Flavio Baroncelli

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Flavio Baroncelli (1944 – 2007), filosofo italiano.

  • Non può essere un male dire la verità; non è un male salvo eccezioni che debbono essere molto limitate e ben giustificate. E certamente non è mai un male pensarla, la verità. (da Il razzismo è una gaffe: eccessi e virtù del politically correct, Donzelli Editore, 1996)

Viaggio al termine degli Stati Uniti[modifica]

  • L'armadillo, quando avverte un rumore sospetto, si alza sulle zampe posteriori per vedere cosa sta succedendo. Lo fa anche quando sta attraversando un'autostrada, e sente un'auto che si avvicina. In questo modo, azzera le sue possibilità di non essere investito. Anche i poveri americani votano Bush per un riflesso acquisito in altre epoche e in altri ambienti, quando la devozione nei confronti del maschio dominante aveva effetti positivi per la sopravvivenza del branco. (dalla quarta di copertina)
  • Già oggi, pochi anni dopo, si stenta a crederci, ma è un fatto: parte della sinistra italiana, per conservare intatta la visione delle sorti progressive quasi garantite, a tratti si spinse a teorizzare che le privatizzazioni e la precarietà, visto che sembravano rese necessarie dalla Storia, allora andavano classificate non soltanto come genericamente progressive, ma anche come di sinistra. (cap. I, 3, p. 33)
  • Come quasi tutti gli ex-marxisti della mia generazione, ero un neofita del liberalismo, e nel mio entusiasmo semplicistico e ignorante lo usavo come una mazza. In sostanza, non facevo altro che adoperare il liberalismo per semplificare indebitamente la realtà, più o meno come si faceva pochi anni prima usando il marxismo. Rimaneva invariato l'atteggiamento psicologico, la presunzione semplificante.
    Avevo cambiato le mie idee per rimanere identico a me stesso. Di fronte alla richiesta di occuparsi seriamente e concretamente dei problemi delle donne, degli omosessuali, della gente scura di pelle, l'importante era disporre di un'elegante via di scampo. Non era poi così essenziale che, mentre anni prima la scappatoia era l'appello alla lotta di classe e a una perfetta rivoluzione, negli anni ottanta, con la crisi del marxismo, si fosse resa disponibile un'altra chiave universale: l'assolutezza dei criteri formali di uguaglianza. La sicumera rimaneva identica a se stessa. (cap. I, 3, p. 37)
  • Il rivoluzionario, sia esso leninista o individualista, ha la forza incosciente dell'apprendista stregone, l'integrità priva di scrupoli del fanatico ossessionato da un Unico Bene sfavillante all'orizzonte. [...] È bene capire che, adottando la mentalità neocon, si può anche godere di soddisfazioni intellettuali non irrilevanti. È dal tempi di Marx che non ci si imbatte in una concezione altrettanto radicale e sincera degli scambi e dell'accumulazione di capitale. Tale concezione, proprio come quella di Marx, permette di liberarsi di un bel po' di spazzatura morale e giuridica. Lo dico senza ironia, perché concetti morali e figure giuridiche, o paragiuridiche, come «speculazione», «usura», «immotivato aumento dei prezzi», sono davvero spurie. Per lo più queste trovate da Robespierre in fase di disperazione servono a fare della demagogia, o del populismo. Arti nelle quali, quando ci confrontiamo con la spregiudicatezza neocon, non possiamo che risultare battuti. (cap. I, 6, p. 55)
  • Certo che come procedimento mentale non è tanto rassicurante: uno non si immagina niente di preciso e poi, di fronte alla realtà, si scandalizza. (p. 95)
  • E allora il sospetto molto fondato è che Faulkner non sia molto popolare [fra gli statunitensi meridionali] perché non coltivava il vittimismo anti-yankee. Conosceva, inoltre, un'arte davvero difficile, che forse nessun altro ha mai posseduto in quel grado sublime: quella di descrivere, seguendone con precisione gli andamenti, i rapporti sociali tra bianchi ed ex schiavi, dolci o crudi che fossero, senza mai dare giudizi di alcun tipo, ma anche senza mai smettere di farti toccare con mano il fatto che si trattava di rapporti tra uomini. Non è banale come potrebbe sembrare. Anzi: è quasi impossibile, a meno di non scrivere un comizio o un'omelia, evitare di trasmettere l'impressione che un nero sia un nero e poi, a pensarci bene, per via di certe dichiarazioni dei diritti, anche un uomo. Quando un romanziere attuale ci prova, finisce che se non stai spasmodicamente attento non ti accorgi neppure che tra i protagonisti ci siano dei neri. Tanta «cecità nei confronti del colore» contiene in sé qualcosa di ammirevole, ma ha più valore come tacito comizio antirazzista che come descrizione dei rapporti sociali, in quanto per ora esiste solo nei romanzi.
    Riuscire a scrivere come Faulkner è ancor oggi qualcosa di sovversivo, che credo non vada bene né ai neri, né ai bianchi. (cap. II, 12, p. 101)
  • Arrivano i nostri piatti, con dentro dei sandwich. In questo immenso paese il pane è, mediamente, di gran lunga il peggiore del mondo, peggio di quello che davano sui treni italiani di trenta anni fa; eppure sembra che trovino ogni pretesto per usarlo. Forse sperano di finirlo, di liberarsene una volta per tutte. Quasi sempre, al posto di un piatto con sopra ciò che hai ordinato, ti arriva un piatto con sopra un panino con dentro ciò che hai ordinato. Spesso non esiste una qualsivoglia giustificazione gastronomica o pratica por questo, e appunto vedi i clienti nativi che con tutta naturalezza tolgono il pane e usano le posate come ragione comanda. Certi cibi vanno messi in mezzo al pane, e poi sul piatto, con le posate, per pura tradizione. Così faceva la mamma, che aveva imparato dalla nonna. Che aveva imparato dalla bisnonna. Che era un'imbecille. (cap. II, 16, p. 117)
  • È una maledizione, questa cosa che succede quando giri negli States. Tutte le realtà quotidiane che vedi finiscono per non sembrarti vere, originali, realmente esistenti. Hollywood ha lavorato tanto, e nel complesso così bene, oppure ci ha così profondamente sconvolto la mente, che buona parte della vita ordinaria degli americani ci sembra, e forse è, un nostalgico remake. (cap. II, 18, p. 123)
  • Siamo così abituati, noi italiani, alla religione che si manifesta in immagini dipinte o scolpite, che l'assenza del tipo di iconografia cui siamo avvezzi ci sembra sintomo di laicità. Decine di storici e di autori di testi scolastici italiani ci hanno trasmesso questa idea, e più i nostri studiosi erano laici e più tendevano a guardare con simpatia i protestanti, prendendoli, appunto, per laici. Che poi è esattamente quello che hanno sempre pensato i polemisti cattolici: fuori della Chiesa di Roma, c'è solo dell'ateismo appena appena mascherato.
    È così, con la mente infradiciata da questa tradizione interpretativa che, nonostante gli avvertimenti di Tocqueville, per esempio, e di Marx, ci si avvia a non capire nulla dell'America. Magari, come sta accadendo agli intellettuali italiani in questo periodo, si scopre all'improvviso che milioni di americani sono fedeli e anche fanatici, e, siccome prima non lo si sapeva, si decreta che si tratta di una novità. Se poi si tende a filosofare, allora, come s'usa in questi anni, si inventa l'ennesima nuova epoca: quella della post-secolarizzazione. (cap. III, 4, p. 140)
  • Mi rendo conto che è una visione deludente, ma temo proprio che non ci sia bisogno di analisi più profonde; la famosa educazione anglosassone è pura e semplice paura delle sanzioni. Che sono quasi sicure e quasi inevitabili. E qui sta la differenza: non – come invece mi insegnarono nella facoltà di Filosofia – nel diverso modo di colloquiare con Dio, di concepire la propria coscienza, il peccato originale e la remissione dei peccati. In realtà sono come noi ma, al contrario di noi, di solito non si illudono di poter sfuggire alle sanzioni. (cap. III, 10, p. 167)
  • Che curioso paese è il nostro: c'è stato uno strano ingorgo alle frontiere, per cui abbiamo importato la correttezza politica mezz'ora prima di importare il non poterne più della correttezza politica. O forse persino viceversa. (cap. III, 11, p. 171)
  • La peculiarità che maggiormente caratterizza il razzismo passivo è di essere obbligato, inevitabile; è come se si trattasse di un dato della natura, perché è per lo più costituito da reazioni indispensabili la cui necessità scaturisce da costrutti storici duraturi, solidificati, che modulano l'ambiente sociale profondamente, e si possono rettificare solo in periodi molto lunghi.
    Che le cose stiano così non è colpa di nessuno, o almeno di nessuno che sia in vista, nessuno con cui si abbia a che fare. Rendersene conto è una buona premessa per risparmiare energie ed evitare litigi inutili. Il militante antirazzista intelligente se ne rende conto e fa il possibile per ridurre al minimo le conseguenze; l'idiota non se ne accorge e infierisce, producendo danni a se stesso e agli altri. Per esempio, in fase di denuncia, il nero idiota accuserà i suoi alleati bianchi sia di tener conto del suo colore sia di non tenerne conto; in fase di controffensiva, teorizzerà la superiorità dei neri sui bianchi con sincero entusiasmo. [...] una società davvero color-blind potrà esistere solo nel futuro. Questo, ovviamente nel caso che, come spero, gli antirazzisti la abbiano fortemente voluta, e abbiano vinto le loro battaglie per almeno due secoli di seguito. (cap. III, 12, p. 175)
  • La famiglia, bel brevetto del Sud. Cos'è, è il culto del triciclo del trisnonno materno, la negazione dell'esistenza degli omosessuali, il cenone di Natale, o forse la bucolica idea che le tragedie e le violenze in famiglia fanno parte del diritto naturale, purché non lo si venga a sapere in giro? Cosa c'è di speciale in questo famoso amore sudista per la famiglia? Non mi risulta che in Canada si disprezzino figli e genitori. Credo che siamo sempre troppo indulgenti con chi afferma «da noi sì che c'è il culto della famiglia». E una sorta di ricatto: io ti dico che la mia particolarità è un tremendo amore parentale e filiale, e tu adesso prova un po' a criticarmi! (cap. III, 13, p. 177)
  • Kerry non faceva di tutto per convincere la gente che tra liti e Bush non c'era molta differenza. Era così evidentemente un antipatico intellettuale, rappresentava così evidentemente e così esclusivamente tutto ciò che i cafoni del Sud odiano svisceratamente. E, per di più, commetteva il peccato più grave di tutti: esibiva dell'indecisione, ammetteva cioè in qualche modo lo scandalo più grosso di tutti: la realtà non è semplice. Credo che con Kerry sia emersa una reazione al clintonismo più deprimente: non distinguersi dall'avversario nemmeno per il taglio dei capelli. Fino a vincere al posto del nemico. Un comportamento geniale. Serve a far procedere i valori della destra anche con le gambe della sinistra. Fa venire in mente la vecchia gag dove un tizio prende un mucchio di schiaffi da uno che lo crede Gigi, ma furbescamente non gli rivela l'equivoco, perché intanto lui non è mica Gigi. (dalla conclusione del libro)

Bibliografia[modifica]

  • Flavio Baroncelli, Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano, Donzelli, Roma, 2006.

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