Jovan Divjak
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Jovan Divjak (1937 – 2021), generale e scrittore bosniaco di origine serba.
Citazioni di Jovan Divjak
[modifica]Intervista di Andrea Legni, Avvenire.it, 2 aprile 2012
- Io ho scelto di schierarmi con i più deboli, con chi non aveva armi e, soprattutto, con i cittadini che difendevano la mia stessa idea su quello che doveva essere la Bosnia Erzegovina, cioè un Paese tollerante e multiculturale.
- Ci furono diverse ragioni che resero possibile la vittoria della nostra resistenza. Innanzitutto a Belgrado sottovalutarono le capacità difensive della città. Diedero per scontato che tutti i serbi residenti a Sarajevo, all'epoca il 33% del totale, avrebbero abbandonato la città. Ma questo avvenne solo in piccola parte e moltissimi serbi si unirono alla resistenza.
- La verità è che Sarajevo si salvò innanzitutto moralmente. Perché chi è moralmente determinato a difendersi è più forte di chi attacca. Gli abitanti si misero a difesa non solo della propria città, ma di un’idea di convivenza che a Sarajevo si respirava da sempre. Per anni i nazionalisti cercarono di convincere gli jugoslavi che la convivenza tra le varie nazionalità era impossibile, che era necessario separarsi. In molte zone, specie quelle rurali, queste idee attecchirono, ma a Sarajevo no. Nella coscienza dei sarajevesi era assurda un'idea del genere.
- Le vicende jugoslave hanno dimostrato che, specie nei momenti di crisi, le idee nazionaliste sono più forti dell'idea di unità.
- Sinceramente, la situazione non è buona. Molti pensavano che, dopo gli accordi di pace siglati a Dayton nel 1995, le cose sarebbero rapidamente migliorate. Anche io ero tra gli ottimisti, ma avevo torto. La Bosnia è stata divisa in due entità territoriali e in dieci cantoni. Di fatto, ora abbiamo un parlamento centrale che è tenuto in scacco dai veti incrociati dei nazionalisti delle due entità e in ognuno dei dieci cantoni vige un diverso sistema sanitario e un diverso sistema di istruzione. Questo è assurdo e blocca lo sviluppo del Paese.
Intervista di Stefano Giantin, Stefanogiantin.net, 7 aprile 2012
- Avevamo visto cosa era accaduto in Slovenia e in Croazia. Ma non avremmo mai pensato che lo stesso sarebbe accaduto a Sarajevo, una città multinazionale, né al resto della Bosnia.
- Le scuse della tv pubblica serba ai cittadini dei Balcani per la propaganda degli anni ‘90 hanno lo stesso valore del vedere Mladic e Karadzic in prigione. Ora sono nelle mani della giustizia e cercano di difendersi in modo dilettantistico per quello che hanno fatto in quella guerra che loro stessi hanno dichiarato. Per i nazionalisti serbi, la creazione della Republika Srpska è la più grande vittoria nel conflitto e questa propaganda continua. Per le vittime qui, invece, la cosa più importante è sapere quei due all’Aja e che i processi vanno avanti.
- La tensione verbale e i discorsi d’odio sono più forti oggi che negli anni 90. Ma non possono più causare un serio conflitto. Sono tuttavia pericolosi, perché provengono da politici di tutti i fronti, da quelli della Republika Srpska, che parlano di “separacija” e da quelli bosgnacchi, che discutono di “unitarizacija”. Da un sondaggio fatto tra i giovani, risulta evidente che i ragazzi formano le loro opinioni solo dai genitori e che pensano che solo “gli altri” siano colpevoli e che non si debba cooperare. A Sarajevo, una città una volta unita, vivono nella sua parte orientale 90mila serbi, che non hanno un grande interesse a integrarsi in città.
- Fra la gente normale, comune, non influenzata dalla politica e dalla religione, esiste ancor oggi la voglia di collaborare, non ci sono attriti. Ma per i politici, di tutte e tre le parti, a cui non interessa la Bosnia-Erzegovina e che mirano solo al potere, è ancora tempo per rinfocolare le tensioni. Ma ci sono tanti esempi di matrimoni misti, sia ora sia durante il conflitto. La guerra e la politica non condizionano l’amore.
Intervista di Roberto Scarcella, Ilsecoloxix.it, 20 febbraio 2017
- Possiamo, dobbiamo essere umani anche in guerra.
- Cosa sono io? Un cittadino del pianeta Terra. Perché noi siamo chi scegliamo di essere e l’identità non è immutabile. La mia scelta è stata la Bosnia Erzegovina. E chi ha assediato Sarajevo e mi chiamava e mi chiama traditore è lui un traditore, un traditore del genere umano.
- Si diceva che la religione sia l’oppio dei popoli, qua da noi l’educazione è l’oppio per i nostri bambini, a cui insegnano la storia e la geografia in tre modi diversi a seconda dell’etnia. Nella Repubblica Srpska, ad esempio, raccontano che la Guerra dei Balcani è stata un’aggressione della Nato. Se tu insegni questo a un ragazzino poi cosa ti aspetti? Non è nemmeno colpa sua. Come fai a costruire la pace partendo da lì? Avevamo una sola lingua che era il serbo-croato. Ora ci sono il serbo, il croato e il bosniaco. Sono uguali. Cambia l’intonazione. Poi in Bosnia si è deciso di aggiungere delle “h” per suonare più arabi: il caffè, la “kafa”, è diventato “kahve”. I croati si sono inventati nuove parole. A cosa serve, se non a dividerci? Io che parlo francese dico sempre, per scherzare, che parlo quattro lingue: francese, bosniaco, serbo e croato.
- Il caos di oggi è figlio di quello che ha scatenato la guerra. Serbi e croati presero il tracciato del fiume Neretva e dissero: noi di qua, voi di là. Si volevano spartire il Paese. E i bosniaci nemmeno li considerarono. Ancora oggi la Bosnia dipende molto, troppo dalle decisioni di Belgrado e Zagabria. Per non dire degli errori fatti a suo tempo, prima della guerra, dal presidente Izetbegovic. Il primo partito nazionalista post-jugoslavo è stato quello bosniaco-islamico. Il referendum per l’indipendenza arrivò troppo presto e fu organizzato male. Si sapeva che serbi e croati erano la minoranza. Non si è provato a convincerli prima del voto, ma a sconfiggerli. Il quadro di partenza era quello. E oggi i serbi in Parlamento votano contro il riconoscimento del genocidio di Srebrenica.
- Impari ad amarsi, e non parlo di narcisismo. Impari a volersi bene. Solo così si può evitare di spargere dolore. Solo così si può amare l’altro, E sembra poco. Ma si fidi, non lo è.
Intervista di Riccardo Michelucci, Avvenire.it, 5 gennaio 2019
- Quando capii quali erano le intenzioni di Karadžic decisi di restare a Sarajevo per difendere le vite dei miei concittadini e per cercare di salvare l'ideale del multiculturalismo.
- I sarajevesi non si limitarono a difendere la propria città ma anche un’idea di convivenza che qui si respira da sempre. Chi è moralmente determinato a difendersi è più forte di chi attacca. Gli uomini hanno difeso la città ma sono state le donne a salvarla, lo dico senza alcuna retorica. Nonostante tutto ebbero il coraggio di far nascere i bambini in quell'inferno, di lavorare negli ospedali, di mandare avanti le scuole. Mentre i mariti e i figli erano al fronte, furono loro a custodire la voglia di vivere di questa città.
- Purtroppo i partiti nazionalisti continuano a manipolare la gente cercando di metterci gli uni contro gli altri. Ma il vero oppio delle nuove generazioni è l’attuale sistema educativo, che alimenta la frammentazione etnica di questo paese. Si studiano tre storie, tre geografie e tre lingue, in base alle diverse nazionalità. Negli ultimi anni ogni tentativo di varare testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente fallito e nei dodici distretti in cui oggi è divisa la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti.
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