Jennifer Johnston
Jennifer Johnston (1930 – vivente), scrittrice irlandese.
Due lune
[modifica]Tutti la chiamavano Mimi.
Il suo vero nome era Eleanor. Un nome sempre malsopportato, ragion per cui quando Grace, piccolissima, iniziò a chiamarla Mimi anziché Mamma, lei salutò con gioia quel nuovo battesimo.
In età più giovane e civettuola le piaceva molto sorridere alla gente e annunciare "Je m'appelle Mimi".
Cosa che metteva in imbarazzo Grace. Già da bambina non riusciva a tollerare che sua madre si comportasse in quel modo.
Ma oggi non era che l'ombra di se stessa. Soltanto il nome ricordava ancora al mondo che, in un'epoca ormai passata, anche lei si era mossa con autorità e spirito allegro.
Oggi tutti la guardavano senza vederla.
A volte si chiedeva persino se in quegli ultimi anni a poco a poco non avesse perso la propria corporeità, diventando invisibile.
Amava la luce.
[Jennifer Johnston – Due lune – Le Vespe, traduzione di Anna Rusconi]
Ombre sulla nostra pelle
[modifica]Sei scomparso, padre mio,
e son rimasto solo, io.
Sono oppresso dal dolore,
lacrime sgorgano dal mio cuore.
Mordicchiando la penna, cercò di immaginarsi quelle righe stampate nel "Journal", magari evidenziate da una grossa linea scura, pronte per essere presentate al mondo. No, così non andava. Ci tirò sopra una riga, cancellando con cura ogni parola con l'inchiostro così che non fosse più possibile leggerle.
Te ne sei andato, padre mio.
Sì, brusio, fruscio... ah ah... pio pio.
[Jennifer Johnston – Ombre sulla nostra pelle – Fazi Editore, traduzione di Lucia Olivieri]
Quanto manca per Babilonia?
[modifica]Mi hanno lasciato i miei taccuini, carta, penna, e inchiostro, perché sono un ufficiale e un gentiluomo. Così, scrivo e aspetto. Non difendo nessuna causa, né amo nessuna persona in vita. Il fatto di non avere un futuro, se non le poche ore che ho da contare davanti a me, sembra non disturbarmi granché. Dopo tutto, qui o altrove, il futuro resta ugualmente un'incognita. Perciò, per i giorni di attesa, non mi resta che distrarmi con il passato. Giocare con una serie di ricordi probabilmente inesatti; la mia interpretazione, per quel che vale, degli eventi. Non c'è spazio per le speculazioni o per la speranza, nemmeno per i sogni. Per quanto possa sembrare strano, credo che mi piaccia così.
Non ho contattato né mia madre né mio padre. Avranno gli altri il tempo di farlo quando sarà tutto finito. Il fait accompli. Al servizio di Sua Maestà. Perché prolungare il dolore che inevitabilmente proveranno? Lui potrebbe morirne. E forse, come me, sarebbe meglio. Per lei il mio cuore non sanguina.
Non capiranno mai. Così, non parlo. I cannoni vibrano costantemente, e sempre più forte, sulla linea del fronte. Gli edifici tremano.
Non mi hanno tolto i lacci né la penna, perché sono un ufficiale e un gentiluomo. Così, sono seduto e aspetto, e scrivo.
[Jennifer Johnston – Quanto manca per Babilonia?, traduzione di Maurizio Bertocci, Fazi Editore, 2001. ISBN 88-8112-434-3]
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