Douglas Jackson
Douglas Jackson (1956 – vivente), scrittore scozzese.
Saga di Rufo
[modifica]Morte all'imperatore!
[modifica]Il bambino strisciava furtivamente tra i bassi cespugli, facendo saltellare gli occhi a destra e a sinistra alla ricerca del minimo indizio della presenza del nemico. Oggi si era immedesimato nell'ultimo sopravvissuto della battaglia della foresta di Teutoburgo, l'unico superstite delle tre legioni annientate ancora in grado di portare a termine la propria missione e uccidere il re dei Cherusci, Arminio. Giunto al limitare di una piccola radura si fermò. Ecco la sua preda. Estrasse il piccolo pugnale che fungeva da gladio legionario e caricò le orde cerusce abbattendone i campioni uno a uno. Prendi questo! E questo! Muori, Arminio! Muori per il tuo tradimento!
Quando la vittoria fu completa rimase in piedi tra i corpi dei nemici caduti con il petto ansimante sotto la leggera armatura che gli proteggeva il torace. Fatta eccezione per l'elmo, indossava un'uniforme completa della fanteria leggera della XX legione: tunica rossa, cotta di maglia, pesante cinturone con anelli a cui agganciare il suo equipaggiamento, schinieri di cuoio a protezione degli stinchi e sandali. La tenuta era stata realizzata appositamente dall'armaiolo affinché si adattasse a un bambino di sei anni e quando la indossava il cuore si gonfiava di orgoglio fino a scoppiare.
Il segreto dell'imperatore
[modifica]Britannia, 43 d.C.
Il rosso scarlatto delle tuniche si allargava sulla terra come una macchia di sangue.
Dalla sua posizione sulla cima della collina poteva vedere la colonna compatta e disciplinata che avanzava tra gli alberi a passo di marcia. Cercò di calcolare quanti fossero. Migliaia certamente, forse addirittura diecimila. E quella era solo l'avanguardia.
Benché le spie lo avessero avvertito del loro arrivo, aveva calcolato per giorni oltre i confini della sua terra per osservarle personalmente. Le legioni di Roma. Erano già state lì in passato, quando suo padre era ancora un ragazzo e Giulio Cesare le aveva condotte al di qua del mare, ma ben presto se n'erano andate cariche d'oro e di ostaggi. Un instinto primordiale gli diceva che questa volta erano venute per restare. I guerrieri britanni avevano da tempo dimenticato la loro forza e il loro formidabile potenziale, ma egli ricordava le vecchie storie e la lezione che insegnavano. Qualunque profugo della Gallia sapeva di poter essere accolto tra i Catuvellauni, ed era così che il loro capo aveva modo di interrogarlo benevolmente sulla minaccia che l'aveva costretto a fuggire dal suo Paese. Ora che vedeva il pericolo con i propri occhi, avvertiva un insolito senso di buoto alla bocca dello stomaco. Era paura? «Signore? È tempo di andare».
Guardò dietro di sé, dove gli uomini della scorta lo attendevano tenendosi sotto la cresta del colle. Ballan aveva ragione. Se fossero rimasti più a lungo avrebbero corso il rischio di essere presi in trappola dalla cavalleria ausiliaria che sicuramente accompagnava le truppe romane. Ma il suo sguardo fu attratto di nuovo dalla colonna in marcia e da qualche improvviso luccichio del sole su un'armatura brunita. Nella quiete del limpido mattino udiva le note lontane dei corni. Perfino a quella distanza avevano un timbro straniero. Aggressivo
«Signore? Carataco?» Ballan aveva parlato in tono più alto e pressante, indicando un valico tra due alture circa un chilometro e mezzo davanti a loro, sul quale erano appena comparsi alcuni punti in movimento. Cavalieri. Ancora pochi minuti, e sarebbero stati tagliati fuori.
«Via!», gridò, correndo giù per il pendio e balzando in sella al suo pony. Carataco, re dei Catuvellauni, si diresse verso nord per preparare il suo popolo alla guerra.
Gaio Valerio Verre
[modifica]L'eroe di Roma
[modifica]Mentre camminava nudo tra i fuochi gemelli, le fiamme si allungavano verso di lui come le braccia di un amante. Ne sentiva la calda carezza sulla pelle, ma sapeva che non potevano fargli del male, perché erano le fiamme del dio Taranis e lui era il suo servo. La pelle di chiunque altro si sarebbe bruciata e raggrinzita sotto il loro calore, ma lui restava illeso.
Quando raggiunse il lato opposto della stanza, trovò ad attenderlo Aymer, l'alto sacerdote della setta, con indosso gli abiti che avrebbe portato per il suo viaggio, purificati e benedetti a loro volta. Il druido era molto anziano, un involucro umano rinsecchito, prosciugato e consumato da lunghi anni di duro lavoro, di studio e di astinenza nelle grandi sale dalle pareti di quercia di Pencerrig. Ma la forza vitale pulsava ancora in lui con grande intensità, e Gwlym la sentiva, insieme all'innegabile espansione della sua mente di fronte a quegli occhi scoloriti e lattiginosi che fissavano i suoi. Non furono pronunciate parole quando Aymer gli passò la conoscenza che lo avrebbe portato alla sua meta, ma lui vedeva già con chiarezza il percorso. Le montagne nere, con le gole profonde e i sentieri stretti lungo torrenti schiumosi e disseminati di rocce. Il grande fiume vorticoso, scuro e profondo, che Gwlym avrebbe dovuto attraversare senza farsi scorgere, per poi avventurarsi, rischiando ancora di più, sulla distesa verde del pascolo, con i suoi sentieri molto battuti e gli abitanti curiosi, prima di raggiungere, alla fine, il rifugio delle foreste e del mare lontano.
«Tutto è compiuto», disse il sacerdote, con la voce resa più fragile dall'età. «La purificazione è completa».
Combatti per Roma
[modifica]Roma, 63 d.C.
Avanzavano verso di lui a ondate sull'erba estiva in poltiglia, alti e slanciati, educati alla guerra; le punte delle loro lance scintillavano sotto i raggi obliqui dell'alba e il loro incedere riecheggiava come un tuono profondo. E, appena lo raggiungevano, lui li ammazzava.
Era nato per questo: per dispensare morte. La sua mente esplodeva di selvaggia e atavica gioia appena la punta del gladio e la forza del potente braccio destro che lo brandiva tagliavano gole e squarciavano budella, l'efficacia di ogni colpo confermata dalla nube scarlatta che è il solo, vero segno distintivo della battaglia.
Uno dopo l'altro li guardava morire e contava le sue vittime pronunciando i nomi dei romani che stava vendicando. Per Lunario. Per Paolo. Per Messore. Per Falco.
Per Valerio.
La vendetta di Roma
[modifica]La spada di un uomo poteva essere sua amica o sua nemica. Ogni spada aveva sottili differenze. La spada di un uomo ricco veniva forgiata con il miglior ferro ricco di carbone ed era affilata come il bisturi di un chirurgo. La spada di un ausiliario era uguale a mille altre, rozza e mal rifinita in qualche armeria di provincia. La spada di un povero poteva spezzarsi o piegarsi. Le spade migliori erano come gli uomini che le brandivano: il loro limite massimo era messo alla prova nella furia della battaglia. La spada che Gaio Valerio Verre aveva in mano era la spada di un guerriero.
Valerio studiò la lama alla luce della lampada a olio. Un semplice gladio legionario, lungo ventidue pollici, dotato del taglio che solo un soldato veterano poteva conferirgli e di un'impugnatura di cuoio modellata dalla presa delle sue dita. Il gladio era un'arma letale, niente di più niente di meno. Nelle mani giuste, mieteva vite con la stessa efficienza con cui una falce mieteva il grano. Solo il pomo decorato, un lucente bulbo d'argento lavorato a sbalzo con una Medusa con la testa di serpenti, differenziava questa spada dalle altre.
Le sue dita si fletterono sull'impugnatura e la mente cercò di calcolare il pericolo imminente. Dapprima aveva sentito le vibrazioni: il fremito quasi impercettibile che risuonava nella terra riarsa della strada che portava alla villa di famiglia a Fidene. In poco tempo la sensazione si era trasformata nello smorzato rimbombo di cavalli al galoppo. Non c'era paura. Semmai provava una strana serenità. Aveva sempre saputo che sarebbero venuti. Era solo questione di tempo. Allarmato da un fruscio, si voltò, pronto ad affrontare la nuova minaccia, ma si ritrovò a guardare negli occhi liquidi di sua sorella Olivia. Certo, anche lei doveva averli sentiti. A modo suo, aveva molto più da temere di lui. Le sorrise dolcemente e scosse la testa. C'erano già passati altre volte. Non c'era niente da fare. Ciascuno avrebbe affrontato alla propria maniera quanto incombeva. I pallidi lineamenti, quasi di alabastro, si voltarono risoluti. Si congedò da lui con un cenno del capo prima di ritirarsi per fare pace con il suo Dio, e trovare conforto nel pugnale che le avrebbe risparmiato la terribile fine che l'imperatore aveva stabilito per coloro che veneravano l'uomo Cristo.
Nel segno di Roma
[modifica]Gallia meridionale, maggio, anno 68 d.C.
Era morta proteggendo suo figlio, sembrava evidente. Una mano minuscola, le dita già tumefatte dal caldo soffocante, giaceva col palmo in su appena visibile sotto l'orlo della logora tunica grigia che le copriva il corpo. I capelli corvini che fluttuavano nella lieve brezza erano ancora splendenti, nei punti non incrostati da sangue e materia cerebrale fuorusciti dall'orrenda ferita al cranio. Gaio Valerio Verre era grato di non poter vedere il volto della madre. Alzò gli occhi ai corvi e agli avvoltoi che volavano in cerchio nel cielo assurdamente azzurro; le loro grida di protesta, per esser stati disturbati durante il banchetto, erano un improbabile lamento funebre per i caduti. Con stanca rassegnazione tornò in sella al grande roano e ispezionò i mucchi di cadaveri gonfi, che giacevano come vermi sparpagliati sul campo di mais non ancora maturo, tra il bosco e i filari di ulivi.
«Dovevano essersi nascosti tra gli alberi», disse accigliato. «Ma chiunque li abbia uccisi deve averli stanati e poi rincorsi quando hanno cercato di scappare».
«Che importanza ha?» Colui che gli aveva risposto era riuscito a infondere nella propria voce impazienza ed arroganza in egual misura. «Sono solo un mucchio di paesani barbari. Stiamo perdendo tempo».
I nemici di Roma
[modifica]Pannonia occidentale, agosto 69 d.C.
«Sei condannato a morte».
Il verdetto provocò un violento sussulto a Gaio Valerio Verre, come se gli fosse stata gettata addosso acqua ghiacciata. Tutta l'aria sembrava essere stata risucchiata dalla tenda opprimente e i tre ufficiali di fronte a lui, dietro al traballante tavolo, baluginavano come un miraggio nel deserto. Al centro, Vedio Aquila, comandante della Tredicesima legione, continuava a illustrare i reati del prigioniero. Verre vedeva le sue labbra muoversi, ma il significato delle parole si perdeva nello spazio che li separava. Era impossibile che stesse accadendo.
La guerra civile che dilaniava l'impero romano dalla morte di Servio Sulpicio Galba, quasi nove mesi prima, avrebbe dovuto essere finita. L'assassino di Galba, Otone, era morto, il suo esercito sconfitto sull'umida pianura tra Cremona e Bedriaco da forze leali al governatore della Germania, Aulo Vitellio. Adesso Vitellio sedeva su un trono dorato con il mantello dell'imperatore e la corona d'alloro, la sua posizione era stata confermata dal Senato e dal popolo di Roma. Divisione, inganno e tradimento di vecchi alleati sono l'essenza stessa della guerra civile.
La conquista di Roma
[modifica]Roma, gennaio 70 d.C.
«Temo di dover riferire un fallimento ad Atene». L'unica reazione dell'uomo sul trono fu un leggero accenno del capo, ma il messaggero trasalì alla minaccia che le sue parole avevano acceso negli occhi scuri e spietati. «Il nostro agente è scomparso, proseguì esitante. E il traditore ha potuto imbarcarsi per l'Oriente».
«È possibile che sia stato avvertito?».
Il messaggero si prese il tempo per riflettere sulla risposta. Si trattava di un territorio ancora più pericoloso. In base alle interazioni con Tito Flavio Domiziano, il figlio minore dell'imperatore Vespasiano, sapeva bene che il nuovo prefetto di Roma nutriva un odio irrazionale per l'uomo di cui stavano discutendo. I motivi affondavano nel torbido degli intrighi e delle cospirazioni dei diciotto mesi della guerra civile, che per poco non avevano messo Roma in ginocchio. A neanche cinquecento passi da dove sedeva Domiziano, stavano ancora tirando fuori ossa carbonizzate dalle rovine incenerite del tempio di Giove sul Campidoglio. I semi dell'aspro conflitto erano stati piantati dal suicidio forzato di Nerone, dopo che la parabola discendente dell'eccentrico giovane imperatore gli era costata il sostegno delle legioni e del Senato. Il suo successore, Sulpicio Galba, governatore della Spagna, aveva commesso l'errore di rimangiarsi la promessa di pagamento fatta alla Guardia Pretoriana ed era stato assassinato da Marco Salvio Otone, l'uomo che aveva rifiutato come erede. Quando ormai il nuovo imperatore era salito al trono, le legioni germaniche di Aulo Vitellio stavano già marciando su Roma e una disastrosa sconfitta a Bedriaco era costata a Otone la vita. In un ultimo colpo di scena, il padre di Domiziano, Vespasiano, generale delle legioni orientali, era stato acclamato imperatore dai propri ufficiali. Dopo una campagna che aveva lasciato il suolo dell'Italia insanguinato e disseminato di ossa sbiancate dal sole, i sostenitori di Vespasiano avevano finalmente strappato la porpora dalle mani di Vitellio e l'avevano massacrato sulle Scale Gemonie.
Adesso, Vespasiano stava facendo la sua trionfale avanzata su Roma dall'Egitto, mentre Domiziano tutelava i propri interessi nella capitale e Tito, il figlio maggiore, era al comando delle legioni che stavano schiacciando la rivolta in Giudea. Per il momento, Domiziano era il sovrano della città in tutto fuorché nominalmente e deteneva il potere di vita e di morte su ogni abitante. Il messaggero sapeva che le sue prossime parole potevano mettere in atto quel potere.
Per la salvezza di Roma
[modifica]Hispania settentrionale, 72 d.C.
Era steso in una buca poco profonda, affacciata sulla valle polverosa. Il sole iberico splendeva inesorabile, quasi cercasse di liquefare le rocce appuntite sotto di lui. La testa gli bruciava come un carbone ardente, nonostante il turbante di stoffa che gli copriva il viso. Solo gli spietati occhi da predatore erano ben visibili, per spaventare chiunque li incrociasse. Aveva seguito il convoglio senza sosta per tutto il giorno, ma solo negli ultimi minuti aveva elaborato un piano di attacco. Lo ripassò ancora una volta, poi strisciò verso gli altri, appostati dietro la cima della collina, invisibili.
«Devono attraversare il fiume al vecchio guado, sotto la Falesia degli avvoltoi». Con la punta del pugnale tracciò una mappa sulla sabbia e i dieci uomini si avvicinarono a cogliere i suoi bisbigli. «Li fermerete là».
Per la gloria di Roma
[modifica]Mona, 78 d.C.
Owain Lawhir, re supremo degli Ordovici, osservava la scena con malcelata agitazione. Anche se non era a suo agio in quel luogo, e non lo era mai stato, il capo guerriero si ergeva in tutto il suo splendore: una spanna più alto degli altri uomini, con una torquis dorata intorno al collo e la spada di ferro nella guaina d'oro appesa alla via. I massi che delimitavano il cerchio spiccavano come denti marci immersi nella luce rosata di quel tramonto di inizio estate. Al centro esatto un'altra roccia, dello spessore di una spada e la lunghezza di quattro, giaceva in orizzontale. la superficie levigata dagli innumerevoli corpi che vi si erano dimenati sopra. Minuscoli frammenti di quarzo brillavano qua e là riflettendo la luce del crepuscolo, ma l'altare era perlopiù ricoperto dalla patina nera e opaca del sangue incrostato e puzzolente dei buoi sacrificati durante i riti di Beltane. Alle estremità, una coppia di anelli di ferro forgiata da un fabbro morto ormai da secoli.
Di fronte alle colonne che delimitavano l'ingresso, si trovavano cinque druidi vestiti di bianco. Tre erano uomini nel fiore degli anni, alti e ostili, con i volti impassibili e duri e una posa solenne, spia della loro disciplina di ferro. Uno era un ragazzino che, nonostante gli sforzi per emulare i più anziani, tradiva un certo nervosismo dissipando ogni dubbio sul ruolo che avrebbe giocato all'interno della cerimonia. I quattro sacerdoti ne affiancavano un quinto che, paragonato a loro, non sembrava altro che un omuncolo grinzoso e rachitico. Era di spalle, aveva il volto coperto. Si vedeva soltanto la corona di capelli bianchi che gli circondavano la nuca come tanti raggi solari e la schiena esile e ingobbita da chissà quale peso.
Fuori dal cerchio di pietre, attendevano centinaia di uomini. Loro non avevano il permesso di entrare, la disobbedienza sarebbe stata punita con la morte. I mantelli eleganti, le spade di ferro e i cerchi dorati intorno al collo tradivano la loro identità: erano l'élite, i re degli Ordovici e i vari comandanti di tribù e sottotribù. In un'altra circostanza avrebbero dato il sangue per essere al posto di Owain. Ma non oggi.
L'orgoglio di Roma
[modifica]Roma, 79 d.C.
Tito Flavio Vespasiano sorrise all'amico, seduto di fronte a lui. La luce incerta delle lampade a olio illuminava la scintillante superficie dorata del tavolo creando zone d'ombra sul viso di Aulo Cecina Alieno e facendolo sembrare molto più vecchio dei suoi quarantacinque anni.
«È stato gentile da parte tua invitarmi». La voce echeggiò nella grande sala da pranzo. «Erano molti anni che non cenavo al Palatino».
«Naturalmente», convenne Tito con voce assente. «So che Vitellio preferiva la Domus Aurea invece, non è vero? Diceva che i palazzi qui sulla collina sono pieni di correnti d'aria e scomodi». Alleggerì quelle parole con una risata. Cecica non amava ricordare il pur breve periodo in cui era stato al servizio dell'imperatore Vitellio, né le voci di complotti, cospirazioni e addirittura tradimenti che ne erano derivati. E non si trattava solo di voci.
Quando i venti avevano cambiato direzione e i generali di Vespasiano marciavano su Roma da Oriente, Cecina avrebbe potuto volgere irrevocabilmente la campagna a favore di Vitellio, ma per qualche strano motivo - o forse non così strano - si era offerto di consegnare sé stesso e le sue legioni ai Flavi. Era stato un errore di valutazione, come fu chiaro in seguito. Aveva interpretato male lo stato d'animo dei suoi centurioni, che lo avevano prontamente gettato in una cella in attesa dell'esecuzione. Solo il rapido trionfo di Vespasiano lo aveva salvato da una prematura morte. In qualche modo, aveva anche convinto il nuovo imperatore a risparmiargli la vita mentre i sui compagni generali stavano perdendo la loro. Cos'era che dicevano di lui? Sì, esatto. Aulo Cecina Alieno sarebbe riuscito a vendere una gamba di legno anche a un cane a quattro zampe. Tito rise di nuovo e Cecina lo guardò con una specie di riverenza.
Bibliografia
[modifica]- Douglas Jackson, La saga di Rufo. Morte all'imperatore!, traduzione di Cristina Minozzi, Newton Compton, 2008. ISBN 978-88-541-5540-4
- Douglas Jackson, La saga di Rufo. Il segreto dell'imperatore, traduzione di Milvia Faccia, Newton Compton, 2011. ISBN 978-88-541-3250-4
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. L'eroe di Roma, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton, 2012. ISBN 978-88-541-4527-6
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. Combatti per Roma, traduzione di Valentina De Rossi, Newton Compton, 2015. ISBN 978-88-541-7726-0
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. La vendetta di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2016. ISBN 978-88-541-9900-2
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. Nel segno di Roma, traduzione di Emanuele Megalli, Newton Compton, 2017. ISBN 978-88-227-1509-8
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. I nemici di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2018. ISBN 978-88-227-2392-5
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. La conquista di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2019. ISBN 978-88-227-3521-8
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. Per la salvezza di Roma, traduzione di Donatella Semproni, Newton Compton, 2020. ISBN 978-88-227-4521-7
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. Per la gloria di Roma, traduzione di Carlotta Mele e Beatrice Messineo, Newton Compton, 2021. ISBN 978-88-227-5542-1
- Douglas Jackson, Gaio Valerio Verre. L'orgoglio di Roma, traduzione di Donatella Semproni, Newton Compton, 2022. ISBN 978-88-227-6873-5
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