Luigi Meneghello

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Luigi Meneghello (1922 – 2007), scrittore italiano.

Citazioni di Luigi Meneghello[modifica]

  • Il suo rapporto [parlando di Antonio Giuriolo] con noi era certamente di tipo evangelico, benché mancassero del tutto i lati espliciti, esagitati, della predicazione. C'era proselitismo, ma in un'aura di sobrietà, di riserbo, di pudore. Forse nel Veneto è impossibile essere spudorati in modo serio.[1]
  • L'influenza di Antonio [Giuriolo], pur avendo per oggetto la mente dei suoi discepoli, investiva tutta la loro personalità e la cambiava.[1]

Libera nos a Malo[modifica]

Incipit[modifica]

S'incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po' più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui. Qui tutto è come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole.

Citazioni[modifica]

  • Me pare me mare | me manda cagare | el prete me vede | mi taco scoréde.[2] (cap. 4)
  • Bianco, rosso, verde | color delle tre merde | color dei panezéi | la caca dei putèi (cap 4)
  • Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C'è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un'altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose. (cap. 5, p. 36)
  • «Oh, but this is wonderful». Questi apprezzamenti sono gentili, e anche giusti credo; ma per noi il paese non era né bello né brutto, era il nostro paese, e così anche il sito. Ci piaceva, ma non ci veniva in mente di dire che fosse bello. (cap. 12, p. 82)
  • La casa ha amplissimi granai, quasi un'altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi. Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova di San Lorenzo a Firenze: c'era la zona intermedia delle cose terrene, camere, cucine, cortili; in basso quella oscura dell'Ade a cui davano adito la scala della cantina, la casetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui s'udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c'era la sfera nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che l'artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo. (cap. 12, p. 88)
  • Dietro al paese si sentiva il fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche modo, noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di mediazione esercitato dall'ambiente paesano è difficile documentare bene la natura, soprattutto per difficoltà di lingua. La lingua in cui eseguivamo (senza saperlo, ben s'intende) la nostra mediazione non è scritta, e la lingua che scriviamo in paese e in tutta l'Italia può facilmente tradirci. (cap. 14, p. 97)
  • Ma il principio generale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio. (cap. 14, p. 99)
  • La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s'affidavano principalmente alle donne, perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po' con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito. (cap. 14, p. 101)
  • Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume cià che si chiamava l'intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano — nel modificare questo codice di condotta — la forza che aveva invece il senso del decoro ("no sta ben"), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione. (cap. 14, p. 104)
  • Questo sentirsi insieme, e contenti, è supremamente importante. Si profilava tra gli amici abituali uno schema di rapporti stabili; gli amici diventavano una Compagnia. Pareva di essere non solo al centro del mondo, ma investiti di un privilegio speciale.
    Per i ragazzi di un paese la Compagnia è l'istituto-madre. E un'associazione libera, un club senza sede e senza regolamento, mai suoi legami sembrano in quegli anni più forti di ogni altra associazione naturale o tradizionale. Sorge ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini di contrada, coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi fondamentali di contare le generazioni in paese. [...]
    Negli anni dell'adolescenza e della gioventù la Compagnia è l'istituzione più importante di tutte, l'unica che sembra dar senso alla vita. Stare insieme con gli amici è il più grande piacere, davanti al quale tutto il resto impallidisce.
    «Il tempo che si trascorreva lontano dagli amici pareva sempre tempo perduto», dice mio fratello. (cap. 20, pp. 146 sg.)
  • La Compagnia non ha fini pratici, è un modo di essere: ma naturalmente i soci tendono anche a fare insieme molte cose specifiche, lo sport, gli svaghi, e soprattutto la pursuit del sesso. In pratica quest'ultima diventa a un certo punto l'attività più importante della Compagnia, e la sua principale funzione. [...]
    La pursuit collettiva del sesso fornisce una scala di valori che in teoria consentirebbero di ridimensionare radicalmente la personalità dei soci. Raramente però il risultato differisce molto dal precedente ordinamento di membri perfetti, membri associati e iloti. Chi è preso sufficientemente sul serio prima di incominciare a andare a donne, non è probabile che si riveli poi inetto con le donne, perché l'impresa ha un carattere cooperativo e associato che riduce i rischi della timidezza e della goffaggine. D'altro canto i membri imperfetti e gli iloti tendono a incappare in vari infortuni proprio perché partecipano meno pienamente dei vantaggi dell'azione collettiva. (cap. 20, p. 151)
  • Ma tra quelli che in paese restano tagliati fuori da una Compagnia, i brutti, gli introversi, gli scarsi, i più si accorgono poi nella prima maturità di non possedere un altro sistema di valori da opporre a quello delle Compagnie, e se non vogliono arrendersi, restando forse per sempre povera gente (scapoli imbelli, comici mariti), devono tentare alla disperata una marcia di avvicinamento.
    Se ne vedono, di questi sbandati e ritardatari, mettersi a marciare sui diciotto, sui venti, anche sui venticinque anni, e in certi casi estremi anche più tardi. La verità e la vita sono laggiù, dove la Compagnia si scapriccia pigramente, senza sforzi, come oziando. Qui c'è la polvere e l'ansia: gli sbandati col volto sudato s'allenano pazientemente a bestemmiare, a bere, a dirompere pollastre, a sedurre; e marciano, marciano, di giorno e di notte. (cap. 20, p. 156)

I piccoli maestri[modifica]

Incipit[modifica]

Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l’impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana. Il malgaro ci diede latte nella ciotola di legno, e lo bevemmo a turno. Poi lui disse:

«Ho sentito sparare».

«Sono venuto a ripigliarmi questo qui» dissi. Portavo il parabello in spalla, e l’avevo provato nel bosco. Funzionava perfettamente.

Citazioni[modifica]

  • Le due colonne si salutavano allegramente, da una parte in veneto, in piemontese, in bergamasco, dall’altra nei dialetti di segno contrario. Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva. Guarda, pensavo; l’Europa si sbraccia a fare la guerra, e il nostro popolo organizza una festa così. Indubbiamente è un popolo pieno di risorse. (cap. 2)
  • Parlare mi era facile: bastava aprire la bocca, e venivano fuori idee, iniziative, programmi, e una volta venuti fuori parevano autorevoli: è un bel vantaggio l’educazione umanistica. Chi sa parlare, comanda. Ma io ce l’avevo con questa educazione umanistica; me ne aveva fatte di sporche. Non volevo comandare; però parlavo. Dicevo: «Non fatevi influenzare da nessuno, e tanto meno da me; fate quello che vi pare giusto»; e tutti dicevano: «Bravo, ostia: facciamo come dice lui» (cap. 3)
  • È inutile dire oggi che i calcoli ci saranno stati; chi dice così non ha capito niente dei comunisti di allora; noi invece li abbiamo visti coi nostri occhi, e sappiamo cosa valevano. Venivano in mente per contrasto quei compagni di scuola, a Vicenza e a Padova, che continuavano a occuparsi, forse presso una zia in campagna, di Kierkegaard e di Jaspers, o addirittura di esami universitari, per avvantaggiarsi nella vita e nella carriera, magari con qualche lirica ermetica in proprio, trasudata negli intervalli. Di questi grandi villeggianti della guerra civile, la borghesia urbana ne ha prodotti parecchi; non pochi di loro sono oggi energicamente schierati dalla parte degli angeli, hanno fatto carriera, e speriamo che siano contenti. (cap. 3)
  • Che cos’è una patria se non è un ambiente culturale? cioè conoscere e capire le cose. (p. 46)
  • «Vedi?» disse il Castagna. «Quando va su un governo, noialtri dobbiamo lavorare.»
    «Anche se fossero fascisti?» dissi.
    «Eh no, per la madonna» disse lui. «I fascisti non sono mica un governo.»
    «Già» dissi io. «I fascisti sono...» Cercavo una formula salveminiana
    «Rotti in culo» disse il Castagna. (cap. 6)
  • Poi la luna fa un lungo salto a pesce nel cielo, la sua luce color mandarino si decanta; sono in piedi e sto in piedi, cammino sulla strada tra le case di Frizzón, batto alla prima porta, la casa dell’alpino che è in Russia, dove so che c’è sua madre, chiamo. Ma questa donna aveva paura e non volle aprire. «Non conosco nessuno» gridò dalla camera di sopra. Avevano avuto tre rastrellamenti negli ultimi giorni a Frizzón e questo riserbo era naturale, ma allora non lo sapevo, e mi arrabbiai. «Speriamo che a suo figlio gli aprano, in Russia» le gridai, e poi mi pentii. […]
    «In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.»
    «Aprimi almeno tu!»
    «Sono morta anch’io.»
    «Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?»
    «Aspetto la bara che venga a portarmi via.» (cap. 7)
  • Ci dicemmo arrivederci, col Suster, ma non ci si è più rivisti; perché lui in settembre morì impiccato a Bassano, e se restavo con loro, chissà se questa fine la facevo anch’io. Ogni volta che passo sul viale degli impiccati, a Bassano, ho la sensazione di sapere qual era il mio albero. (cap. 8)

Le Carte[modifica]

Volume I: Anni sessanta[modifica]

  • L'esperienza si atteggia così, per esempio in questa facciata di mattoni rossi, con una finestra, che dà su questo giardino. La realtà delle cose del mondo è, pare, quella che percepiamo con i sensi, una serie di avventure individuali. Le tende sono verde ramarro, scolorite; è domenica, c'è il sole, è settembre, è Manchester. Tenere fermo qualcosa. I giorni e le notti scorrono in gore profonde, ricolme di roba diversa, ricche come prodigiose casse di giocattoli vecchi in soffitta.
  • "Tocca agli storici della politica, e anche a quelli della letteratura, mettere in chiaro..." non importa che cosa. Tocca invece a noi fare un aforisma. Tutti mettono in chiaro, ma quando hanno finito è ancora buio.
  • Nella vita ordinaria da noi si diceva solo "mangiare a mezzogiorno", ma poi costoro si sono messi a dire "vieni a colazione..." "restate a colazione...". Pareva un' assurdità ("Cossa ghe ze' a colassion?" "Minestra de verze"). Eppure questa parola ha conquistato l'Italia: un giorno sembrerà perfino naturale, e nessuno si chiederà più a quale idiozia dei padri la dobbiamo.
  • Tornando dopo una lunga assenza si vedono le stesse cose sotto una luce che cambia. Appaiono più crude le brutte immagini... Com'è invecchiata la gente, che crude immagini! "Oggi digerire è facile" annuncia una figura a tutta pagina nel giornale. Un uomo digrigna i denti bianchi e si appoggia una mano sul petto per contenere la gioia e quasi toccar con mano che è veramente facile digerire. L'uomo è probabilmente cristiano e se lo interroghi dice di credere in Dio. Digerisce a Sua immagine e somiglianza.
  • "Non ho mai capito la politica, né in pratica né in teoria. Lo scrivo con riluttanza e non ho mai avuto il coraggio di confessarlo apertamente a nessuno: anzi ho dovuto spesso fingere di intendermene p.e. della dottrina che la politica è "autonoma", o di sapere in che cosa consisteva la grandezza del conte di Cavour". Carlo mi guarda compiaciuto e conclude: "Ora che l'ho detto mi sento meglio, e posso aggiungere che l'unica cosa che mi pare di sapere intorno alla politica è che so che c'è ma vorrei che andasse via".

Note[modifica]

  1. a b Da Fiori italiani, 1976, cap. 7; in Opere scelte, Mondadori.
  2. Traduzione letterale in italiano: «Mio padre e mia madre | mi mandano a cacare | il prete mi vede | e io inizio a scoreggiare». Libera traduzione del doppio senso: «I miei genitori | mi sgridano in malo modo | mi vede anche il prete | allora non accetto anche la sua intrusione deridendolo».

Bibliografia[modifica]

  • Luigi Meneghello, Libera nos a Malo (1963), BUR, 2006. ISBN 9788817009652
  • Luigi Meneghello, I piccoli Maestri (I ed. 1964), Rizzoli, Milano, 1976.
  • Luigi Meneghello, Le Carte. Volume I: Anni sessanta, Rizzoli, Milano, 1999.

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