Umberto Nobile

Umberto Nobile (1885 – 1978), ingegnere, generale ed esploratore italiano.
L'"Italia" al Polo Nord
[modifica]Questo libro contiene la storia della spedizione dell'"Italia", dal giorno in cui fu per la prima volta concepita a quello in cui i superstiti della catastrofe, dopo le terribili vicende a essa seguite, tornarono in Roma. Nell'esposizione ho avuto di mira soprattutto la precisione, sforzandomi di essere obiettivo e sereno, nulla affermando che non fosse documentato, o da me personalmente constatato o controllato. In nessun conto ho tenuto le facili critiche dilagate dopo la catastrofe, ritenendo che non fosse qui il posto di far commenti o polemiche. Né, scrivendo questa storia, mi sono domandato se l'uno o l'altro dei fatti da me raccontati giovassero oppure no a ribattere le critiche stesse, essendo convinto che quando le proprie azioni sono state costantemente illuminate da una pura coscienza e dirette dal sentimento di un alto dovere e dalla nobile ambizione di portare in alto il nome della patria, la verità non può essere dannosa.
Citazioni
[modifica]- Ma non c'è catastrofe che valga ad arrestare il progresso delle nostre conoscenze. Passato il primo momento di disorientamento e di sbigottimento, l'umanità – o almeno la sua parte migliore – dalla disgrazia stessa attinge nuovo impulso per spingersi più avanti e più alto. (p. 11)
- [Su Ettore Arduino] Sempre calmo e sereno, egli attendeva silenzioso alla preparazione dei voli: non l'ho mai sentito né brontolare, né criticare, né lamentarsi. I suoi modi gentili avevano una naturale distinzione, che faceva del tutto dimenticare la sua origine modesta di operaio. Durante i voli era infaticabile: presente e vigile ovunque. Standomene io nella cabina di comando, mi sentivo perfettamente tranquillo sull'andamento delle cose nell'interno della nave, sapendo che Arduino era là. Come e quando durante i nostri lunghi viaggi trovasse il tempo di riposare era ben difficile a dirsi. (pp. 42-43)
- Alessandrini, dopo la spedizione del "Norge", era rimasto lo stesso buon figliuolo di prima. Niente arie, niente prosopopea, nonostante gli onori e i trionfi decretati ai reduci di quella spedizione. [...] Un ragazzo che eseguiva senza discutere, su cui potevo fare assegnamento sicuro in qualunque circostanza, pronto a qualunque fatica, a qualunque rischio. Portava a bordo, col suo pacifico volto rubicondo, una nota di giocondità e di allegria. (pp. 43-44)
- [Su Vincenzo Pomella] Era il miglior ragazzo del mondo. Nel reggere alla più dura fatica anche per due o tre giorni di seguito, senza dormire, non c'era chi l'uguagliasse. Donde questo meridionale dagli occhi cerulei e dalla folta capigliatura bionda traesse quell'energia, era cosa inesplicabile. (p. 45)
- [Su Calisto Ciocca] Magro, segaligno, aveva anche lui una grande resistenza alle fatiche, pure avendo il pregio della leggerezza. Durante gli anni che era stato alla mia dipendenza, avevo imparato ad apprezzarne grandemente non solo la bravura di operaio ma anche le qualità morali. [...] Buon compagno, allegro, rivelava in privato un certo suo piacevole umorismo, che alla mia presenza, per soggezione, faceva tacere. (p. 45)
- [Su Felice Trojani] Tecnico colto e coscienzioso, scrupoloso nell'adempimento del suo dovere, calmo e riflessivo, aveva una pratica notevole di volo su aeroplani non meno che su dirigibili. [...] Egli collaborò sia alle modificazioni e all'allestimento del dirigibile, sia ai preparativi per l'equipaggiamento della spedizione. E certamente, a preparazione ultimata non c'era alcuno, tra i membri dell'equipaggio, che conoscesse meglio di lui ogni singola parte del dirigibile e del suo attrezzamento. (p. 47)
- [Su Aldo Pontremoli] Giovane arditissimo, non nuovo a cimenti aeronautici, appassionato per la scienza che insegnava all'Università di Milano, si fece avanti da sé a chiedere di prender parte alla spedizione. [...] Pontremoli riuniva in sé tutte le qualità necessarie: una vasta cultura scientifica, un ingegno fervido di sperimentatore, una facoltà di assimilazione sorprendente, e insieme a questa un grande vigore fisico e un animo generoso, che non esitava di fronte a responsabilità e rischi di qualunque genere. (pp. 49-50)
- Parlammo della spedizione [del "Norge"], del servizio meteorologico, delle difficoltà che avremmo incontrate nel volo. A un tratto egli [Malmgren] mi fece: «Per mio conto credo che ci siano 50 per cento di probabilità che il nostro volo riesca, ma le probabilità di salvarci sono, naturalmente, maggiori». (p. 51)
- [Su František Běhounek] Quali siano stati i risultati del coscienzioso lavoro da lui compiuto si vedrà nei rendiconti scientifici della spedizione. Qui basterà dire che indubbiamente la spedizione è debitrice a lui di gran parte dei risultati ottenuti nel campo delle ricerche fisiche.
Nel racconto che seguirà si vedrà quale olimpica serenità, quale supremo disprezzo della vita, quale dirittura morale, e a un tempo anche quanta energia egli mostrasse nei momenti più tragici da noi vissuti.
Sul pack, nei giorni stessi in cui la nostra situazione era del tutto disperata, egli non dimenticò i suoi strumenti e amorosamente li ricercò e li raccolse nella neve e li riordinò.
Ma non trascurò nemmeno i suoi compagni di sventura, ai quali cercò di rendersi utile come meglio poteva, improvvisandosi cuoco a fianco di Trojani. La stessa scrupolosa cura nell'attendere ai suoi elettrometri, come a preparare il fuoco per cuocere la carne d'orso, come a fare il proprio turno di guardia fuori la tenda. Credo sia questo il più alto elogio che possa farsi di uno scienziato e di un uomo. (p. 54) - Un freddo scienziato dal carattere inflessibile, ma anche un uomo dall'animo sensibile. Ecco infatti, dietro a quel Behounek rigido, compassato, accademico, comparirmi avanti alla mente un altro che amo infinitamente di più: un Behounek infagottato in una pelliccia di agnello, divenuta ormai lurida, coi piedi quasi scalzi, uno strato di sudiciume sul volto e sulle mani annerite dal fumo; il Behounek della tenda rossa, quello che alternava il suo tempo tra gli elettrometri e la cucina; quello che si muoveva impacciato sui ghiacci, e che di tanto in tanto senza avvedersene, nel muoversi attorno, urtava in una delle funi che ventavano la tenda imprimendole un terribile scossone; il Behounek che, all'avvicinarsi degli aeroplani, ritto su un hummock, se ne stava ad agitare ininterrottamente una bandiera rossa, finché non gli si fosse detto di smetterla; il Behounek, dall'animo nobile e dal cuore sensibile, che ho visto piangere il giorno in cui sul pack scriveva una sua ultima lettera di addio alla fidanzata e alla sorella. (p. 55)
- Per rendersi conto della preziosa utilità di quel miscuglio concentrato e complesso di alimenti che si chiama pemmican, bisogna averlo adoperato nelle condizioni in cui ci trovammo noi sul pack dopo la caduta. Ai più schizzinosi la zuppa di pemmican parve di un sapore squisito.
Per se stesso è già un alimento completo, riunendo nella giusta proporzione l'albumina, gli idrati di carbonio e i grassi necessari per l'organismo umano, ma un altro suo incommensurabile vantaggio sta nell'essere quasi completamente privo di acqua, sicché riesce prezioso quanto altro mai in una lunga marcia nelle regioni polari, sia essa fatta a piedi o in slitta. Oltre a ciò il pemmican può mangiarsi anche freddo, nella sua forma concentrata, ma naturalmente allora è assai meno gustoso di quando, allungato con acqua nella proporzione di una parte di pemmican e due parti di acqua, se ne fa una buona zuppa calda. (pp. 81-82) - Il rischio era nella natura stessa di una impresa come la nostra. Il rischio era nel fatto di essere i primi a tentare. Essere pionieri è un onore che si paga. (p. 94)
- Tornare una seconda volta al Polo! Ma sì, dopo tutto era stato forse anche più difficile che l'esserci andati una prima volta. Il pensiero di dover affrontare daccapo difficoltà, rischi, responsabilità, non ci aveva fatto tremare.
Non il caso, non una serie di fortunate combinazioni ci avevano condotti lassù la prima volta, ma la nostra volontà indomabile.
Quella stessa che ora ci aveva fatto tornare, quella stessa che ancora una volta aveva moltiplicato la nostra energia, facendo prevalere la nostra fede sulle avversità accumulate contro di noi dal malanimo degli uomini, non meno che dalla forza della natura. (p. 176) - Altre parole, altri pensieri non vennero in quei primi indimenticabili istanti, quando la morte sembrava imminente. Ma d'un tratto una forte commozione mi prese. Mi sentii tutto sconvolgere dentro: qualche cosa veniva su dal fondo dell'animo, dal fondo della mia sostanza, qualche cosa che era più forte dei dolori delle povere membra martoriate, più forte del pensiero della morte che si avvicinava. E dal petto sconvolto proruppe allora, alto e impetuoso, il grido: «Viva l'Italia!».
I compagni acclamarono.
«Viva l'Italia!». Era tutta la mia passione, la nostra passione, quella che ci aveva condotti lassù al Polo, quella che ci aveva ridotto moribondi su quell'orrido deserto di ghiaccio. Da due anni non vivevo che di questa ardente ambizione di portar su in alto, in alto, quel nome, portarlo dove altri non erano giunti, dove altri non avevano ancora osato, dove altri non avevano potuto! Violare l'ignoto nel nome d'Italia, legare definitivamente all'ignoto il nome d'Italia. Da due anni non avevo vissuto che di questo: l'unico sogno, l'unico tormento, l'unica passione. E ora ecco la fine! Ci trovavamo buttati laggiù, sui ghiacci, in preda alla morte, mentre la bella nave nostra, con inciso nei fianchi il bel nome, volava via in balia della bufera, con gli altri compagni.
In quell'istante supremo, tutto ciò che era personale era scomparso. Non un pensiero per la famiglia, lontana e aspettante, non un rammarico per la vita che fuggiva. Avevo dimenticato Maria, mia moglie, tutto. Non c'era altro che l'Italia. (pp. 194-195) - Le cause vere della catastrofe rimarranno purtroppo sconosciute: i soli che potevano dircele erano forse i disgraziati compagni rimasti a bordo dell'"Italia"; ma essi scomparvero insieme col dirigibile, portandosene con loro il segreto, né oggi è più lecito sperare che alcuno torni un giorno a raccontarci che cosa realmente fece abbattere al suolo la nostra bella nave.
Per conto nostro l'unica cosa che ci sentiamo sicuri di poter affermare è la repentinità dell'avvenimento, la quale però non impedì che fosse fatto tutto ciò che si poteva ragionevolmente tentare, da prima per impedire la caduta, e poi per attenuarne le conseguenze, quando essa apparve inevitabile. Durante quei due o tre terribili minuti la calma e l'ordine a bordo furono assoluti. Gli ordini che era possibile dare furono dati ed eseguiti con chiarezza d'intuito, con prontezza di decisione, con sangue freddo eccezionale. (pp. 232-233) - Scrissi a mia moglie sette paginette di raccomandazioni, di suggerimenti per l'educazione della bambina, di consigli per la sua salute. La confortavo poi a rassegnarsi serenamente, se non fossi più tornato. Dicevo: «Iddio forse vorrà che un giorno, ancora una volta, ci riabbracciamo, e sarà come un miracolo. Ma se così non fosse, non dovrai piangere la mia morte, ma esserne fiera, nella certezza che avrò compiuto fino all'ultimo momento, con serenità, il mio dovere». (p. 264)
- Cercavo di rincuorare i compagni che vedevo tristi e preoccupati. Bisognava confidare nella Provvidenza Divina. Finora eravamo salvi per un prodigioso concatenamento di circostanze, che apparivano quasi miracolose. Che Iddio ci avesse salvati e concesso due mesi di viveri soltanto per prolungare la nostra agonia, mi sembrava impossibile. Vi erano poi nel mondo milioni di persone che pregavano per noi, e io credevo alle preghiere. Credevo soprattutto alle preghiere dei piccoli, e ricordavo e raccontavo ai compagni il fervore innocente con cui un giorno io stesso, piccolo di nove anni, avevo invocato l'aiuto della Madonna per mia madre che di là, nella camera attigua, i medici operavano per una grave malattia. Mi sembrava impossibile che quando si pregasse così fervidamente da un cuore innocente, la preghiera non dovesse servire a nulla, che dovessero rimanere senza alcuna azione benefica i milioni e milioni di pensieri e di cuori rivolti ansiosamente verso di noi da tutte le parti del mondo. (p. 280)
- La morte era tra gli avvenimenti possibili, tra quelli probabili forse. Ogni volta che ero partito dalla Baia del Re avevo detto a me stesso: «Questa volta forse non si tornerà», e il mio spirito aveva accettato come cosa naturale questa possibilità. Del resto, era appunto in questo continuo rischiare che trovavo il fascino della nostra impresa. (p. 281)
- La sera, alle ore 20, riuscii a far trasmettere la nota che avevo preparato e a cui avevo aggiunto la frase: «Abbiamo tinto in rosso la nostra unica tenda».
Stando infatti alle prime notizie ricevute dalla "Città di Milano", sembrava che gli aeroplani – ora che essi conoscevano le nostre coordinate – dovessero giungere su di noi da un'ora all'altra. Avevamo perciò tracciato delle grandi striscie rosse sulla piramide della tenda, servendoci del liquido colorato contenuto nelle palle di vetro che durante il volo ci servivano al controllo della quota, e di cui alcune eran cadute intatte.
Dopo due o tre giorni sotto l'azione dell'intensa luce solare, queste striscie rosse sbiadirono, e poi dileguarono del tutto. Ciò nonostante bastarono a creare la leggenda della "tenda rossa", che viceversa era semplicemente di tinta biancastra. (p. 302) - Eravamo sporchi, laceri, semiaffamati; da quasi un mese vivevamo nella miseria più abietta, nel sudiciume più squallido; da tempo aspettavamo, fra le ansie più tormentose, le tante cose di cui avevamo estremo bisogno: accumulatori per poter prolungare le nostre comunicazioni col mondo civile, viveri, qualche indumento, medicine. E tutte queste cose preziose finalmente ora ci arrivavano. Le vedevamo venir giù e le raccoglievamo con grida di puerile allegrezza. Ci trovavamo laggiù, striscianti sui ghiacci, simili a mendicanti che aspettano alla porta del ricco un tozzo di pane che li sfami; e questo pane, sospirato per quattro lunghe settimane, finalmente giungeva. Eravamo ebbri di gioia; e il cuore traboccava di gratitudine per i generosi aviatori che volavano su di noi. Ma in quella gioia sentivo ancora più dolorosamente la pena della nostra umiliante condizione. Eravamo noi stessi abituati a volare al di sopra degli uomini, lontano dagli uomini! Ed ecco che eravamo ridotti alla più estrema miseria, ad attendere umilmente l'elemosina che ci veniva giù dal cielo. (p. 344)
- Prevedevo mille rischi e difficoltà, ma era possibile superarli; e poi, salvo qualche inevitabile momento di scoraggiamento, avevo sempre avuta la profonda fiducia che un giorno saremmo tornati nel mondo civile, saremmo tornati alla vita; avevo una confidenza profonda nell'aiuto divino e nella nostra volontà tenace. (p. 358)
- Tornare sotto la tenda, sui ghiacci, in mezzo a quel pack che pure era stato il mio inferno per un mese intero: questa fu l'idea ossessionante che mi prese e mi tenne.
Era un gesto? Il bisogno, forse, di buttare in faccia a tutti i piccoli uomini maligni il mio disprezzo, e mostrar loro che tanto poco avevo desiderato venir via, che ero disposto a tornarvi, e ci sarei tornato? No, non questo, ma un istinto profondo di fuggire dalla umanità. Laggiù si stava meglio. Si soffriva materialmente per sé, e più ancora forse vedendo soffrire i compagni, ma tutto era nulla in confronto a questo. Laggiù i nemici erano il ghiaccio, la nebbia, la deriva, il vento, i crepacci, gli orsi, ma questi nemici si potevano affrontare con serenità di spirito e con cuore calmo. No. Era meglio fuggire, meglio tornare laggiù. Non mi sentivo la forza di affrontare la malignità degli uomini, rinchiuso in quella piccola cabina della "Città di Milano", inchiodato in quel breve spazio da una gamba e un braccio rotti. E che importava che non mantenessi più la promessa fatta ai compagni di vegliare su di loro dal mio posto naturale di comando, dal solo posto dove mi fosse possibile di agire per loro? Ci sono momenti in cui la viltà si impadronisce di noi. Era troppo forte il disgusto. Mi era impossibile respirare fra quelle quattro pareti di legno. Mi occorreva l'aria libera e pura del pack. Sotto la piccola tenda lacera e sudicia avevo lasciato la mia anima, la mia parte migliore. Meglio tornare. Sarebbe stato più facile vivere. (pp. 374-375) - E così che, nelle ore tragiche e gravi di mistero, il destino si compiace talvolta di oscurare la mente degli uomini con improvvise cecità. Le più assurde congetture assumono allora colore di certezza, mentre la realtà si nasconde dietro uno schermo impenetrabile. (p. 386)
- Un inutile sacrificio, dunque, questo abbandono di Malmgren? Ma chi può erigersi a giudice di avvenimenti svoltisi in circostanze così eccezionali e terribili? Bisogna ascoltare e tacere. Nessuno ha il diritto di criticare, come nessuno ha il diritto di esaltare. L'abbandono di Malmgren non fu una viltà, come non fu nemmeno un atto eroico.
Fu piuttosto una dura necessità. In un deserto di ghiaccio, non possono valere le medesime regole del mondo civile. In circostanze simili non vi sono leggi all'infuori di quelle naturali, come non vi sono giudici all'infuori di Dio e della propria coscienza. (p. 436) - Finalmente giungemmo in Italia. Fu al pari di una madre che abbia pianto come morto il figliuolo, che l'abbia saputo aggredito, torturato, diffamato, linciato e poi lo ritrovi, lo afferri fra le braccia e lo soffochi con la sua stretta e convulsamente gli dica parole insensate. Sì, fu così. Il popolo, spontaneamente, si riversò nelle stazioni, invase i piazzali, ci gridò commosso tutto il suo amore.
Sentii il cuore del popolo battere accanto al mio. Sentii tutta la passione che prorompeva dai cuori generosi di questi giovani, che fino allora avevano dovuto comprimere il loro animo, soffocare il loro sdegno contro l'inaudita vigliaccheria con cui si era tentato di linciare un'impresa italiana e che dall'Italia stessa aveva preso il suo nome. Avevamo portato per la seconda volta al Polo i colori della patria, per la seconda volta coscienziosamente preparata e compiuta un'alta e audace impresa, ed ecco che ci avevan trattati come se al Polo, anziché portarvi la Croce di Cristo, il tricolore e la nobile ambizione di un lavoro scientifico, fossimo andati a compiervi il più grave dei delitti. (pp. 444-445)
Mi dissero che avevo un aspetto spettrale, lo sguardo assente, come sperduto lontano. Può darsi. È certo che sentivo l'anima come volesse uscirmi dagli occhi per giungere fino alla folla. No, non erano le sofferenze passate, non la visione della catastrofe lontana, non l'ansia tormentosa per i compagni non ancora tornati, ma la commozione profonda nel vedere, nel sentire che ancora una volta il popolo era con me e aveva intuito la verità e aveva fatto giustizia dell'inaudita infamia.
Il resto non conta. Fu opera di piccoli uomini. Fu la rivincita delle passioni di pochi contro tutto un popolo acclamante, contro lo spirito stesso della nuova giovane Italia guidata da Benito Mussolini.
Ma il tempo è giusto e la verità farà la sua strada. Al di sopra di tutte le miserie, sia la coscienza del sacrificio compiuto per la grandezza del nome italiano e la tranquilla fiducia nel giudizio della storia.
La tenda rossa
[modifica]- A quindici anni mi immergevo spesso, per ore e ore, in meditazioni sul significato della vita. Quale era lo scopo di questa? Come e perché l'Universo di cui siamo parte cosi insignificante esisteva? Dire che era stato creato da un Essere supremo significava non dir nulla; era come sostituire un mistero a mistero. E l'Universo era limitato o illimitato? Naturalmente, mi era più facile accettare l'idea di un universo che si estendesse indefinitamente, anziché quella di un Universo finito; perché, pensavo, se un limite esistesse, che cosa vi sarebbe al di là del limite? Ma dove, poi, mi perdevo del tutto era nel tentativo di immaginarmi la non-esistenza dell'Universo. Non riuscivo a concepire in che modo potesse non esistere. E che cosa mai vi sarebbe stato al suo posto? (p. 19)
- II nome del generale Moris evoca in me quanto di più puro, di più alto possa esservi nella natura umana. Venire a contatto con lui faceva bene allo spirito. Mi sentivo rinfrancare, sollevato al di sopra delle piccolezze della vita quotidiana. Dalla sua bella figura, alta e asciutta, e dai suoi occhi azzurri, emanavano una bontà e una dignità incomparabili. (p. 36)
- Si, io sentivo nel mio cuore tutta la poesia della nostra impresa. Poesia erano stati i nostri voli, poesia gli aridi numeri che Pontremoli e Behounek col loro lavoro paziente ed eroico avevano accumulato durante le lunghe ore di volo. Poesia la vita di ansie e di pericoli che da quasi due mesi vivevamo.
«Sì,» proseguivo rivolto ai miei compagni «abbiamo compiuto il nostro dovere. Gli italiani ce ne saranno riconoscenti, e circonderanno di affetto le nostre famiglie. Per esse l'orgoglio della nobile impresa da noi compiuta e la solidarietà riverente del mondo civile sarà compenso al dolore della nostra perdita.» (p. 183)
Bibliografia
[modifica]- Umberto Nobile, L'"Italia" al Polo nord, White Star, 2006. ISBN 88-540-0357-3
- Umberto Nobile, La tenda rossa. Memorie di neve e di fuoco, Mondadori, 2002. ISBN 88-04-51093-5
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