sono fredde, la gente in lutto è andata via; quando ci si guarda intorno e ci si ritrova in un mondo completamente diverso.
  • Ci piace pensare che abbia un certo valore, la vecchia banalità amor vincit omnia. Ma se ho imparato una cosa, nella mia breve, triste vita, è che quella banalità è una bugia: l'amore non vince nulla, e chi lo pensa è uno sciocco.
  • La mia vita è sempre stata scialba e stagnante... morta, insomma. Il mondo mi è sempre parso un luogo deserto. Ero incapace di godere delle più semplici gioie. Mi sentivo morto in tutto ciò che facevo.
  • «La morte è la madre della bellezza» disse Henry.
    «E cos'è la bellezza?»
    «Terrore.»
    «Ben detto!» esclamò Julian. «La bellezza è raramente dolce o consolatoria. Quasi l'opposto. La vera bellezza è sempre un po' inquietante.»
  • Le cose terribili e cruente sono a volte le più belle.
  • Ogni cosa crudele o stolta che avessi detto mi tornava in mente con amplificata chiarezza: una serie ininterrotta di insulti, colpe, imbarazzi a partire dall'infanzia mi sfilavano davanti uno per uno, con vivida e incisiva nitidezza.
  • Prima, ero paralizzato. Perché pensavo troppo, vivevo troppo con il cervello.
  • Ricordo il suo riflesso nello specchio mentre si puntava la pistola alla tempia; la sua espressione di folle concentrazione, di trionfo, quasi un tuffatore che corra verso la fine del trampolino: occhi stretti, felice nell'attesa del grande salto.
    Ci penso spesso, in realtà, a quella sua espressione. Penso a tante cose: alla prima volta che vidi una betulla, all'ultima volta che vedemmo Julian; alla prima frase in greco che imparai: Χαλεπά τα καλά, La bellezza è severa.

Il cardellino[modifica]

Incipit[modifica]

Quand'ero ancora ad Amsterdam, per la prima volta dopo anni sognai mia madre. Ero rimasto confinato nella mia stanza d'albergo per più di una settimana, terrorizzato all'idea di chiamare chicchessia o di mettere il naso fuori, il cuore che fremeva e sussultava anche al più innocuo dei rumori: il campanello dell'ascensore, l'andirivieni del carrello del minibar, persino i campanelli delle chiese che scandivano le ore, da Westertoren, Krijtberg, un clangore dai contorni vagamente oscuri, come i presagi di sventura delle fiabe. Durante il giorno me ne stavo sul letto e mi sforzavo di decifrare le notizie in olandese alla TV (impresa impossibile, dal momento che non conoscevo una parola di olandese) e, quando rinunciavo, mi sedevo accanto alla finestra a fissare il canale, il cappotto cammello gettato sui vestiti che indossavo, perché avevo lasciato New York in fretta e furia e le cose che avevo portato con me non erano abbastanza calde, nemmeno al chiuso.

Citazioni[modifica]

  • Be', gli olandesi hanno inventato il microscopio. [...] Erano gioiellieri, tornitori di lenti. Ci tenevano ai dettagli, perché c'è un significato anche nelle cose minuscole. Ogni volta che vedi una mosca o un insetto in una natura morta – un petalo sfiorito, la lieve ammaccatura di una mela –, l'artista ti sta inviando un messaggio in codice. Ti sta dicendo che le cose vive non durano... che tutto è effimero. La morte è connaturata alla vita. Per questo si chiamano nature morte. Può essere che all'inizio, dentro tutta questa bellezza, questo rigoglio, tu non riesca a scorgere l'impercettibile traccia di marcescenza. Ma se guardi attentamente... la troverai.
  • A New York ero cresciuto circondato da ragazzini che avevano girato il mondo, gente che aveva vissuto all’estero e parlava tre o quattro lingue, che frequentava corsi estivi a Heidelberg e trascorreva le vacanze in posti come Rio, Innsbruck o Cap d’Antibes. Eppure Boris, col suo bagaglio di esperienze esotiche degno di un vecchio lupo di mare, li batteva tutti. Era andato su un cammello; aveva mangiato larve, giocato a cricket, si era beccato la malaria, aveva vissuto per strada in Ucraina («ma solo per due settimane»), disinnescato una bomba con le proprie mani, nuotato in fiumi australiani pieni di coccodrilli. Aveva letto Čechov in russo, e autori che non avevo mai sentito in ucraino e polacco. Aveva resistito ai quaranta sotto zero e all’oscurità degli inverni russi, ed era sopravvissuto alle interminabili bufere, alla neve, al ghiaccio che copriva le strade come una patina di vetro, quando l’unica fonte di conforto all’orizzonte era una palma al neon che bruciava ventiquattr’ore al giorno fuori dal bar, dove suo padre andava a bere.
  • Il dipinto era nascosto, in modo piuttosto astuto, pensavo, all’interno di una federa di cotone pulita, attaccata col nastro adesivo dietro la testiera del mio letto. […] Ma anche se potevo guardarlo solo di rado mi piaceva pensare che fosse lì, per via della profondità e concretezza che infondeva alle cose. Era come se rinforzasse le fondamenta della mia vita, e mi rassicurava, così come mi rassicurava sapere che, lontano da lì, le balene nuotavano indisturbate nelle acque del Mar Baltico e che, in remoti angoli della Terra, schiere di monaci cantavano senza sosta per la salvezza del mondo.
  • L’alcol ti trasformava in uno sciattone dall’aria confusa: bastava guardare Platt Barbour, seduto da J.G. Melon alle tre del pomeriggio ad autocommiserarsi. Per non parlare di mio padre, che persino da sobrio aveva la stessa goffaggine di un pugile stordito dai cazzotti ed era in grado a stento di tenere in mano un telefono o un timer da cucina: sindrome di Korsakoff, si chiamava, danni cerebrali causati dall’abuso di alcol, un deficit neurologico irreversibile. I suoi ragionamenti erano sempre sconclusionati e non era mai riuscito a tenersi un lavoro a lungo.
  • Un atto di Dio, una fatalità: così la chiamavano le compagnie assicurative, una catastrofe tanto imprevedibile o misteriosa nelle sue dinamiche da non potersi descrivere altrimenti. Il grado di probabilità di un evento era misurabile, ma certi fatti cadevano così radicalmente al di fuori delle tavole attuariali che persino gli assicuratori dovevano ricorrere all’ordine sovrannaturale per definirli – una sfortuna nera, come mio padre aveva tristemente commentato una sera in giardino, accanto alla piscina, mentre il sole tramontava in fretta, fumando una Viceroy dopo l’altra per tenere lontane le zanzare, una delle poche volte in cui aveva provato a parlare con me della morte di mia madre, perché accadono le cose brutte, perché a me, perché a lei, nel posto sbagliato al momento sbagliato, solo una fatalità, uno su un milione, parole che, venendo da lui, non suonavano affatto come delle scuse, ma come una professione di fede, la miglior risposta che aveva da darmi, alla stregua di Allah l’ha Deciso o È la Volontà del Signore, un chinare il capo di fronte alla Fortuna, il Dio più grande e potente che mio padre conoscesse.

Incipit de Il piccolo amico[modifica]

Tutta la vita Charlotte Cleve si sarebbe sentita in colpa per la morte del figlio, essendo stata sua la decisione di pranzare, in occasione della Festa della Mamma, alle sei del pomeriggio invece che a mezzogiorno, dopo la messa, come i Cleve avevano sempre fatto. Il cambiamento d’orario non aveva mancato di suscitare le proteste dei più anziani della famiglia.

Bibliografia[modifica]

  • Donna Tartt, Dio di illusioni, traduzione di Idolina Landolfi, Rizzoli, 1995. ISBN 8817114758
  • Donna Tartt, Il cardellino, traduzione di Mirko Zilahi de' Gyurgyokai, Rizzoli, Milano, 2014. ISBN 9788817072380
  • Donna Tartt, Il piccolo amico, traduzione di L. Landolfi e G. Maccari, BUR, 2014. ASIN: B00I9VGPQ0

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