Giorgio Vasta

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Giorgio Vasta (1970 – vivente), scrittore e giornalista italiano.

Citazioni di Giorgio Vasta[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • Le narrazioni si nutrono di contrasti. Si prendono due termini — una bambina che incontra un lupo nel bosco, un enorme gorilla in cima a un grattacielo o un vecchio con una gamba artificiale a caccia di un cetaceo — e dopo averli collegati si sta a vedere cosa succede. Al di là dell'esito della storia, felice o infausto che sia, a coinvolgerci (e a persuaderci) è lo stupore per l'antitesi, il disorientamento suscitato dal legame improprio, eppure inevitabile, tra due elementi che in teoria non dovrebbero avere nessuna relazione.[1]
  • Pubblicato nel 1939, Finnegans Wake è il punto di non ritorno non solo del lavoro letterario di James Joyce ma della letteratura tout court. Gorgo, magma, turbine, Finnegans Wake esiste alla confluenza tra una molteplicità di lingue (alcune rintracciabili, altre solo immaginabili), un lago di parole in armoniosa tempesta che fa coincidere la lettura con il più meraviglioso naufragio.[2]

Il tempo materiale[modifica]

Incipit[modifica]

Ho undici anni, sto in mezzo a gatti divorati dalla rinotracheite e dalla rogna. Sono scheletri storti, poca pelle tirata sopra; infetti, a toccarli si può morire. Ogni pomeriggio lo Spago gli porta da mangiare in fondo al giardino di fronte casa. Io a volte la accompagno. Ci vengono incontro lenti, sbandando laterali, ci guardano con gli occhi che sono gocce d'acqua e fango. Tra i morenti mi sono legato al peggiore nell'abisso; sente i passi e muove la testa piano, come un cieco che segue una canzone. Il pelo nerastro regredito a sbuffo sulla pelle scrostata, una zampa brancolante persa tra le altre; zoppicava già da piccolo, adesso è grande, uno storpio naturale.

Citazioni[modifica]

  • In dialetto non parlo e non penso: mi limito a osservarlo da fuori, ma solo dopo averlo anestetizzato. Quando le parole del dialetto si sono addormentate, le prendo in mano e studio come sono fatte: come tutto ciò che è naturale mi sembrano artificiali. (p. 39)
  • È come se fossimo in una casa a cielo aperto nella quale al posto dei corridoi ci sono i vicoli [di Palermo]. Qui sono tutti parenti, tutti uniti. Le facce simili, la stessa voce. I bambini parlano con la voce dei vecchi. Nessuna differenza tra le pietre e la pelle; la pelle riveste la pietra: se si spacca una pietra, dentro c'è la carne. (p. 50)
  • Mi torna in mente la maestra che quasi un anno fa, durante gli esami ironica e realistica mi aveva detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi. (p. 51)
  • I brigatisti sono sempre accesi, sempre apocalittici. Scrivono «lotta attiva», scrivono «disarticolare le strutture». Sono oracolari. I padri del deserto hanno lasciato le distese di sabbia della Palestina e sono venuti in città, nelle università e nelle fabbriche, a raccontare, a testimoniare, a predire e a maledire. (p. 65)
  • Il piacere della paura c'è ancora, scorre sotterraneo nonostante la tendenza a farci l'abitudine. Siamo il paese della desensibilizzazione degli istinti civili, del depotenziamento di ogni forma di responsabilità. (p. 66)
  • Noi vogliamo che il mondo ci dia del lei, che ci percepisca e ci rispetti, ma siamo impantanati in un'origine scolastica, puzziamo di quell'acqua terribile che agonizza nelle acquasantiere delle chiese, di tabelline imparate a memoria, di qualche rima incatenata, di segni della croce frettolosi e di eroismi isterici. (p. 69)
  • È allora che l'Italia, per un puro caso che però ha una prevedibilità statistica, fa dei rimpalli in avanti che sono come dei rutti, dei rantolamenti, la squadra avversaria è colta di sorpresa, il pallone finisce tra i piedi di Paolo Rossi – piccolo e turpe, le gambette glabre e il sorriso delirante – e l'Italia fa un gol. Pareggia o vince, porta via. Ingenerosa, vile, guadagnando la partita senza merito. O forse con il merito, l'unico, di avere compreso che tutto ciò che accade è sempre indifferente al merito e che non c'è logica e non c'è giustizia. (p. 82)
  • È vero, penso, Tardelli e Bettega sono belli, ma in Romeo Benetti c'è una dignità asciutta, non italiana e addirittura anti-italiana, un nitore che lo rende, sul campo, vertice e nucleo. (p. 83)
  • Quando avanza palla al piede, Benetti tiene la testa sollevata e osserva feroce il campo estorcendogli spazio. Il suo torace grande e azzurro si riempie di sole, e tutta la squadra se ne sta dietro a quel torace, si fa femmina difesa dal maschio. (p. 83)
  • Ogni volta provo vergogna, continua. Perché mi sembra che quei personaggi avvitandosi su se stessi si stiano avvitando al nostro essere italiani, alla nostra patetica identità nazionale che risolve sempre la lotta in farsa. (p. 102)
  • Scarmiglia si rannicchia sulla sabbia, su un fianco, un braccio piegato, la mano abbandonata sull'anca, la testa leggermente reclinata a sinistra: Aldo Moro che muore e nasce dall'utero metallico della Renault 4. Nel giro di due mesi abbiamo visto quella foto così tante volte che per noi è diventata la foto di tutte le morti. Rannicchiarsi così vorrà dire «morire». (106)
  • Nel corso del tempo, invece, lo Spago è riuscita a inoculare in me la paura di tutto, partendo da un'idea di educazione come immobilità e scomparsa. Giocare con la sabbia senza muovere la sabbia; se hai mangiato, niente bagno prima di quattro ore; non disturbare, non respirare, ma non permetterti di morire. La vergogna di essere vivi. Limitarsi a immaginare il gioco, a supporre di nuotare. Madri che allevano figli fobici e immaginifici. La trasmissione matrilineare delle paure. (p. 108)
  • A volte accendo la televisione. Di pomeriggio fanno dei film. Don Camillo e Peppone, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. L'Italia capisce solo le maschere, i personaggi a una dimensione. Vieni avanti cretino. La paura del Sarchiapone. Appena un personaggio si fa più complesso diventa subito sospetto. (p. 118)
  • Io ho vergogna della paura, è vero, però ho bisogno di poter dire che ho paura. Perché la paura è uno strumento. Serve a conoscere, a capire. La paura deve esserci. Solo che per me c'è sempre. (p. 120)
  • Ascolto e non ci credo, però mi piace la forma che la Bibbia sa dare al mondo: lì dentro il mondo è una cosa seria. (p. 135)
  • A noi, i suoi compagni di classe, chiedono informazioni utili. Nessuno però è in grado di dire qualcosa: Morana non esiste, non è mai esistito. Per un anno ha incarnato il disagio da cui ognuno distoglie lo sguardo. (p. 188)
  • Voglio parlare, io voglio parlare sempre, per sempre, perché parlando fabbrico qualcosa ma soprattutto perché parlando impedisco qualcosa. (p.190)

Note[modifica]

  1. Da Il paradosso felice di una bici in Sicilia, Repubblica.it, 28 luglio 2014.
  2. Da I libri salvati dalla "Lista di Finnegan", Repubblica.it, 19 marzo 2017.

Filmografia[modifica]

Bibliografia[modifica]

  • Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum fax, 2008.

Altri progetti[modifica]

Opere[modifica]