Robert Fabbri
Robert Fabbri (1961 – vivente), scrittore svizzero naturalizzato britannico, noto in italia anche come Roberto Fabbri.
Il destino dell'imperatore
[modifica]Il tribuno
[modifica]Falacrina, 130 chilometri a nord-est di Roma, 9 d.C.
«Con l'aiuto degli dèi, possa il nostro lavoro essere coronato da successo. Ti prego, padre Marte, di purificare il mio podere, la mia terra e la mia famiglia, in qualunque modo tu voglia.»
Recitando quest'antica preghiera, Tito Flavio Sabino levò alte le palme delle mani al cielo per supplicare la divinità protettrice della sua famiglia. Una piega della sua toga candida era tirata sopra la testa in segno di deferenza nei confronti della divinità di cui invocava il favore. Gli stavano intorno tutte le persone che dipendevano da lui: sua moglie, Vespasia Polla, teneva in braccio il loro figlio appena nato; vicino a lei c'erano sua madre, poi suo figlio maggiore, che avrebbe compiuto presto cinque anni. Dietro di loro stavano i suoi liberti, uomini e donne, e infine i suoi schiavi. Erano tutti riuniti intorno al cippo di confine, nel punto più a nord della tenuta sui pendii profumati di resina di pino degli Appennini.
Tito concluse la preghiera e abbassò le mani. Suo figlio maggiore, che si chiamava Tito Flavio Sabino anche lui, si avvicinò al cippo e lo colpì quattro volte con un ramoscello d'ulivo. Fatto questo, la solenne processione lungo il perimetro della terra di Tito si concluse, e tutti cominciarono a tornare verso la fattoria.
Il giustiziere di Roma
[modifica]Roma, novembre del 29 d.C.
Un frastuono concitato di sandali chiodati sulla pietra bagnata riecheggiò dai sudici muri di mattoni di un vicolo buio sul colle Viminale, che due figure coperte da mantelli e cappucci stavano risalendo a passo spedito. La profonda notte senza luna era stata resa ancora più opprimente dalla prima nebbia invernale discesa sulla città quella sera; condensata dal fumo degli innumerevoli fuochi per cucinare della sottostante e popolosa Suburra, si attaccava agli umidi mantelli di lana degli uomini e turbinava dietro il loro passaggio. La luce incerta delle torce imbevute di pece, che entrambi tenevano in mano, era l'unica con cui i due uomini potevano orientarsi per attraversare il buio che avvolgeva ogni cosa.
Sapevano di essere seguiti, ma non si guardavano alle spalle, perché farlo li avrebbe solo rallentati. Dopotutto, non correvano alcun pericolo immediato; a giudicare dal loro passo furtivo e costante, gli inseguitori potevano essere delle spie, non dei ladri.
Il generale di Roma
[modifica]Gerusalemme, aprile del 33 d.C.
Un brusco bussare alla porta svegliò di soprassalto Tito Flavio Sabino, che aprì subito gli occhi. Momentaneamente inconsapevole di dove si trovasse, sollevò di scatto la testa dallo scrittoio e si guardò intorno nella stanza. La luce smorzata del sole calante, che filtrava attraverso una stretta finestra aperta, gli bastò per scorgere l'ambiente poco familiare: il suo studio nella torre della fortezza Antonia. Fuori dalla finestra, il Tempio si stagliava nel cielo, dominando il panorama. Le sue alte mura bianche, ricoperte di marmo, rilucevano del rosso tipico della sera, mentre la foglia d'oro che adornava il tetto rifletteva la luce del tramonto. Le dimensioni dell'edificio più sacro dei Giudei facevano quasi scomparire le enormi colonne che sostenevano l'ampia corte quadrangolare circostante; queste, a loro volta, trasformavano in formiche le moltitudini di persone che correvano su e giù lungo il vasto cortile colonnato.
Quella sera l'odore penetrante del sangue di migliaia di agnelli, macellati, all'interno del complesso templare per il pasto pasquale, permeava l'aria fredda della stanza. Sabino rabbrividì; il breve sonno lo aveva raffreddato.
Il re della guerra
[modifica]Roma, 24 gennaio del 41 d.C.
Il rigido ghigno dagli occhi sgranati della chiassosa maschera di un attore comico sbirciava malevolo il pubblico; l'attore fece un saltello, il dorso della mano sinistra premuto contro il mento e il braccio destro teso. «L'azione malvagia che ti causa tutto questo affanno è opera mia; lo confesso».
Il pubblico rise fragoroso a questa battuta ben recitata e intenzionalmente ambigua, dandosi manate sulle ginocchia e applaudendo. L'attore, che interpretava il giovane amante, inclinò la testa celata dalla maschera per ringraziare dell'apprezzamento e poi si rivolse al suo compagno sul palco, che indossava la maschera più grottesca e deforme del cattivo della situazione.
Prima che gli attori potessero continuare la scena, Caligola balzò in piedi. «Aspettate!».
Sotto il nome di Roma
[modifica]Britannia, marzo 45 d.C.
La nebbia si infittì, costringendo la turma di trentadue legionari a cavallo a rallentare il passo. Gli sbuffi delle bestie e il tintinnio dei finimenti si affievolirono, inghiottiti dalla densa atmosfera che avviluppava il piccolo distaccamento.
Tito Flavio Sabino si strinse il mantello umido attorno alle spalle, maledicendo tra sé l'orribile clima settentrionale e il suo diretto superiore, il generale Aulo Plauzio, comandante della forza d'invasione in Britannia, che lo aveva convocato a un incontro in condizioni simili.
Le convocazioni l'avevano colto di sorpresa. Quando il messaggero, un tribuno del seguito di Plauzio, era arrivato la sera prima con una guida locale al campo invernale della XIV Gemina sulle rive del fiume Tamesis, Sabino aveva pensato che gli portasse gli ordini definitivi dell'imminente campagna bellica. Il motivo per cui Plauzio, appena un mese dopo l'incontro nel suo quartier generale di Camulodunum tra il generale e i legati di tutte e quattro le legioni della nuova provincia, dovesse ordinargli di fare quasi ottanta miglia verso sud per incontrarlo nei quartieri invernali della II Augusta, la legione di suo fratello Vespasiano, appariva incomprensibile.
Il figlio perduto di Roma
[modifica]Ponto Eusino, settembre 51 d.C.
Il chiarore della luna riluceva sulla superficie del Ponto Eusino scura come lo Stige e si rifletteva, argenteo e luminoso, negli occhi afflitti di Tito Flavio Sabino. Gemette mentre si sporgeva oltre la balaustra di una trireme che oscillava all'ancora, con l'acqua che ne schiaffeggiava lo scafo, di fronte alla foce del fiume Tyras. Il riflesso della luna veniva allungato dal moto ondoso e poi spezzato in mille repliche, prima di riemergere e ricomporsi in un'immagine quasi perfetta, mentre la nave si alzava e si abbassava con i flutti che si infrangevano sulla costa, ad appena un centinaio di passi da babordo e tribordo.
Le costanti rotazioni dell'unico punto luminoso nel suo campo visivo non contribuivano ad alleviare il subbuglio nelle devastate viscere di Sabino. Con un altro stanco spasmo, mandò sulle assi già macchiate uno schizzo di bile e vino rosso, che finì per gocciolare sull'ultima fila a tribordo. I suoi lamenti si mescolarono con il cigolio di una corda che si tendeva e del legno.
La furia di Roma
[modifica]Roma, novembre, 58 d.C.
Pochi apprezzavano le feste di Nerone; sembravano tutte interminabili e anche quella non faceva eccezioni.
Non si trattava delle innumerevoli portate, ognuna squisitamente presentata e servita da dozzine di servi in abiti succinti - per lo meno quelli vestiti - maschi, femmine o asessuati. Né aveva a che vedere con la conversazione: rarefatta, casuale, senza umorismo; neppure si trattava degli spettacoli, una ripetitiva serie di odi eroiche nello stile preferito dall'imperatore, sia in greco che in latino, eseguite con un nauseante compiacimento da un suonatore di lira che non aveva dubbi sulla propria bravura o sul fatto di essere tra i favoriti dell'imperatore. Perfino la volgarità delle dimensioni del banchetto - trenta divani, ognuno con tre commensali sdraiati davanti al proprio tavolino, disposti a ferro di cavallo attorno all'artista - poteva essere perdonata, essendo diventata la norma durante il regno di Nerone.
No, nessuna di queste cose era la causa del disgusto provato da Tito Flavio Sabino durante tutta la festa, al punto da fargli pregare il suo dio Mitra che finisse il prima possibile. Era un fattore completamente differente: la paura.
La paura avviluppava la sala come un'invisibile rete da gladiatore, con pesi di piombo a spingerla a terra, e il reziario che la teneva ne tirava le corde per intrappolare ogni cosa, rendendo la fuga impossibile. Quasi tutti gli invitati erano impigliati in quella rete di paura, anche se nessuno avrebbe permesso al proprio comportamento esteriore di rivelarlo; negli ultimi tempi, dopo quattro anni e mezzo con Nerone come imperatore, l'élite di Roma aveva imparato che mostrare paura ai suoi occhi equivaleva a incoraggiarne i peggiori eccessi.
Roma in fiamme
[modifica]Roma, novembre 63 d.C.
La bambina aveva vissuto non più di un centinaio di giorni; adesso veniva resa immortale nei cieli. Nata in gennaio e per il giubilio di tutto l'impero, Claudia Augusta, la figlia dell'imperatore Nerone e della sua imperatrice Poppea Sabina, era caduta vittima di un morbo infantile subito dopo l'equinozio di primavera. Il Senato aveva votato per dare onori divini alla defunta neonata nel tentativo di alleviare il cordoglio del padre, smodato nel dolore per la morte della figlia tanto quanto lo era stato nella gioia per la sua nascita. E fu con le guance pallide rigate di lacrime, scintillanti nella barba dorata sotto al mento, che Nerone, fulgido in una toga porpora bordata d'oro, prese un accenditoio e lo tuffò nella fiamma portata dal tempio di Vesta dalle sei sacerdotesse.
Con le pieghe della toga drappeggiate sulla testa, per rispetto verso l'ultima divinità entrata a far parte del pantheon di Roma, i senatori anziani riuniti - tutti ex pretori e consoli - osservarono, con la dovuta solennità, l'imperatore accostare la candela ardente ai fuscelli ammucchiati sull'altare. Il fuoco attecchì; fili di fumo si levarono in spirali fino al tetto del nuovo tempio, accanto a quello di Apollo, sul Palatino. L'edificio era stato costruito da schiavi che avevano lavorato giorno e notte nei sette mesi trascorsi dalla morte della bambina, e senza alcun limite di spesa, Nerone aveva personalmente sovrinteso a ogni sontuoso dettaglio, dedicando gran parte del proprio tempo al progetto e trascurando del tutto la gestione di Roma.
L'imperatore di Roma
[modifica]Definirlo caos era un eufemismo. Il confuso spiegamento da colonne in righe era un netto contrasto con le ordinate schiere, disposte a scacchiera lungo i due lati della Via Postumia, che con il Po sul fianco destro, bloccavano la via per Cremona. Decine di migliaia di legionari e ausiliari se ne stavano in silenzio, gli elmi lustri che luccicavano debolmente ai primi raggi del sole, a osservare il nemico disporsi faticosamente in ordine di battaglia. Ma il motivo di questo caos non era né un'armata composta da una massa di barbari indisciplinati, né una carenza di generali: semmai il contrario. Era di un eccesso di generali che soffriva l'esercito, perché, in assenza dell'imperatore, Marco Salvio Otone, nessuno aveva il pieno comando. E neanche la disciplina delle truppe era il problema, perché anch'esse, come quelle nemiche, erano romane.
E quella era una guerra civile.
Tito Flavio Sabino osservò con una smorfia i centurioni delle cinque coorti della guardia pretoriana sotto il suo comando, che sbraitando facevano schierare nella nuova posizione quei soldati da piazza d'armi: dall'avvistamento del nemico gli ordini erano cambiati tre volte. Come si era arrivati a questo? si chiese, levando gli occhi per esaminare l'armata del Reno che aveva marciato verso sud, in previsione di un attacco su due fronti, per sostenere l'uomo che aveva proclamato imperatore, Aulo Vitellio, rinominato buongustaio e governatore della Germania inferiore. Come, in meno di un anno dal suicidio di Nerone, dichiarato nemico dello Stato dal senato, si era arrivati al punto di avere due imperatori e spargimento di sangue romano?
Cecina Alieno e Fabio Valente, i due generali di Vitellio, avevano sorpreso le forze fedeli a Otone, imperatore a Roma, con la rapidità della loro avanzata e la discesa in Italia tanto precocemente nella stagione. Otone aveva reagito cercando di negoziare un accordo, ma era stato respinto con sdegno.
Perciò, per Otone l'unica scelta era stata la guerra civile, a meno di non rinunciare subito suicidandosi. Ed era lì, nella valle del Po, che si sarebbe decisa la questione.
Alexander saga
[modifica]L'eredità di Alessandro Magno
[modifica]«Al più forte». Il Grande Anello della Macedonia fluttuava nella visione sfocata di Alessandro; la sua mano tremava per lo sforzo di tenerlo sollevato e parlare. Decorato con l'emblema del sole a sedici punte, l'anello rappresentava il potere di vita e di morte sul più grande impero di tutto il mondo conosciuto; un impero che lui avrebbe dovuto lasciare in eredità così presto, troppo presto, poiché ora Alessandro, terzo del suo nome a essere re di Macedonia, capiva quel che era già chiaro a tutti: stava morendo.
Fu assalito dall'ira verso i volubili dèi che tanto gli avevano dato ma avevano preteso un così alto prezzo. Morire lasciando la propria ambizione soddisfatta a metà era un'ingiustizia che guastava le conquiste fatte e aumentava il sapore amaro che gli saliva in gola; poiché era stato solo l'Oriente a cadere sotto il suo dominio e l'Occidente non aveva ancora conosciuto la sua gloria. Ma non era stato forse avvertito? Il dio Amon non lo aveva messo in guardia dalla hubris, quando lui aveva consultato l'oracolo della divinità nell'oasi di Siwa, nel lontano deserto dell'Egitto, una notte di dieci anni prima? Era allora questa la punizione per aver ignorato le parole dei dio ed essersi spinto più in là di quanto qualsiasi altro mortale avesse mai osato? Ne avesse avuto la forza, Alessandro avrebbe pianto per sé e per la gloria che gli stava scivolando via tra le dita.
Senza un erede naturale e riconosciuto, a chi avrebbe permesso di succedergli? A chi avrebbe dato l'opportunità di ascendere ad altezze pari a quelle da lui raggiunte? L'amore della sua vita, Efestione, l'unica persona che avesse trattato come suo pari, tanto sul campo di battaglia quanto nel letto che dividevano, gli era stato strappato via meno di un anno prima; solo Efestione, il bello e fiero Efestione, sarebbe stato degno di espandere quel che Alessandro aveva già creato. Ma Efestione non c'era più.
Le tre legioni
[modifica]Ravenna 37 d.C.
«Ad affrontare Synatos, il reziario, vi do il secutor, Lico di Germania!».
Il boato di approvazione della folla soffocò la voce dell'annunciatore; ma per Thumelicatz fu un brusio ovattato che penetrò appena l'elmo di bronzo che gli racchiudeva la testa. Avanzò a grandi passi nell'arena, mostrando la spada corta ai diecimila spettatori che scandivano: «Lico! Lico!», la forma abbreviata del suo nome latinizzato: Tumelico. Sollevando la spada in aria a tempo con il coro e impugnando lo scudo rettangolare semi-cilindrico, decorato con una testa di cinghiale, salutò ogni parte dell'arena ovale.
Thumelicaz aveva imparato molto presto, nei suoi cinque anni sulla sabbia, dal lanista Orosio, suo proprietario nonché allenatore, a ingraziarsi la folla, malgrado i sentimenti che provava per essa: un gladiatore popolare con il sostegno del pubblico aveva una sorta di vantaggio in ogni combattimento e, in caso di sconfitta, poteva aspettarsi la sua misericordia. Orosio aveva una grande esperienza, essendosi guadagnato la spada di legno della libertà quindici anni prima, dopo cinquantatré combattimenti; a Thumelicatz mancava solo una vittoria per eguagliare quel risultato, grazie agli insegnamenti del lanista. Rivolse la spada verso il suo mentore seduto tra la folla; Orosio, un tempo oggetto di paura e disprezzo ma ora di riluttante rispetto, inclinò la testa per raccogliere l'omaggio.
Infine, urlando le rituali parole di un gladiatore in procinto di intraprendere un combattimento mortale, Thumelicatz salutò il promotore dei giochi, seduto sotto l'unico baldacchino presente nell'arena. Con un grazioso gesto della mano, il promotore, il recentemente insediato prefetto della piccola città provinciale di Ravenna, indicò di essere pronto a vedere sangue versato; si sistemò la toga bianca bordata da una sottile fascia porpora, simbolo del suo rango equestre, e tese i palmi per accettare il riconoscimento della folla.
Bibliografia
[modifica]- Robert Fabbri, Il tribuno, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton Editori, 2012. ISBN 978-88-541-3807-0
- Robert Fabbri, Il giustiziere di Roma, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton Editori, 2013. ISBN 978-88-541-4735-5
- Robert Fabbri, Il generale di Roma, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton Editori, 2014. ISBN 978-88-541-6075-0
- Robert Fabbri, Il re della guerra, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton Editori, 2015. ISBN 978-88-541-7282-1
- Robert Fabbri, Sotto il nome di Roma, traduzione di Gianpiero Cara, Newton Compton Editori, 2016. ISBN 978-88-541-8720-7
- Robert Fabbri, Il figlio perduto di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton Editori, 2017. ISBN 978-88-227-0323-1
- Robert Fabbri, La furia di Roma, traduzione di Emanuele Boccianti, Newton Compton Editori, 2018. ISBN 978-88-227-1738-2
- Robert Fabbri, Roma in fiamme, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton Editori, 2019. ISBN 978-88-227-2704-6
- Robert Fabbri, L'imperatore di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton Editori, 2021. ISBN 978-88-227-3985-8
- Robert Fabbri, Le tre legioni, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton Editori, 2020. ISBN 978-88-227-4099-1
- Robert Fabbri, L'eredità di Alessandro Magno, traduzione di Emanuele Boccianti, Newton Compton Editori, 2022. ISBN 978-88-227-5812-5
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