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Mariangela Cerrino

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Mariangela Cerrino (1948 - vivente), scrittrice italiana.

Incipit di alcune opere

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Ciclo di Alwayr

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L'ultima terra oscura

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Dolane restò sull'alta terrazza del Coromist di Ylan, incurante della gente che gli passava accanto e dell'aria della sera che rinfrescava. Nel tardo pomeriggio una pioggia leggera aveva pulito il cielo, e il sole era tornato a brillare prima di inabissarsi e sparire, ingoiato dai vapori della Città Bassa oltre il Canale di Stinge.
L'urlo delle ciminiere riusciva a coprire il rumore della folla, divorata dai sessanta piani del Coromist e diluita sulla pista a spirale che portava alle botteghe, ai ristoranti, ai locali di ritrovo.
A quell'ora la gente di Alwayr viveva frenetica, trascinandosi da un Coromist all'altro, cercando, prendendo, pagando a caro prezzo qualunque cosa: cibo, sonno, amicizia, compagnia, sesso e forse amore.
Dolane si mosse. Lì, nel buio, non era più al sicuro: nemmeno lui, nemmeno un Mago.
Passò vicino a un gruppetto di giovani temerari, stretti assieme in un atteggiamento di sfida, e sentì il loro sguardo ostile e curioso pesargli sulle spalle. Sfidare la sorte nelle ore buie sulle alte terrazze dei Coromist era un passatempo diffuso, un gioco e una battaglia. Prendere o essere presi.
Dolane non aveva nessun segno particolare che potesse farlo riconoscere: anche se la gente forse se lo aspettava ancora, i Maghi non rispettavano più l'antico obbligo di portare le insegne.
Un Mago.

L'alba di Alwayr

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La scogliera era alta e nera, battuta dal vento che soffiava da occidente. Un sentiero appena tracciato l'accompagnava per un tratto, prima di piegarsi a scendere alla stretta spiaggia. Un tempo, a memoria dei vecchi, l'isola rocciosa di Skumi era visibile da quel punto per gran parte dell'anno; adesso le nebbie e i vapori la nascondevano, tranne che in rare occasioni, quando il vento mutava direzione soffiando da oriente, o quando l'inverno ne faceva un ricamo di ghiaccio galleggiante.
Tuttavia Skumi era a poco più di duecento metri dalla spiaggia, e nel periodo dell'anno che la gente di Glysendia si ostinava a definire estate si poteva raggiungere quasi senza bagnarsi le ginocchia.
L'isola era piccola, e nascondeva una spiaggetta di sabbia nera e una casa-fortezza abbandonata, ma ancora abbastanza solida da reggere all'inclemenza degli elementi. Come tutte le costruzioni di Glysendia era in gran parte sotterranea, e spuntava appena, con la sommità di una tozza cupola. La gente la chiamava la Torre di Belenia.
A Bain non importava sapere perché avesse quel nome. La torre era sua, se non altro perché, di fatto, vi abitava.
Nella torre si sentiva a proprio agio; aveva adibito l'ampia sala che ne occupava la base a suo rifugio, tralasciando le altre stanze e i passaggi che sarebbero stati difficili da illuminare e riscaldare. Non poteva permettersi una Macchina Guida che provvedesse a queste cose, e così aveva rimediato con un generatore, accettandone tutti i limiti.
Nella sala aveva sistemato anche il letto, che la bella Heisel non disdegnava, e una cucina su cui non doveva penare troppo, perché non esistevano molte varianti per gustare la polpa dello stilf.
A modo suo, Bain si sentiva soddisfatto. Lì, in quel momento, non aveva nulla da chiedere o da desiderare di più, o di diverso...

Rasna, la saga del popolo etrusco

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I cieli dimenticati

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Il cielo si era oscurato all'improvviso, poco prima del tramonto. Fino a quel momento la giornata era stata bella, con il vento che arruffava i caprifogli intorno all'ala del Palazzo riservata alle donne.
Poi, da occidente, erano venute le nuvole.
«Da occidente, come il malaugurio», mormorò Velvur, immobile vicino all'apertura che portava a uno dei cortili interni del palazzo.
I segni erano gli stessi: li aveva letti il giorno prima, sacrificando l'ultima agnella nata nella casa, e li ritrovava adesso, nelle nuvole che correvano veloci nel cielo.
Velvur sentiva salire nell'aria la vibrazione del fulmine, come un'eccitazione che lo possedesse, strappandolo alla realtà dei propri pensieri per trascinarlo a vedere cose e tempi diversi.
«Ma non adesso», si disse, «non adesso».

La via degli dei

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«Ciò che è scritto non può essere cambiato, e tutto ciò che sembra dimostrare il contrario non è che illusione di uomini», pensò Velvur, ascoltando il vento che attraverso le fenditure faceva risuonare lo sperone tufaceo su cui era appollaiata la città di Vei.
Gli anni e le circostanze rendevano stanco e inquieto il più importante sacerdote della Lega rasna, e il conoscere il futuro non lo confortava.
Aveva ordinato a Mastarna di Velx di partire per l'Isola Fumosa[1], e dal Tivrit, il luogo sacro dei Trutnot, di portargli la fanciulla con il nome della Dea dell'Aurora, Thesan.
«Per essere dono d'amore», bisbigliò il vento.
«Per essere l'anello su cui corre la distruzione dei rasna», replicò lo stridio di una cornacchia.
Chiunque, vedendolo, avrebbe potuto pensare che il vecchio Trutnot stesse parlando con le ombre, e magari invidiarlo. In realtà si sentiva molto infelice.

La porta sulla notte

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La luna illuminava a giorno lo spiazzo del Tivrit, stretto tra le alte pareti tagliate a gradini, il cui bordo si stagliava sul cielo terso e pulsante di stelle.
La brezza era lieve ma costante, e il rotolare dei ciottoli da un gradino all'altro risuonava nel buio. Per Tarxne, quello era il profumo della notte e quello il suo rumore. Lì, nel luogo sacro dei Trutnot, aveva vissuto tutta la sua infanzia. Quel luogo e quella notte di luna piena del mese di acale[2] gli appartenevano... proprio come Anaies gli sarebbe appartenuta.
Da quel momento, e per l'eternità, Anaies sarebbe stata sua.
Tarxne raggiunse l'altare di pietra al centro dello spiazzo. Era il figlio del re di Tarchna e di Ruma, ma anche di Thesan la Straniera, e se aveva le fattezze di suo padre e molto del suo carettere, da sua madre aveva ereditato il legame con le pietre e il vento.
Aveva il Potere.
La fanciulla che lo aspettava era bella, ed era pronta per lui. Anaies era l'amore.

Ciclo di Adémar de Cly

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Morte di una strega

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Parigi affogava in una luce livida.
Adémar ne aveva un buon ricordo, ma questa Parigi così diversa da quella che serbava nella memoria lo assaliva come una città sconosciuta. Nemica. E l'aria odorava di paura e di morte.
Aveva trent'anni e dell'anno passato da studente alla Sorbona, quando di anni ne aveva sedici, lo aggrediva soltanto il ricordo del profumo delle focacce di farro e miele della vecchia Aubert, accovacciata davanti alla sua cesta accanto alla bottega di copista di maestro Merle, sulla Rue Saint-Jacques. Ricordava la tunica scura della vecchia, i suoi capelli bianchi, e gli occhi di un azzurro troppo vivo per essere quelli di una donna tanto anziana. Non avevano mai scambiato parola, tranne una volta. In quell'occasione, la vecchia gli aveva preso la mano con cui le porgeva la moneta per pagare le focacce, e l'aveva tenuta tra le sue guardandolo fissamente.
«Adémar de Cly», gli aveva detto. Era certo di non averle mai rivelato né il proprio nome né il titolo. «Tu vedi, e senti oltre. Fai buon uso dei tuoi doni».
Oltre. Non aveva detto altro e lui aveva ritratto la mano lasciandole il soldo; poi si era infilato nella bottega di maestro Merle, che non si era accorto di nulla, perché già allora lui sapeva come nascondere le proprie emozioni.
Oltre. Aveva compreso qualche anno dopo che cosa intendeva la vecchia delle focacce di Rue Saint-Jacques.
Lo aveva capito nel modo peggiore.

La pietra di Labastide

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C'era qualcosa nell'aria.
Lo sentiva. Gli era accaduto sempre. Gli sarebbe accaduto sempre.
Abbandonò con lo sguardo le fiamme che divoravano la legna nel camino. L'unica stanza della locanda era affollata; le facce degli uomini erano maschere, illuminate malamente dalla luce tremolante delle candele. L'aria pesante sapeva di uomini stanchi, di abiti bagnati e di cavoli stracotti. Quest'ultimo odore dilagava dall'antro della cucina, in cui si affaccendavano il locandiere e un paio di donne. Da lì venivano gli strepiti di una vecchia, che non si mostrava.
«Adémar de Cly! Perché ti incontro adesso?»
Adémar alzò lo sguardo sull'uomo che aveva raggiunto il suo tavolo, sovrastandolo. Portava sulle spalle larghe un mantello pregiato e il doublet al di sotto era altrettanto vistoso. Il prezioso medaglione che imprudentemente ostentava al collo lo diceva chierico della prestigiosa Università di Montpellier.
«Potrei dire lo stesso, Christophe de Sens» fu tutto quello che rispose, ma accompagnò le parole con un sorriso lieve. Quel sorriso lo rendeva innocui agli occhi dei più, e nascondeva la sua perspicacia.

Absedium

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Nell'aria grigia persisteva uno sfarfallio di neve. Radi fiocchi s'inabissavano nell'acqua della fonte al centro della radura. Le voci degli uomini erano distorte dal vento, che filava basso tra i pini neri e i larici, ingolfandosi nelle spaccature delle rocce.
Sbucarono dalla linea degli alberi. Guardinghi, una mano stretta all'impugnatura del gladio.
Ceidrac contò otto legionari, ma restò nascosto nell'anfratto senza perdere di vista il fratello Duiroc, che aveva una dozzina d'anni e la dote di azzuffarsi con chiunque senza valutare le possibilità di uscirne vivo. Ceidrac si portò quindi un dito alle labbra quando suo fratello si voltò implorando con lo sguardo, già pronto a balzare fuori.

Il ministero delle Ultime Ombre

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Cardiff, Galles
Inizio ottobre 2009

Le scatole dei biscotti stavano proprio sul ripiano più alto dello scaffale.
Suo figlio Lew, di quattro anni, gli aveva ripetuto di comprarli con l'insistenza che gli era abituale e che tuttavia, per qualche misteriosa facoltà che sfuggiva a tutti, non lo trasformava in un essere petulante.
Lui non era certo basso di statura, ma il ragazzotto del supermercato addetto al rifornimento degli scaffali aveva a disposizione una scaletta e si divertiva parecchio, osservando gli sforzi dei clienti. Qualcuno avrebbe prima o poi dovuto dirlo al gestore.
Infine riuscì ad abbrancare con la punta delle dita due scatole e le trascinò verso di sé, afferrandone al volo una terza in caduta libera. Il carrello era strapieno. Mise tutte e tre le scatole in cima al resto.
Rosalind - sua moglie - lo rimproverava di non avere il senso della misura e lo muniva di una dettagliata lista della spesa quando si prendeva l'onere di raggiungere il supermarket di Albany Road, quasi di fronte alla bella chiesa di mattoni rossi di St Martin in Roath. Lui era nato in Albany Road, trentotto anni prima; aveva conservato una certa affezione per quella strada piena di negozi che un tempo avevano avuto un'aria tranquilla e ora cambiavano genere, chiudevano e riaprivano con sorprendente rapidità e altrettanta indifferenza. Non era certo la più bela strada di Cardiff, ma aveva qualcosa di speciale. Era la strada della sua infanzia.

Note

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  1. Aethalia, l'Isola d'Elba.
  2. Il giugno degli Etruschi.

Bibliografia

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Altri progetti

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