Cecilia Brækhus

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Cecilia Brækhus (2010)

Cecilia Carmen Linda Brækhus (1981 – vivente), pugile norvegese.

1 million euro baby

Intervista di Riccardo Romani, GQ Sport, pp. 48-53; supplemento a GQ Italia nº 151, aprile 2012.

  • La prima volta che ho visitato Cartagena de Indias, la città in cui sono nata, ho capito di essere stata molto fortunata. È un luogo meraviglioso, ma è molto diverso dalla Norvegia, dove ho trascorso l'infanzia. In Colombia sarei finita male, sulla strada o in chissà quale giro strano. Ho perso i genitori appena nata, fino ai due anni sono rimasta con una zia che poi ha dovuto mettermi in orfanotrofio. Lì i miei nuovi genitori norvegesi sono venuti a prendermi e la mia vita è cambiata. In Norvegia ho avuto l'adolescenza migliore possibile che una ragazzina possa sognare. Non mi è mai mancato nulla. I miei genitori mi hanno sempre detto la verità su chi fossi e da dove venissi. Non ho avuto un solo problema, non ho mai sentito una frase strana sul perché fossi così diversa dagli altri. Ero felice, stavo sempre all'aria aperta, avevo un sacco di amici. Ma forse, per i miei gusti, Bergen, la città nella quale sono cresciuta, era solo un po' troppo noiosa...
  • [...] mi è venuta la passione per la boxe. Ho capito subito che sarebbe stata la mia vita. In Norvegia, però, la boxe professionistica è illegale: potevo combattere tra i dilettanti, ma per me non era abbastanza. E poi era difficile giustificare quella mia voglia: tutti pensavano che fosse sbagliato, che una donna non dovrebbe fare a pugni, dovrebbe occuparsi di altre cose oppure fare sport più adatti al suo corpo. Ma io non ci volevo sentire. Così [...] mi sono trasferita in Germania. Era l'unico modo per diventare professionista. [Ma] ho dovuto affrontare tutti i pregiudizi del caso.
  • La boxe è un tarlo che mi rode, credo si tratti della parte colombiana che è dentro di me. In Norvegia tutti hanno tutto. La scuola è garantita. Il lavoro è un fatto certo. Nessuno deve lottare veramente per ottenere qualcosa. Ma io penso che un essere umano, per migliorarsi e crescere, debba soffrire e avere un obiettivo per cui valga la pena sacrificarsi. Sennò la vita non ha molto senso.
  • A volte gli uomini, sul ring, cercano di rubarmi qualcosa: le donne combattono con tutto ciò che è a loro disposizione, a cominciare dal cervello. Loro, invece, spesso si affidano troppo alla potenza. Ma i match non si vincono solo con la forza. Ciò che i maschi vorrebbero rubarmi è la capacità di concentrazione, che consente di rimanere focalizzati sulla strategia, sull'obiettivo. Io, invece, agli uomini vorrei rubare un po' della loro risolutezza, la capacità di dire no: voglio sempre accontentare troppa gente, e questo non va per niente bene.
  • Per gli uomini non è sempre facile relazionarsi con una che si presenta dicendoti: "Piacere, faccio il pugile professionista". In Norvegia e in Danimarca è ancora sopportabile, perché lì sono abbastanza conosciuta. In Germania, specie i primi tempi, i ragazzi rimanevano a fissarmi in silenzio, con la faccia inebetita. Mi sentivo come un animale allo zoo.

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