Gordon Doherty

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Gordon Doherty (... – vivente), scrittore scozzese.

Incipit di alcune opere[modifica]

Il legionario[modifica]

Il legionario[modifica]

Estate del 363 d.C.

Costantinopoli soffocava sotto il sole di piena estate. L'Augusteon ribolliva di mille volti accecati dalla luce, madidi di sudore e cosparsi di polvere; l'aria era impregnata dell'aroma penetrante di aglio arrostito e del pesante fetore di sterco di cavallo. I banchi sopraelevati, rivestiti di tessuti vivaci, squarciavano la folla, risucchiando avidi compratori come vortici. Circondata dalle grandiose moli dell'Ippodromo, del Palazzo Imperiale e dei Bagni di Zeuxippo, la piazza del mercato era un crogiuolo dove fare soldi era garantito.
Esattamente al centro, senza alcun sollievo da quell'inferno di mezzogiorno, un mercante dal viso rugoso sorrideva scrutando gli occhi della sua rapace clientela: nobili, senatori, uomini d'affari, quasi tutti sicuramente lestofanti. Riusciva a percepire il peso dei loro borsellini, ansiosi di venire alleggeriti. I denti d'oro del mercante luccicarono al sole.
«Portateli qui!», urlò sopra il frastuono.
Due figure incongruenti vestite solo di un perizoma vennero spinte sul traballante podio in legno: un gigantesco nubiano, con la pelle color carbone interamente ricoperta di cicatrici, e un pallido e tozzo germano. Dalla folla si levò un impaziente mormorio.
Senza distogliere lo sguardo dal suo pubblico, il mercante indicò con la mano la piattaforma alle sue spalle. «Gli schiavi sono il fondamento di qualsiasi attività economica. E oggi, amici miei, farete grandi affari». Puntò il dito verso il nubiano. «Che sia il possente guerriero proveniente dalle remote sabbie africane, un uomo forzuto che potrà servire da valorosa guardia del corpo come da ottimo bracciante», spostò la mano verso il germano, «o il robusto guerriero del Nord, che lotterà con voi fino allo sfinimento!». Fece una pausa godendosi il brusio di interesse della folla. «O l'agile giovane, un ragazzo che discende da legionari...». La voce gli si spense al mormorio di perplessità della gente. A quel punto si girò verso il podio e l'evidente spazio vuoto accanto al germano e al nubiano. La folla scoppiò in un coro di risa.
«Dov'è il ragazzo?», sibilò al suo aiutante.
«Mi dispiace, padrone», strillò l'uomo tignoso, menando un colpo nel carro degli schiavi parcheggiato vicino al podio. «È stato un po'... difficile!».

Gli invasori dell'impero[modifica]

Costantinopoli, estate del 352 d.C.

Ai margini settentrionali di Costantinopoli, a due passi dal porto Prosphorion, il sole di mezzogiorno arrostiva una banchina isolata. Un piccolo gruppo di legionari proveniente dalla guarnigione delle mura scrutava oltre le acque scintillanti del Corno d'Oro in direzione del promontorio settentrionale. Alle loro spalle, i frangiflutti celavano la magnificenza e il trambusto della grande città e solo di tanto in tanto un boato attutito proveniente dall'Ippodromo raggiungeva il molo.
L'optio Traiano si muoveva irrequieto, sotto la corazza a scaglie il sudore gli colava per la schiena e l'aria salmastra faceva ben poco per placargli la sete che lo tormentava. Arricciò il naso adunco e si schermò gli occhi dalla luce accecante perlustrando di nuovo l'acqua. Solo mercantili e barche di pescatori punteggiavano la placida superficie mentre le galee della flotta imperiale erano ormeggiate nelle vicinanze, ignare di cosa doveva accadere su quella banchina. Batté il piede inquieto.
«Verrà», mormorò il centurione Valgo.
Traiano guardò il proprio superiore e aggrottò la fronte: il volto rugoso e incorniciato di capelli bianchi dell'anziano centurione era attraversato da un sorriso minaccioso e la mano era appoggiata ansiosamente sul fodero, Si lanciò un'occhiata intorno e vide che gli altri otto legionari avevano lo stesso sguardo. Poi notò qualcosa sulle merlature dei frangiflutti: un lucente elmo conico con il caratteristico nasale di un sagittarius. Quindi un altro, e un altro ancora.
«Persino gli arcieri, centurione, per sovrintendere a uno scambio di prigionieri?», chiese a Valgo. «Non sarà un po' troppo esagerato per il nostro... visitatore?».
«Allora non conosci la vera entità dell'uomo che verrà oggi, optio». Il superiore lo guardò con un luccichio negli occhi. «Sai perché lo chiamano la Vipera?». Traiano si strofinò la stretta mascella: lo iudex Anzo dei Goti Tervingi, uno spietato signore della guerra definito dai suoi seguaci la Vipera. Con l'aumentare delle tribù gotiche un tempo divise che giuravano lealtà al suo vessillo, cresceva anche l'inquietudine del senato e delle alte cariche dell'esercito. E oggi, la Vipera doveva venire lì, nel cuore dell'impero. «So chi è, i Goti dicono che si è guadagnato quel soprannome perché è un feroce combattente. Un uomo con la mente di uno stratego. Astuto e micidiale».
Valgo scosse il capo. «Sì, ma chiedi ai pochi Romani che lo hanno affrontato e sono riusciti a sopravvivere: ti racconteranno tutt'altra storia. Ha mandato intere legioni nell'Ade. Ha massacrato altrettanti cittadini romani. E ha ucciso anche qualsiasi goto gli abbia messo i bastoni tra le ruote. Un brutto assassino figlio di puttana». Si voltò nuovamente verso il mare, succhiando aria tra i denti e raddrizzando le spalle.

Una vittoria per l'impero[modifica]

Mesopotamia, Persia occidentale, 25 giugno 363 d.C.

Le legioni imperiali erano in rotta. Correvano a precipizio per la piana infuocata, mentre il sole di mezzogiorno le osservava minaccioso dall'alto simile a una spia persiana. Legionari, arcieri siriani, frombolieri armeni e cavalieri dalle corazze di ferro: più di trentamila uomini, macilenti, madidi di sudore, con le armature ammaccate e incrostate di polvere. La formazione incerta e disordinata tradiva un'enorme angoscia. Correndo, con le lingue riarse che sporgevano dalle labbra screpolate e sanguinanti, tutti si lanciavano alle spalle occhiate impaurite.
All'avanguardia della ritirata, il comes domesticorum Gioviano guidava la guardia imperiale. D'aspetto era impressionante: alto, massiccio con il volto rosso e segnato. Ma l'ampia fronte era offuscata dalla paura nei suoi occhi. Era un puro terrore che gli ardeva i visceri al pensiero dei loro inseguitori. Non ti voltare, diceva silenziosamente con lo sguardo fisso a ovest. Al momento era solo polvere dorata e cielo azzurro, ma ben presto sarebbero arrivati alle sponde orientali del Tigri. Presto si sarebbero riuniti alla flotta romana. Presto sarebbero stati in salvo a bordo di una bireme e poi nella Mesopotamia romana sulle rive occidentali del fiume. In quell'istante gli balenò in mente un'immagine: migliaia di legionari uccisi in quella sciagurata campagna che lo fissava con gli occhi senza vita. Nelle ultime settimane avevano combattuto ed erano morti in alcune delle più feroci battaglie a cui avesse mai partecipato. Non avrebbero mai più sentito il sole sulla pelle o le carezze dei loro cari. Ma in quella missione, Gioviano aveva a malapena macchiato la spada. E ora, sperava solo nella propria salvezza. S'incupì a quei timorosi pensieri e intanto il disprezzo per se stesso gli serrava il cuore. Si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, poi guardò la sagoma che gli cavalcava davanti.
L'imperatore Giuliano montava uno stallone bianco e aveva una ghirlanda che gli cingeva come una corona i riccioli biondi. Non indossava l'armatura: solo una veste candida e un cinturone che ben rappresentavano il personaggio. Colui che aveva rinnegato il dio cristiano e dato nuova vita agli antichi costumi pagani. L'energico e impavido leader che aveva guidato l'esercito in quella terra rovente con l'intento di porre fine alla secolare minaccia persiana. Le legioni lo amavano, lo acclamavano per il suo infinito coraggio. Giuliano era tutto ciò che Gioviano avrebbe voluto essere.
Da dove... da dove prendi il tuo coraggio?' Pronunciò silenziosamente Gioviano.

Il flagello dell'Oriente[modifica]

Il Passo Shipka
Agosto, 377 d.C.

Un'aquila volteggiava nel cielo azzurro, scrutando i pendii della catena dell'Emo per avvistare prede che placassero la fame che la divorava. Come per aiutare la ricerca dell'aquila, il caldo vento estivo si fece più teso e fischiò attorno ai grigi speroni di roccia scoscesa, colpendo le frastagliate cime argentee e attraversando il robusto fogliame che cresceva sui pendii. Ma rivelò solo impronte, sbuffi di polvere o cespugli tremolanti dove i roditori si erano sottratti alla vista, consapevoli del pericolo. Poi l'aquila scorse una vigorosa capra di montagna, in equilibrio precario sul ciglio di una scarpata per brucare. Ma la capra era vigile e già stava indietreggiando sotto la quale erano riparati i suoi piccoli.
Non c'erano prede facili lì, perciò l'aquila si librò verso sud, seguita dall'ombra sul sentiero del crinale che si ergeva verso il cuore delle montagne. Qui, nel punto più alto della catena, non si muoveva niente. I venti fischiavano e l'aquila sentì le forze venirle meno mentre cercava qualcosa, qualsiasi cosa...
Poi, i suoi occhi intercettarono una strana forma che, messa di traverso sul sentiero, lo bloccava: un fortino di pietra, bordato da un gruppetto di uomini ricoperti di ferro. Gli uomini portavano qualcosa in cima a un'asta che, per un momento, affascinò l'aquila; un'effige, un riflesso di se stessa, ali spiegate e becco aperto come sul punto di lanciare il suo grido. Ma era... argentea, luccicante e inanimata, con uno stendardo colorato che penzolava sotto di essa, agitato dal vento caldo. Incantata, l'aquila rimase a volteggiare lassù fino a che qualcos'altro non attrasse il suo sguardo: ancora movimento, in arrivo lungo il sentiero da nord verso quello sbarramento.
Un altro gruppo di uomini, molto più numerosi di quelli del fortino, armati di lucenti spade e lance. L'aquila aveva già visto movimenti simili in precedenza e sapeva cosa sarebbe successo poi. Una primordiale sensazione di pericolo imminente si impose con prepotenza. L'istinto prese il sopravvento e l'aquila batté frettolosa in ritirata, lanciando il suo stridulo richiamo. Per il momento la fame sarebbe rimasta insoddisfatta, ma il rapace aveva intenzione di tornare lì più tardi... quando ci sarebbero state carogne in abbondanza.

Imperatori e dèi[modifica]

Antiochia
3 aprile 378 d.C.

Tre legioni in armatura squamata marciavano incolonnate lungo una stretta strada polverosa sul fondo della gola. Monte Silpio e monte Staurino - entrambi scoscesi, dal manto d'oro brunito e punteggiato da ispidi arbusti - incombevano sul percorso come titaniche sentinelle, ammantando le legioni con la loro ombra e salvandole così dal caldo feroce del sole mattutino. Il clangore degli stivali e delle armature rimbombava tra le pareti della gola, e gli occhi dei legionari continuavano a guizzare nervosi verso le bianche e ripide rupi a entrambi i lati del passaggio. I loro pensieri andavano ai molti racconti sui briganti di quelle zone, alle legioni travolte da rocce lanciate dall'alto o tempestate di frecce, ai cadaveri derubati di borse e armature. Eppure proseguivano, impazienti di posare lo sguardo sulla meta: il possente Cancello di Ferro, ingresso orientale della città imperiale di Antiochia.
L'imperatore Valente cavalcava alla testa della colonna. Un leggero velo di sudore gl imperlava i lineamenti abbronzati, induriti dall'età, e i ciuffi di capelli bianchi scoloriti dalla polvere dorata sollevata dal cavallo. Il sentiero si allargò, l'ombra scivolò via e il sole tornò a riversare il suo intenso calore sulla colonna di soldati. Superata una curva del canyon, l'imperatore strizzò gli occhi blu cobalto e dopo un po' lo vide, poco più avanti: il portale fortificato in pietra calcarea bianca scintillante. Le sue tozze torri e i cancelli di ferro si ergevano come un'imponente diga bloccando il passaggio in quella gola cotta dal sole, e i robusti muri di cinta seguivano su ciascun lato l'ascesa delle montagne, reclamando quel terreno superiore come parte della città. Anche gli uomini lo videro e un mormorio di voci eccitate risuonò dietro di lui.
Dal cancello si udirono squilli di cornua, i corni a forma di G che annunciavano il suo arrivo. Valente si raddrizzò sulla sella, il mantello purpureo gli ricadeva sulla schiena dalle spalline d'acciaio bianco della corazza. Ci siamo, si disse: dopo mesi trascorsi a raccogliere le sue forze, per lui era giunto il tempo di agire.

L'impero invincibile[modifica]

A nord del fiume Danubio
Dicembre, 378 d.C.

Rivoli di sangue colavano sul viso dell'ambasciatore Vitale mentre gli spogli rami invernali gli sferzavano la testa calva. Ma lui accelerò il passo attraverso la fitta foresta, spronato dal terrore, con i sandali che scivolavano sul terreno ghiacciato e i lembi del pallium bianco che si impigliavano negli arbusti. Nella sua mente riecheggiava, riemersa all'improvviso dai ricordi della giovinezza, la voce del suo tutore che parlava degli unni e di quello che avevano fatto agli uomini dell'impero... e lo scalpiccio fin troppo reale degli zoccoli che lo inseguivano, sempre più forte e sempre più vicino.
Con i polmoni in fiamme e il sangue che gli pulsava nelle orecchie, non osò rallentare per guardarsi alle spalle. L'esploratore armato che correva al suo fianco - l'ultimo uomo di scorta che gli restava - si voltò e una freccia con la punta d'osso gli si conficcò nell'occhio. L'esploratore fece una piroetta e si accasciò, spruzzando sangue come pioggia calda sul suo comandante. Un roco «Whooop!» alle loro spalle espresse in lingua straniera la propria approvazione per il colpo andato a segno e poi il rumore degli zoccoli dei cavalieri neri diventò sempre più forte e più vicino. Vitale si alzò, accecato dal panico, con le caviglie che non lo reggevano, un sandalo slacciato, le spine che gli laceravano la veste. Cercò di liberarsi dagli arbusti e dai rami, ma era intrappolato come una mosca nella tela di un regno. Agitò le braccia e scalciò, ma non servì a nulla. Con il cuore che gli martellava nel petto, sentì uscirgli dalle labbra un verso animale e immaginò le lame e i cappi che avrebbero usato per ucciderlo.
Poi, calò... il silenzio.

Sangue sul campo di battaglia[modifica]

1° gennaio 381 d.C.

Un gelido vento sferzava le sponde ghiacciate del Danubio. Le acque - grigie come il cielo plumbeo - schiumavano e vorticavano trascinando a valle enormi lastre di ghiaccio che cozzavano l'una contro l'altra come galee da guerra. In un'ansa, dove la corrente ristagnava, le lastre si erano riunite formando un ponte di ghiaccio da una riva all'altra.
Dalle fitte foreste a nord, un nitrito squarciò l'aria e un rombo di zoccoli risuonò come il battito accelerato di un tamburo. Dalla linea degli alberi si levò una nuvola di brina e spuntò un cavaliere unno in sella a un tozzo destriero. Zolt era un vecchio guerriero con la faccia costellata di cicatrici, lunghi baffi filiformi e la sommità della nuca calva, con sottili capelli che dalle tempie gli pendevano sulle spalle. Fece accostare il cavallo alla sponda, guardando con sospetto il ponte di ghiaccio. Poi spronò in avanti e il destriero, sbuffando e nitrendo. Un sinistro scricchiolio fece fermare Zolt, irrigidito dal terrore... ma il ghiaccio non cedette. Il vecchio guerriero inspirò a fondo e guidò il cavallo, facendo un largo sorriso quando raggiunse la sponda meridionale. Superò al galoppo la scarpata mentre gli zoccoli sollevavano nuvole di pulviscolo ghiacciato, e avanzò fino alla pianura. Si guardò attorno nella distesa bianca e deserta spazzata dal vento infernale. Poi si girò sulla sella verso la sponda settentrionale e gridò con voce cavernosa: «Tengri, il dio del cielo, ci ha indicato la strada. Il ponte è saldo. La porta dell'impero è aperta!». Un fremito attraversò i boschi e, preannunciata da una pioggia di ghiaccio e aghi di pino, apparve l'orda di Zolt: settecento cavalieri unni avvolti in pellicce marroni e pelli di capra, con le spade cariche di faretre, frecce, funi, asce e lance.

L'aquila nera di Roma[modifica]

Fine ottobre 382 d.C., deserto siriano

Trentasei romani avanzavano nel deserto rovente, con l'aria secchissima che formicolava sulla pelle come l'alito di un forno. I primi sei del gruppo procedevano in groppa a cammelli e dietro di loro venivano trenta legionari di scorta disposti in fila per due, le cotte di maglia scintillanti come fiamme bianche sotto il bagliore abbacinante del sole. Di tanto in tanto il rumore degli otri stappati per bere interrompeva il canto stridulo degli insetti vicini e il gracidare dei rospi del deserto.
Gli uomini in sella ai primi due cammelli erano esploratori dromedarii, avvolti in vesti bianche, giacche a scaglie di bronzo ed elmi di ferro. Entro pochi giorni il gruppo avrebbe raggiunto le terre della Persia sassanide e quegli esperti guardiani del deserto avrebbero dovuto fare strada, restando vigili e in allerta, ma era chiaro che il calore stava facendo sprofondare nel torpore uno dei due. L'uomo si inclinò all'indietro sulla sella finché le scaglie dell'armatura di bronzo - calde come carboni ardenti - non sfrigolarono contro la gobba del cammello, che lanciò un bramito, inarcandosi fino a disarcionarlo. Risvegliato dalla caduta, l'esploratore allungò un braccio per attutire l'impatto e si ruppe il polso. In un coro di brontolii e sospiri, la colonna di uomini accaldati ed esausti rallentò.
L'ambasciatore Sporacio, in groppa al suo cammello, girò con cura intorno al caduto e si voltò a guardare il resto della colonna. Il suo volto cesellato era rigato di sudore, e gli occhi infossati come cripte di saggezza scrutarono il gruppetto prima di fissarsi su un uomo verso il fondo: un soldato di basso rango, a giudicare dall'elmo scalfito, dalla cotta di bassa qualità, dagli stivali logori e dal modo in cui marciava a testa bassa, quasi dovesse ancora acquisire sicurezza.

L'ascesa dell'impero[modifica]

I figli di Roma[modifica]

Sulla strada per Roma, 27 ottobre 312 d.C.

Era la vigilia della battaglia che ci avrebbe definito: e non parlo solo del mio popolo, o del mio impero - quel glorioso e antico impero che aveva avuto origine nella stessa città in cui stavo per marciare - ma di quasi ogni anima in questo regno mortale. E ogni volta che qualcuno avesse discusso di questa battaglia, avrebbe sussurrato il mio nome.
Costantino
Una dolce brezza mi arruffò i ricci brizzolati mentre rivolgevo lo sguardo a sud, verso la via Flaminia, la strada che mi avrebbe condotto al mio obiettivo. Su ciascun lato dell'ampia arteria erano accampate le mie fedeli legioni: un mare di tende in pelle di capra, stendardi dai colori brillanti, armi affilate ed elmi tirati a lucido che scintillavano al languido bagliore del sole del tardo pomeriggio. Un soldato sa che la vigilia di qualsiasi battaglia è carica di emozioni che avvicinano ogni uomo al proprio dio, ma secondo alcuni quel giorno avvenne qualcosa che portò il divino al mio cospetto.
Quando ebbe inizio, il cielo color fiordaliso era privo di nubi, non c'è dunque da sorprendersi che chiunque facesse parte dei miei ranghi riuscì a vederla: un'aureola radiosa e scintillante che prese vita esplodendo attorno al sole; un crescendo sfavillante che illuminò brevemente la terra come fosse di nuovo mezzogiorno. Mi riparai gli occhi dal bagliore, udii i miei legionari sussultare, l'impatto delle loro ginocchia che colpivano il terreno, mentre le esterrefatte cantilene di fedi diverse riecheggiavano tutt'attorno. Poi, nel giro di qualche battito, era tutto finito.

Bibliografia[modifica]

  • Gordon Doherty, Il legionario, Newton Compton, traduzione di Lucilla Rodinò e Stefania Di Natale, 2014, ISBN 978-88-541-6036-1
  • Gordon Doherty, Il legionario. Gli invasori dell'impero, Newton Compton, traduzione di Lucilla Rodinò, 2015, ISBN 978-88-541-8184-7
  • Gordon Doherty, Il legionario. Una vittoria per l'impero, Newton Compton, traduzione di Lucilla Rodinò, 2017, ISBN 978-88-227-0206-7
  • Gordon Doherty, Il legionario. Il flagello dell'Oriente, Newton Compton, traduzione di Rosa Prencipe e Milena Sanfilippo, 2018, ISBN 978-88-227-1424-4
  • Gordon Doherty, Il legionario. Imperatori e dèi, Newton Compton, traduzione di Emanuele Boccianti, 2019, ISBN 978-88-227-1814-3
  • Gordon Doherty, Il legionario. L'impero invincibile, Newton Compton, traduzione di Giulio Lupieri e Clara Nubile, 2020, ISBN 978-88-227-4295-7
  • Gordon Doherty, Il legionario. Sangue sul campo di battaglia, Newton Compton, traduzione di Giulio Lupieri, 2021, ISBN 978-88-227-4575-0
  • Gordon Doherty, Il legionario. L'aquila nera di Roma, Newton Compton, traduzione di Micol Cerato, 2022, ISBN 978-88-227-4576-7
  • Gordon Doherty, L'ascesa dell'impero. I figli di Roma, Newton Compton, traduzione di Marzio Petrolo e Micol Cerato, 2022, ISBN 978-88-227-6423-2

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