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Gian Luca Favetto

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Gian Luca Favetto (1957 – vivente), scrittore, giornalista, drammaturgo, critico teatrale e cinematografico italiano.

Citazioni di Gian Luca Favetto

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Citazioni in ordine temporale.

  • [Su Novak Đoković e Andy Murray] Sono coetanei, 29 anni, nati a maggio: uno sembra un eroe greco disegnato con ironia, l'altro un elfo del Nord ingrugnito e insoddisfatto.[1]
  • E però, vuoi mettere Djokovic, l'Ufo Robot più martellante che ci sia, grinta e geometrie, uno che gioca a petto in fuori e che, fino a qualche mese fa, sorrideva molto? E vuoi mettere la paradisiaca raffinatezza di Federer? E quel mastino asfissiante di Nadal, tutto tic e potenza atletica, dotato di umanissima tenacia? E prima ancora, vuoi mettere Agassi e McEnroe? Una collezione di personalità fra eleganza e follia, esuberanza, genio e ruggiti, altro che lagne e brontolii.[1]
  • Un giocatore di tennis si riconosce dallo smash, così diceva. Anche dalle volée d'appoggio, quelle che preparano la chiusura a rete. Ma soprattutto dallo smash, raccontava mio padre. Una volta che hai gli altri colpi, diritto, rovescio, passanti, servizio, è lo smash che distingue il giocatore. Per gestire il pallonetto dell'avversario, devi puntare il cielo con lo sguardo e schiacciarlo a terra con un'acrobazia. Non solo la pallina, tutto il cielo devi portare giù per fare punto.[1]
  • Lo smash è un sorriso che frastuona.[1]
  • Uno che, con la faccia squadrata e il naso a patata, è il sorriso perfetto si chiama Roger Federer. Da ragazzino sfasciava le racchette, poi il talento gli ha fatto fare pace con se stesso. Tutto il suo corpo ha cominciato a sorridere nell'eleganza dei suoi gesti semplici, naturali. Non solo la racchetta, anche la pallina è diventata una parte di lui. Tra pensiero e azione non c'è stata più differenza: la risposta, la demi-volée, il passante prima si fanno punto e poi vengono pensati e ammirati. È così che Federer diventa il più bello di tutti, ispirato e incantevole, l'ultimo degli Dei, parte di quella cerchia che rientra nel Mito, i Tilden, i Laver, i Rosewall, i Borg. In campo è Magnifica Compostezza.[1]
  • [Su Ilie Năstase] Lo zingaro felice, gran campione di imprevedibilità, rapido e leggero, temperamento provocatorio e capricci istrionici.[1]
  • [...] John McEnroe, una peste irrequieta con le lentiggini. Altro statunitense, altro mancino provocatore. È la Mocciosità sfrontata che, torneo dopo torneo, si trasforma nel poeta della racchetta, Rimbaud e Baudelaire insieme. Più Rimbaud che Baudelaire, forse. Volgare e immacolato. Negli anni Ottanta sui campi di calcio Maradona è il piede sinistro di Dio; sui campi da tennis la mano sinistra di Dio si chiama McEnroe.[1]
  • Gli anni Novanta sono di altri due artisti: Pete Sampras, che è un cigno, grande battuta e grande volée, un sorriso da serve and volley, e Andre Agassi, che è un macigno, un colosso di coraggio, ribelle di natura, grande risposta, più rapida della luce. Ragazzo schivo, personaggio irresistibile protetto da trucco e parrucco.[1]
  • Una mano sola. Nel suo caso, la destra. Tutta l'eleganza, la forza, la tenacia, la regolarità e l'invenzione, la fatica e il piacere del tennis, Roger Federer li tiene in una mano. Dietro i numeri e le statistiche che cantano la sua gloria, dietro i record, le mille e passa vittorie, i tornei vinti, i titoli del Grande Slam conquistati, i mesi e gli anni vissuti da numero uno del mondo, gli osanna del pubblico, dietro tutti i milioni guadagnati e dentro la leggenda del tennis c'è questa sua mano, che è insieme istinto e cervello, calcolo e cuore, diritto e rovescio, smash e servizio, volée e smorzata.[2]
  • È che Roger con il suo gioco sta incarnando il tempo, lo tiene in sé e non lo fa consumare. [...] è un tennista il cui gioco e la cui persona sono diventati la medesima cosa. Ha dato uno spazio al tempo e si è messo al centro. La sua mano è quel luogo dove il tempo viene a raccogliersi e a stare comodo. È l'Aleph borgesiano, dove passato e presente si mescolano insieme.[2]
  • Ecco che c'entra la mano. C'entra il suo giocare a una sola mano, come gli eroi antichi, come i miti che hanno fondato e tramandato questo gioco, tutto naturale, sempre fluido, senza forzature e strappi: anche il rovescio, che viene via come se l'uomo fosse stato creato con le spalle, il braccio, l'avambraccio, il polso e la mano al solo scopo di eseguire il rovescio. Come se questo colpo fosse il gesto d'amore perfetto per ricongiungere la pallina al campo. Così facendo, anzi così essendo – non è un fare, il suo, è un essere –, Federer conserva in sé e porta al nostro cospetto i grandi del tennis, da Perry a Budge, da Rosewall a Laver, da McEnroe a Sampras. È la loro citazione vivente. Mantiene nostri contemporanei anche quelli che non abbiamo visto giocare, di cui abbiamo sentito raccontare le gesta. E i gesti, che sono sempre gesti bianchi. È questa atmosfera, quest'aura che Federer preserva e trasmette. Ha qualcosa di diverso da tutto il resto e da tutti gli altri, perché è un pezzo di passato che continua nel presente e guadagna il futuro.[2]

Note

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  1. a b c d e f g h Da La tristezza del numero uno, il Venerdì, 2 dicembre 2016.
  2. a b c Da La costruzione di un'icona, Repubblica.it, 31 gennaio 2017.

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