Drago Jančar
Drago Jančar (1948 – vivente), scrittore e saggista sloveno.
Internazionale, 30 agosto 2021.
- Guardo alla Jugoslavia a volte con nostalgia, altre con rabbia. Con nostalgia per la sua incredibile diversità culturale e per i miei amici; con rabbia per la dittatura e per gli stupidi politici che l’hanno governata. Se la Jugoslavia fosse stata una democrazia, probabilmente non si sarebbe disintegrata. Ma era una dittatura, con un unico e infallibile leader al vertice e un potente apparato militare, poliziesco e burocratico.
- La Jugoslavia era una dittatura, anche se molto più libera di altri stati comunisti. Negli anni sessanta le frontiere vennero aperte e la gente scoprì che si viveva meglio che in Ungheria o in Cecoslovacchia. La cultura circolava abbastanza liberamente, la creatività era possibile. Altrove nell’Europa dell’est sarebbe stato difficile immaginare che – come succedeva a Lubiana o a Belgrado – le librerie esponessero opere di Solženitsyn, Kundera, Bunin, Camus o Orwell.
- La Jugoslavia si è disintegrata non solo a causa dei nazionalismi, delle differenze culturali ed economiche. Queste disparità hanno certamente avuto un effetto centrifugo, ma la colpa principale è stata della dittatura. Chi era al potere non ha capito che era arrivato il momento di cambiare. Ancora oggi credo che il grande stato jugoslavo non si sarebbe sgretolato se avessimo avuto un ordinamento democratico. E, se anche fosse successo, non sarebbe avvenuto in maniera così violenta.
- Se quello che è successo alla Jugoslavia potrebbe succedere all’Unione europea... Credo che il paragone sia sbagliato, perché proprio grazie a valori come i diritti umani, la libertà di espressione e le frontiere aperte in Europa è ancora possibile discutere. In Jugoslavia a un certo punto non è stato più permesso. Nonostante la crisi del covid-19, le recessioni economiche, il terrorismo islamista e la cosiddetta crisi migratoria, gli europei non si lasceranno privare della libertà e della democrazia.
La storia termina quando, dando sfogo alla collera e al dispresso, la plebaglia strappa dalla sua casa un professore in pensione, già decano della facoltà di giurisprudenza, un uomo vecchio dal cuore malandato, e lo carica su una carriola. Lo porta per le vie tortuose della vecchia città verso la riva del fiume, per buttarlo nella corrente rapida e fredda. Noi sentiamo le ultime frasi della storia di uno sloveno urlato, in un dialetto aplino dell'Alta Carniola; nella via dove sferraglia la carriola, facendo sobbalzare il corpo inerme, echeggiano grida di scherno. Il professore d'improvviso sente nella testa un vuoto, qualcosa come un buco, quando sul suo capo spossato si rovescia una pioggia di sarcasmo, si abbatte una tempesta di insulti, cola un diluvio di risa, batte una grandine di invettive rabbiose.
Bibliografia
[modifica]- Drago Jančar, L'allievo di Joyce. Racconti, trad. di Veronika Brecelj, coedizione Ibiskos Editrice Risolo e ZTT-Est, Empoli-Trieste 2006, collana Est-Libris.
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