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Lucia Marcucci

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Lucia Marcucci nel 2009

Lucia Marcucci (1933 – vivente), artista e scrittrice italiana.

Da Parole contro 1963-1968, a cura di Lucia Fiaschi, 2009; ripubblicato in luciamarcucci.com, 29 novembre 2021.

  • Mio padre era geometra capo all'acquedotto fiorentino, esperto di botanica e di meccanica, per giunta aveva l'hobby della fotografia. Quando venne l'alluvione perse, nel suo studio, quindicimila fotografie; era inoltre interessato da ogni tipo di tecnologia. Per esempio, si costruì una radio. Se la costruì con tutti gli strumenti che poteva reperire sul mercato ma qualcuno se lo fabbricava da sé: gli piaceva moltissimo. Mio nonno andava a vedere i futuristi al teatro della Pergola, soprattutto Marinetti. Quando tornava, non so se andò anche a Milano, invece che raccontarmi le novelle mi raccontava dei futuristi e di tutto il caos che succedeva a quegli spettacoli. Mia nonna era un'aristocratica decaduta quindi aveva ricevuto un'educazione molto particolare, scriveva, leggeva, aveva amicizie in ambito inglese-fiorentino. Mio nonno, invece, discendeva da una famiglia di musicisti. Il mio avo Hermann von Hagen, padre di mia nonna, era venuto sulle orme di Goethe a fare un viaggio culturale in Italia e si fermò a Livorno, dove sposò Vannina D'Achard. Si stabilirono in seguito a Firenze, quindi, da quella progenie, ho avuto un'educazione non propriamente borghese.
  • [Poi qual è stato il suo percorso?] Ho fatto il Liceo Artistico e dopo sono andata per qualche tempo all'Accademia, ma non mi si confaceva: ho lasciato e mi sono sposata. Col mio ex marito, si cominciò subito, a Livorno nel '57 (mi son sposata nel '55) a frequentare ambienti letterari e teatrali. Già allora elaboravo delle cose un po' strane... facevo degli scarabocchi, un po' particolari, incollavo, progettavo scenografie sempre un po' fuori dalle righe.
  • [Ma sul versante visivo o poetico?] Su entrambi i versanti, avevo la propensione alla "mescolanza", all'interdisciplinarità. [...] Era una contaminazione fra la figura e la parola. L'immagine diventava quasi simbolo insieme alla parola: era un tutt'uno.
  • [L'interesse era per l'aspetto visivo più che per quello per così dire poetico?] Mah... per tutti e due, perché ho cominciato sia a fare delle opere solamente visive, sia a fare delle poesie. Sì, in principio lineari, poi quando cominciai a frequentare loro [i poeti visivi] già avevo fatto esperienza di contaminazione interdisciplinare. Venivo spesso a Firenze, perché nell'entourage della cultura livornese, a parte il teatro "Il Grattacielo" che era gestito da un gesuita illuminato, mi sentivo un pochino oppressa.
  • [M'immagino ancora tardo macchiaiola...] Eh, i postmacchiaioli c'erano dappertutto, mare mosso e triglie... una cosa terribile.
  • [Qual era la percezione del vostro pubblico?] La percezione... il nostro pubblico ci prendeva a schiaffi, o quasi. A fischi. Alcuni, proprio, ci odiavano. Alcuni ci battevano le mani... alcuni, proprio, "Ma che cosa fate? Son cose banali... son cose...", uh... mamma mia. Mi ricordo, anche, nelle Case del Popolo, dove noi andavamo, proprio perché in fondo erano i nostri compagni, non ci capivano per niente. Perché, fra questi fruitori e noi, c'era un abisso culturale, in fondo ci riconoscevano un pochino troppo intellettuali e veramente lo eravamo, cosicché c'era proprio un divario, che noi si cercava di superare... in fondo, piano piano, ma non ci siamo mai del tutto riusciti. Ora è dilagata la nostra intuizione, fanno tutti la poesia visiva o credono di farla! Ci sono dei personaggi che la poesia visiva la frequentano ora... ho visto qualcosa di Spoerri.
  • [Poi come siete andati avanti? Quel convegno del '63 al Forte di Belvedere?] Sì. Quel convegno, io andai, appunto, a sentire, perché... ero già nell'ambito loro, però non presi la parola, non intervenni. In città nel contesto letterario non ci sopportavano. Mi ricordo, le prime volte, ci si trovava al caffè Paszkowsky, e c'erano Luzi, Betocchi, Bigongiari, ci guardavano come dire: "e voi cosa volete?" Loro avevano la verità in tasca... erano poeti ma al massimo ermetici... Mi ricordo che una volta... io avevo delle poesie lineari e con esse sotto il braccio andai da Fallacara. Fallacara lesse le poesie e mi chiese: "Ma sei sposata?", "Sì", "Allora: fai bambini". Ma guarda questi poeti parrucconi! Da quel momento non ho più chiesto nulla a un poeta parruccone... Luigi Fallacara, era un omino simpatico, ma... mandarmi a far bambini! Fu troppo. Dopo il convegno a Forte di Belvedere il Gruppo si strutturò e insieme (spesso solo noi poeti visivi) fummo via via invitati a Venezia, a Napoli, a Palermo, a La Spezia, a Genova. Anche il Gruppo '63 ci invitava ai convegni. Nel '67 fui invitata dal gruppo '63 a La Spezia, a leggere brani dal mio libro dal titolo Io ti ex-amo.
  • [Vi siete chiamati Gruppo '70] Sì, per differenziarsi dal Gruppo '63. Loro erano di formazione più accademica, più rigida e COLTA, la nostra contaminazione fra parole e immagini non li interessava molto.
  • [Umberto Eco che ruolo ha avuto?] Che ruolo? A quei tempi, oltre a essere un stimatissimo sociologo, era un barzellettiere, anzi un favoloso barzellettiere e bisognava ridere anche se spesso le sue barzellette erano incomprensibili! Aveva una grande memoria, adorava la semiologia e tutti gli stimoli mass mediatici, il suo linguaggio era nuovo, più aperto a sollecitazioni... "opera aperta"! Al ritorno dal convegno ad Abbazia, andammo da Diego Valeri a Venezia: era un vecchio poeta ma non chiuso anzi interessato alle avanguardie. Ci ricevette, parlammo tanto, ci disse molte parole incoraggianti e volle che gli si lasciassero dei testi di Poesie e no. Molto diverso da quelli con le incrollabili certezze... e le verità in tasca.

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