Carlo Pascal
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Carlo Pascal (1866 – 1926), latinista italiano.
Citazioni di Carlo Pascal
[modifica]- Vergilio è la più larga fonte di espressioni proverbiali o quasi proverbiali, di origine letteraria, vale a dire di quelle espressioni, che si fissarono nella memoria del popolo o degli scrittori di ogni età per effetto appunto dei versi suoi, studiati e imparati a memoria.[1]
Fatti e leggende di Roma antica
[modifica]- La leggenda degli Orazii e dei Curiazii è uno dei più caratteristici e insieme più strani esempii del modo onde si trapiantarono sul suolo italico leggende e tradizioni greche; e come queste si fusero con le leggende italiche in un unico corpo di storia leggendaria, nella quale riesce spesso ben difficile ravvisare gli elementi originarii e quelli importati. (La leggenda degli Orazii e Curiazii, p. 16)
- Il racconto, o meglio i racconti tradizionali sull'origine e sul regno di Servio Tullio, son forse unico esempio, nella storia primitiva di Roma, di una leggenda per la quale ci avvenga studiare la corrispondente leggenda etrusca, che ne fu l'ispiratrice, e in molta parte la generatrice; e cogliere, per cosi dire, sul vivo il lavoro di trasformazione, che i Romani fecero, delle leggende esotiche, mescendole e rifondendole con accomodamenti di ogni sorta nel multiforme corpo delle loro tradizioni leggendarie. (La leggenda latina e la leggenda etrusca di Servio Tullio, p. 33)
- Nella tradizione romana Servio Tullio è il rappresentante del popolo che abitava l'Esquilino, ed ivi appunto si ripone la casa sua. L'Esquilino è tra i colli di Roma quello che più ebbe carattere di abitazione pleblea sino ad Augusto [...]. (La leggenda latina e la leggenda etrusca di Servio Tullio, p. 41)
- La mia tesi [sui responsabili dell'incendio di Roma] si fonda sopra alcune contingenze di fatti, la cui evidenza non può sfuggire ad un esame impregiudicato. Si riassumano, di grazia, le ragioni delle due parti [Nerone e i cristiani] tra le quali pende l'accusa dell'incendio di Roma. Se da una parte troviamo un uomo, scelleratissimo quanto si vuole, dall'altra troviamo una comunità segreta, della quale alcuni membri sono dediti al delitto per testimonianza degli scrittori pagani, e dagli stessi apostoli son dichiarati indegni di predicare Cristo. Ma quell'uomo quando seppe che la sua casa bruciava, tornò a Roma, tentò arrestare le fiamme, si mescolò in mezzo al popolo, girò di qua e di là senza guardie, prese tutti i provvedimenti consigliati dalla immanità del disastro; e, mentr'ei cercava porre riparo, scoppiò novello incendio; degli altri si sa che di tanto in tanto prorompevano alla rivolta, che predicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva seguire il regno della giustizia; che tal regno essi aspettavano dopo quello dell'Anticristo, che per essi l'Anticristo era Nerone, che credevano, durante la loro vita, essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene; che a Roma augurarono ancora, pel corso di lunghi secoli, distruzione e sterminio, che dopo la rovina della potenza romana aspettavano il loro trionfo; qual meraviglia che tutto questo complesso di aspettazioni e speranze abbia eccitato le menti incolte e fanatiche degli schiavi miserrimi, e li abbia spinti all'atto forsennato? (L'incendio di Roma e i primi cristiani, pp. 117-118)
- L'incendio [del luglio 64] fu appiccato a tutte le regioni più nobili e suntuose di Roma; perirono i templi vetusti, i bagni, le passeggiate, i luoghi di delizia, le case più ricche. Le regioni dei poveri, l'oscuro Trastevere, il centro della comunità giudaica e cristiana, furono rispettati. (L'incendio di Roma e i primi cristiani, p. 132)
- La dottrina stoica non poteva proporsi il problema della eguaglianza sociale e quindi dell'abolizione della schiavitù. Per essa tal problema non esisteva. La vita morale doveva pur essa svolgersi all'infuori di ogni azione esteriore. Pure nella schiavitù, pure nei tormenti l'uomo poteva esser libero e felice. La libertà non era nelle condizioni accidentali dell'esistenza, era anzi nella piena indipendenza dell'uomo dal mondo esterno. (Le aspirazioni del rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica, p. 198)
La sorella di Giacomo Leopardi
[modifica]- [Paolina Leopardi] Così visse questa dolente, senza mai uscir da Recanati, eccetto le poche volte che i genitori l'accompagnarono a visitare la casa di Loreto; visse ora rassegnata, ora impaziente, ma non mai ribelle, rispettosa sempre, amorosa sempre; visse reprimendo i moti del cuore, spegnendo gli ardori, tacendo quasi sempre e spesso sognando. (p. 5)
- La nostra Paolina [...] ricercava in sé stessa la principale ragione della infelicità sua. L'abitudine alla meditazione ed al raccoglimento, l'esame minuto e tormentoso, che ella faceva continuamente dei sentimenti suoi, acuiva le potenze del suo spirito, ingrandiva i fantasmi dei suoi sogni, le faceva sentire più desolante il vuoto della realtà. V'è qualche pagina da lei scritta, in cui questa analisi quasi spietata di sé stessa le suggerisce espressioni di rude sincerità, che ci rivelano insieme tutto il candore e la bellezza di quell'anima. (p. 9)
- Io non dirò certo una cosa peregrina, dichiarando che senza Monaldo [Leopardi] non sarebbe stato Giacomo; ma io voglio dire che non poca parte dell'anima di Giacomo si spiega e si comprende guardando a Monaldo, e che in questo troviamo quasi i germi, che maturarono poi gloriosamente nel grande figliuolo. (p. 13)
Poeti e personaggi catulliani
[modifica]- Di C. Elvio Cinna fecero spesso menzione gli antichi a proposito della morte di Cesare, e narrarono un tragico equivoco, del quale Cinna appunto rimase vittima. Egli, che era stato fido amico di Cesare, volle partecipare agli estremi onori, che si rendevano al rogo dell'ucciso: ma fu dal popolo scambiato, per errore del nome, con Cornelio Cinna, che aveva il giorno prima parlato contro Cesare e che era tra i congiurati; e fu dal furore popolare miseramente trucidato, e ne fu portato in giro, orrendo trofeo di sciagurata vendetta, il capo confitto ad un'asta. (cap. II, pp. 49-50)
- A noi bastano le insigni testimonianze di Catullo, di Vergilio, di Gellio per credere al valore poetico di Cinna. Se Catullo gli prediceva l'immortalità e giudicava che i suoi carmi erano piccoli monumenti, se Vergilio sotto pastorali spoglie asseriva non potere cantare cosa degna di Varo o di Cinna, se Gellio con espressione non certo di ammirazione fervida, ma pur di sincera stima, il chiamava non ignobilis neque indoctus poeta, questi apprezzamenti provengono da persone di così fine gusto e di così alto giudizio, che non è possibile disconoscerne o attenuarne il valore. (cap. II, p. 73)
- M. Celio Rufo fu giovane di molto ingegno e di buoni studii, ma corrottissimo di costumi. Volendo egli procurarsi nella vita pubblica autorità e potenza, scelse la più trista delle vie, quella dell'accusare; ma fu ripagato di pari moneta dal figlio di una sua vittima. (cap. IV, p. 102)
Note
[modifica]- ↑ Da Paremiografia Catulliana e Virgiliana in Athenaeum, a. V, fasc. I, Pavia, genn. 1917, p. 20-26.
Bibliografia
[modifica]- Carlo Pascal, Fatti e leggende di Roma antica, Successori Le Monnier, Firenze, 1903.
- Carlo Pascal, La sorella di Giacomo Leopardi, Fratelli Treves Editori, Milano, 1921.
- Carlo Pascal, Poeti e personaggi catulliani, Francesco Battiato editore, Catania, 1916.
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