Massimiliano Colombo

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Massimiliano Colombo (1966 – vivente), scrittore italiano.

Incipit di alcune opere[modifica]

La legione degli immortali[modifica]

Ho il dono, spesso doloroso, di una memoria che il tempo non riesce a offuscare. I ricordi della mia lunga esistenza, e di tutti coloro che ne hanno fatto parte, sono sempre presenti e vivi in me, nonostante il passare degli anni. Non posso che essere grato al destino, che mi ha concesso di incontrare grandi uomini e di prendere parte a eventi che saranno tramandati nei secoli a venire, ma il prezzo è stato alto. Se è vero che il fato mi ha dato tanto da ricordare e il tempo per farlo, è anche vero che mi ha cinicamente strappato, uno dopo l'altro, tutti coloro che ha posto sul mio cammino, lasciandomi nella tristezza più profonda, pur se piena di grandezza.
Ho creduto, con l'età, di riuscire a rassegnarmi, di poter racchiudere malinconicamente nel mio cuore volti e sensazioni, per custodirli come tesori preziosi. Ma la corazza solida e compatta che li ha protetti è rimasta duramente segnata dai sacrifici e dalle lotte che ho affrontato e che ora, a distanza di tempo, mi appaiono ancor più nobili e magnifiche. Non potrebbe essere altrimenti, perché io appartengo alla generazione che ha reso Roma padrona del mondo conosciuto, per poi trascinarlo in una sanguinosa guerra civile al seguito di un uomo straordinario, nel bene e nel male, che la storia ricorderà come Gaio Giulio Cesare.
La saggezza acquisita in anni di battaglie e scampati pericoli mi consiglierebbe di ritornare là dove sono venuto e godermi finalmente un meritato riposo. Ma c'è una battaglia cominciata vent'anni fa, la cui eco assordante mi rimbomba ancora nelle orecchie, che aspetta solo me per concludersi, una volta per tutte. Così, da buon vecchio soldato, sto per intraprendere questo lungo viaggio, per raggiungere il luogo dove si intrecciarono i destini delle persone a me care e per portare a termine il mio compito.
Il garrire delle vele al vento e lo scricchiolio dell'albero maestro mi riportano indietro negli anni. Chiudendo gli occhi mi sembra quasi di riudire, con lo sciabordio delle onde, il vociare dei miei compagni dal passato, ma non è così. Il tempo è trascorso, il mare è lo stesso, così come il suo odore, ma io sono cambiato e quando apro gli occhi mi rendo conto di essere solo e vecchio, unico testimone di un mondo che non esiste più, ultimo di una razza di giganti che si è estinta per sempre, uomo dopo uomo.

Draco - L'ombra dell'imperatore[modifica]

Agosto del 355 d.C.

Il vento caldo dell'estate spinse la poiana sopra l'assolata pianura, verso i campi coltivati ai margini della grande città. Sotto lo sguardo del predatore si snodavano lucenti corsi d'acqua, scudo liquido che abbracciava le salde mura erette a difesa dell'abitato.
La cinta muraria della città era interrotta da torrioni, mute sentinelle lungo le vie che correvano in ogni direzione. Di lì era facile raggiungere Aquileia e poi proseguire per Costantinopoli, oppure andare a occidente e tagliare a settentrione, verso Vienne e le Gallie, fino a Lutezia. Di lì si poteva avere il controllo delle vie per il Reno e l'alto corso del Danubio. Di lì l'imperatore e la sua corte guidavano la lotta per il dominio dell'Impero.
Chi voleva regnare su Roma, doveva farlo dall'antica capitale degli Insubri, una città chiamata Mediolanum.
Nell'ultimo secolo Mediolanum era prosperata, si era espansa dentro e fuori dalle antiche mura. Ricca e potente, batteva moneta nella propria zecca ed era disseminata di ville signorili, giardini, porticati, statue, terme, teatri. Da solo, l'imponente complesso del palazzo imperiale occupava un intero quartiere nella parte occidentale della città. L'insieme di sontuosi edifici residenziali e di rappresentanza, eretto nel corso degli anni, ospitava la struttura amministrativa dell'Impero. Tra giardini esotici incastonati come gioielli in maestosi colonnati, molti dei palazzi di corte si affacciavano, secondo il modello orientale, direttamente sull'immenso palcoscenico personale del Divino Augusto, il circo equestre, costruito a ridosso delle mura.
Uno stormo di piccioni si levò in volo da una delle torri della linea di partenza delle corse dei carri. Il movimento non sfuggì alla vista acuta della poiana, ma il predatore rimase immobile ad ali spiegati, a contemplare l'arena che si estendeva al suolo. Attratta da un bagliore nel turbinio di colori che circondava il percorso di gara, la poiana virò e scese in picchiata. In quel momento si levò il boato della folla e il rapace, spaventato, riaprì le ali e volò verso la campagna.

Centurio[modifica]

Mensis Martius, 81 a.C.

Il centurione osservò il sole scomparire a occidente attraverso i fumi pallidi dei fuochi del campo prima di entrare nella tenda. Slacciò il cingulum, che tintinnò leggermente, lo appese insieme al gladio al palo di sostegno della struttura e si lasciò cadere sullo sgabello.
Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si prese la testa fra le mani e sprofondò nell'abisso dei suoi ricordi. Immagini, volti, luoghi si rincorsero disegnando un gorgo di emozioni. Il battito del cuore era lento, ma echeggiava come un tamburo nella sua mente. Il respiro si fece profondo. Una sorta di dolore surreale premette sul petto. Era la tristezza, che arrivava a fargli compagnia ogni volta che si ritrovava solo, soffocando come un fiume che saliva alla gola ogni suo pensiero.
Strinse gli occhi e cercò di convincere se stesso che la cosa migliore da fare, l'unica che gli restava, era quella di imparare ad accettare la situazione. Forse non era vero che nella vita tutto doveva avere un senso.
«Centurio».
Gli occhi si riaprirono di scatto battendo più volte verso la luce abbagliante che impediva la vista dell'imponente sagoma del soldato fermo all'ingresso della tenda.
«Ho portato la cassa che mi hai chiesto.»
L'ufficiale annuì. «Mettila pure lì», ribatté indicando un angolo vicino alla branda da campo.
Con un ultimo sforzo il legionario mise a terra con attenzione la cassa e rivolse un'occhiata al suo superiore in attesa di altre disposizioni.
«Grazie Valerio, va' pure ora». Il miles salutò e uscì dalla tenda scuotendo, al suo passaggio, la fievole fiamma della lampada a olio che illuminava l'alloggio.
Gli occhi del centurione si concentrarono verso quell'oggetto. Un istante dopo si avvicinò al baule che sembrava tremare alla luce e con la sua ombra lo coprì. Appoggiò il ginocchio a terra, sfiorò con i polpastrelli il coperchio e cercò di capire se vi fosse un modo comodo per aprirlo. Una placca bronzea ornamentale contornava la serratura che era coperta da una strana patta assicurata a un cardine. Non c'era alcun dubbio, andava forzata.

Stirpe di eroi[modifica]

«Sono vecchio».
Il giovane servo alzò lo sguardo verso Quinto Fabio Massimo Rulliano, illuminato per metà dalla luce del mattino. Era abituato a sentirlo masticare discorsi tra sé e non si curava di comprendere il senso delle parole del magistrato. Continuò a legare le corregge dei calcei neri mentre il suo padrone, Rullus, come lo avevano soprannominato i senatori, continuava a borbottare.
«Il Senato vorrà rieleggermi, dovrò nuovamente proporre la mia carica e io non potrò rifiutare».
Finito con la calzatura sinistra, lo schiavo prese ad armeggiare con l'altra, evitando di incrociare lo sguardo grave di Quinto Fabio, segnato da una vita di battaglie.
Rulliano era un eroe; aveva ricoperto per quattro volte la carica di console e per quattro volte aveva assolto con onore gli ambiziosi incarichi che la città gli aveva richiesto, fino a divenire una sorta di monumento vivente.
«Il mio corpo non ce la può fare», disse con un tono più deciso. «Questa schiena legnosa ha già dato alla Repubblica tutto quello che poteva, e ogni giorno, al mio risveglio, non perde occasione di rammentarmelo con delle stilettate».

Il prigioniero di Cesare[modifica]

Roma, settembre 46 a.C.

Il boato della folla esplose nel cielo azzurro di fine estate. Il piccolo Aulo alzò lo sguardo e vide petali di ogni colore danzare come neve leggera sulle decine di migliaia di persone assiepate lungo le strade. Cercò di farsi largo come poteva. Ma c'era gente ovunque e nessuno gli avrebbe mai ceduto il passo.
Intravide, oltre la cortina di giganti che lo circondavano, ghirlande colorate abbracciare le colonne del tempio di Felicitas, fatto erigere a seguito delle vittorie sui Celtiberi in Spagna. Per l'occasione il tempio era stato aperto al pubblico, così come tutti gli altri della città. Le lettere in bronzo sui frontoni erano state tirate a lucido e brillavano alla luce del sole. C'erano fuori ovunque, anche le statue che fiancheggiavano la strada portavano al collo ghirlande di fiori intrecciati e sembravano guardare estasiate dall'alto del loro piedistallo, una magnificenza che Aulo, dalla sua altezza, poteva solo immaginare.
Il bimbo toccò un istante la sua bulla, l'amuleto messogli al collo dalla mamma quando era nato, e con la tunica consunta e le ginocchia sbucciate scivolò come uno scoiattolo tra le persone e le strutture delle impalcature improvvisate che erano state erette un po' ovunque. Non aveva mai visto una bolgia simile, non vi era finestra, balconata, colonna o tetto che non fosse brulicante di spettatori. Si arrampicò velocemente su uno dei pali di sostegno di un piccolo palco allestito lungo il vicus Iugarius e vide in lontananza, tra scrosci di applausi, i danzatori e i musici; centinaia di musici con gli strumenti tirati a lucido, cinture e corone dorate che suonavano i loro liuti, corni e buccine. Volse poi lo sguardo dalla parte opposta e calcolò il tempo che gli sarebbe occorso per raggiungere il vicus Tuscus che costeggiava le pendici del Palatino, passare per il Velabro e il Foro Boario e arrivare prima del corteo al Circo Massimo. Forse ce l'avrebbe fatta. Doveva farcela.

Bibliografia[modifica]

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