Mounia Meddour
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Mounia Meddour (1978 – vivente), regista algerina naturalizzata francese.
Intervista di Enrica Brocardo, vanityfair.it, 26 agosto 2020.
- [Su Non conosci Papicha, il film in cui, attraverso le vicende di una giovane aspirante stilista, racconta l'azzeramento dei diritti delle donne perseguito dai fondamentalisti islamici in Algeria durante la guerra civile degli anni '90] Avevo 17 anni e studiavo giornalismo in un campus molto simile a quello che si vede nel film. Eravamo giovani, ci piaceva uscire, andare alle feste. Papicha è un termine per descrivere una ragazza carina, emancipata, che ama divertirsi. Ma col passare del tempo, andare in giro senza indossare il velo stava diventando sempre più pericoloso. C'era un clima di intimidazione e di violenza. Per strada, le gente si sentiva in diritto di dirti: "Devi indossare il niqab, devi coprirti. Le donne dovrebbero starsene a casa, basta con l'Università, rinuncia agli studi".
- L'effetto era di far crescere la complicità fra noi ragazze. Ci si aiutava in tutti i modi. Se una aveva bisogno di soldi, si trovava il modo di raccoglierli. Se a una studentessa capitava di rimanere incinta, facevamo il possibile per aiutarla. È difficile da capire per chi non ha mai vissuto una situazione del genere. È come in guerra: la gente muore, ma ci si continua a divertire. Ho dei ricordi molto belli di quel periodo. Nel dormitorio si ascoltava la musica, si ballava e si rideva. La lingua algerina è piena di umorismo. Ridere insieme è una forma di resistenza.
- La protagonista di Non conosci Papicha, Nedjma, continua a disegnare i suoi abiti e a venderli alle altre ragazze, va in discoteca anche se il clima intorno si fa sempre più oppressivo. Anch'io ero come lei, ero cieca. Mio padre, in quanto regista, era diventato un bersaglio dei fondamentalisti. C'erano liste: attivisti, giornalisti, scrittori, artisti e donne, ovviamente. Se il tuo nome finiva nell'elenco chiunque poteva ucciderti. Cominciammo a cambiare casa, un posto diverso ogni tre, quattro mesi. Fino alla fuga in Francia.
- Hai le amiche, il tuo ragazzo, non vuoi lasciare tutto e andare in un altro Paese, dove non conosci nessuno. Fa paura. Fuori c'era la violenza, ma dentro, fra di noi, si viveva un clima di grande tolleranza. Nel nostro gruppo, le idee, i sogni, i punti di vista erano molto diversi: c'era chi come il personaggio di Kahina voleva scappare e andare a vivere in Canada, chi come Samira aveva una visione più tradizionale, c'erano ragazze molto rispettose della religione e altre dai comportamenti occidentali. Eppure andavamo d'accordo. La società algerina era ed è composita, ci sono sono famiglie molto conservatrici e altre aperte, come lo era la mia. Oggi, ovviamente, sono felice di essere andata via, come donna sarebbe molto difficile fare la regista nel mio Paese.
- In tanti non sanno che cosa sia accaduto davvero, all'epoca l'attenzione era concentrata sul numero di vittime, sugli attentati, noi, invece, abbiamo mostrato la resistenza delle donne. Parlare di quegli anni è ancora un tabù perché in molti non se la sentono di ritornare a un tempo così difficile e traumatico. Finora, oltre al mio, ci sono solo un altro paio di film che raccontano la guerra civile algerina.
- Le algerine rivendicano la parità. Oggi il padre, i fratelli possono decidere per loro. Tutto. Se e quali studi fare, quando sposarsi e con chi. È fondamentale garantire alle ragazze l'opportunità di studiare e di lavorare. L'educazione e la cultura sono al centro del dibattito. Prima della guerra civile, c'erano 500 teatri oggi ce ne sono una decina in tutto il Paese. Ma la nuova generazione, nata dopo la guerra civile, è piena di energia. Ho fiducia in loro.
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