Amilcare Lauria

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Amilcare Laurìa (1854 – 1932), scrittore italiano.

Vecchie memorie napoletane. La canzone[modifica]

  • Fra tanti, i più fortunati predoni delle care melodie nostre restarono sempre i compositori per pianoforte... Oh, Dio, essi ammiravano troppo la canzone napoletana. Talvolta, é vero, come Liszt, Thalberg ed altri, confessarono la fonte dell'inspirazione del tema, ma il più delle volte dimenticarono di farlo: le più celebri composizioni di Tkceohowshy[1] somigliano con troppa sfacciataggine alle più vecchie e malinconiche melodie napoletane, anziché a' canti slavi! (pp. 113-114)
  • Guglielmo Cottrau non era soltanto un melomane, come leggo a capo della sua preziosa raccolta d'autografi: Le portefeuille d'un mèlomane, nell'estratto dalla Revue Britannique: era musicista da capo a piedi. L'anima di lui cantava sempre, come la frase d'una melodia belliniana; i nervi vibravano, mandando suoni, come le corde d'uno Stradivarius, e i canti, e i suoni, in quel paese cosi dolcemente musicale, inspirati dalle semplici, dalle ingenue cantilene di quel popolo, diventavano canzoni più belle, più complete assai delle originali. (p. 114)
  • Che facesse da allora Guglielmo Cottrau, che mai divenisse, noi lo possiamo sapere leggendo il fascicolo d'autografi e di notizie: Le portefeuille d'un mèlomane. Da quelle poche pagine egli sorge tutto intero. Esse ce lo fan vedere dedito anima e corpo alla musica; ardente d'irradiare il sentimento di artista fra veri e grandi artisti. Quanti ne conobbe!... i migliori fra i contemporanei restarono affascinati da quel suo carattere gaio, brioso, servizievole, entusiasta: Rossini, Donizetti, Bellini, Mercadante, Meyerbeer, Hérold, la Malibran – cosi cara ed affettuosa con lui – Lauro Rossi, i fratelli Ricci, P. A. Fiorentino, Nourrit – il cui tragico suicidio è rappresentato in maniera raccapricciante in una lettera che il Cottrau scriveva alla sorella, a Parigi – Pacini, Spontini, Thalberg ed altri ed altri ancora! (p. 115)
  • Grande anima di artista nell'intimo [Guglielmo Cottrau]. Tanto più artista di molti altri, i quali, accanto a lui, producevano opere ponderose di altro genere musicale! Ci si rifletta: quanti spartiti di quel tempo – de' mediocri di allora, specialmente – non sono obliati, mentre le vecchie canzoni nostre [napoletane], contemporanee di quei melodrammi, nelle quali sfavilla, come riflesso di gemme, la sua anima per rendere melodia il canto informe, embrionale, son rimaste e rimarranno sempre! (p. 116)
  • Qui sarei tentato di mostrarvi un'altra caratteristica napoletana di allora, l'improvvisazione: ché i versi della canzone I' te voglio bene assai sono appunto del più celebre improvvisatore di quei tempi, ch'io ricordo come in sogno. Era un vecchietto piccolo, panciuto, accidentato nelle gambe; roseo, bianco, bonaccione: era l'occhialaio che aveva bottega all'angolo di via della Quercia. Ricordo quando arrivava la sera in casa di mio zio Leopoldo Tarantini: lo portavano a braccia, lo issavano su d'un tavolino, lassù, lo deponevano sulla sedia che gli avevano apparecchiata; egli girava intorno gli occhietti, sorrideva tutto contento... e l' improvvisazione napoletana principiava.
    Costui era Raffaele Sacco, il poeta di Te voglio bene assai. (pp. 125-126)
  • Io non dirò come un pessimista amico mio: l'ultima canzone napoletana fu scritta da Gigi Denza, Funiculì, funicolà; ma son pure obbligato a riflettere che le canzoni dell'ultimo ventennio troppo facilmente si adattano al ballo: talune col ritmo della polka, tal'altre col ritmo del valzer, il resto quasi tutte per la contraddanza, mentre le antiche si adattavano soltanto alla danza deliziosa che i piccoli marosi di Marechiaro a Posillipo[2] obbligano a fare alla barca: cioè alla vera e molle barcarola, che divien tarantella, quando i marosi s'indemoniano; sono obbligato a riflettere, per di più, che i successi delle canzoni d'oggi, meno difficili, ma assai meno durevoli degli antichi, si debbono più alla sfacciata réclame, alla pornografia del verso, all'ambiente del caffè-concerto, anziché alla musica, e, per conseguenza, non mi sento di chiamare assurdo quel povero pessimista amico mio! (p. 129)

Note[modifica]

  1. Čajkovskij.
  2. Nel testo "Posilippo".

Bibliografia[modifica]

  • Amilcare Lauria, Vecchie memorie napoletane. La canzone, in Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti, quarta serie, volume sessantacinquesimo della raccolta volume CXLIX, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1896, pp. 104-130.

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