Domenico Bassi

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Domenico Bassi (1859 – 1943), bibliotecario e papirologo italiano.

Mitologie orientali[modifica]

  • Il principio fondamentale della religione sumerica o sumero-accadica era un rozzo sciamanesimo: la credenza negli spiriti maligni (donde la magia diretta a stornare gl'influssi), alla testa dei quali stavano lo spirito della terra, Inki, e quello del cielo, Anna. Dai due spiriti supremi, prima concepiti astrattamente, poi personificati, si venne svolgendo una grande schiera di divinità acquatiche e luminose, che concorsero a formare il substrato, per dir così, del pantheon caldeo posteriore. Coteste divinità dai nomi strani, di molti dei quali ignoriamo ancora il senso e la pronunzia, furono assimilate, la maggior parte, dai Semiti di Babilonia alle proprie, rappresentanti di fenomeni fisici, a cui presiedevano. (pp. 1-2)
  • La quantità straordinaria di esseri divini, maggiori e minori, onde i Babilonesi popolarono il mondo, esclude a primo tratto che abbiano potuto credere all'esistenza di un dio solo. Se pure questa idea passò per la mente di qualche teologo caldeo, è certo che il popolo non l'accolse mai: nessuna (e sono parecchie migliaia) delle tavolette o delle iscrizioni su pietre dure, con preghiere e formole magiche, venute in luce negli scavi fatti fra le rovine delle città mesopotamiche contiene nemmeno il più lontano accenno all'unità di dio. (p. 7)
  • [Su An] Egli abita nelle regioni più sublimi dell'universo, in un'atmosfera non mai turbata né da venti né da tempeste, sempre pura e serena. È il cosidetto «cielo di Anu», nel quale durante il diluvio [...] cercano rifugio gli dei degli spazi intermedii e della terra, che però non osano spingersi al di là della soglia. (pp. 32-33)
  • Gli Assiri videro in Asur il padre e il re degli altri dei, il dio della guerra, autore delle loro vittorie, al quale pertanto era offerta la parte migliore del bottino, il dio della caccia e, sembra, della salute. (p. 35)
  • Ea è il dio principale della fase più antica della religione sumerica, passato poi nel pantheon babilonese-assiro, il dio che nelle formole magiche di scongiuro viene invocato come «lo spirito della terra» e più precisamente della superficie terracquea. Ma Ea non fu soltanto il «signore della terra», o In-ki, suo antico nome originario, bensi anche il sovrano della regione dell'atmosfera, entro cui si svolge la vita in tutte le sue varie e molteplici forme. (p. 46)
  • Quale dio delle acque, cioè dell'oceano e di tutte le acque della terra, donde i suoi titoli: «il maestro delle acque, il signore delle riviere, il sovrano del mare, il re, il capo, il signore dell'abisso», Ea sumerico era il protettore dei pescatori e dei naviganti, carattere che conservò anche nel mito babilonese e nel culto assiro. (p. 47)
  • Dalla sua qualità di re delle acque deriva la sua saggezza, che fa di lui, come si legge in vari inni, «la guida intelligente, il dio della vita pura, il signore delle conoscenze, della gloria umana». Era tenuto in conto di sommamente buono, anzi uno dei suoi nomi antichi fu Dugga, «il buono», e di sommamente benefico, quale si era rivelato all'epoca del diluvio, provvedendo alla salvezza di Sitnapistim. Lo si considerava inoltre come datore delle leggi, secondo cui debbono governarsi i principi e popoli, e quindi come amante della giustizia: donde, ancora nella saga del diluvio, il rimprovero che egli move a Bel di non aver fatto distinzione fra buoni e cattivi, fra innocenti e colpevoli. (pp. 47-48)
  • [Su Ea] Fabbri e orefici, tessitori, intagliatori di pietre, giardinieri e agricoltori lo proclamavano loro patrono e maestro; gli scribi vedevano in lui la fonte della loro scienza; i medici, cioè i maghi, parlavano agli spiriti in suo nome, usando preghiere che avevano apprese dal lui. (p. 49)
  • Samas aveva appunto l'ufficio di portare durante il giorno, la luce «dell'ampio spazio del cielo» agli dei e agli uomini. A tale scopo usciva ogni mattina dall'«interno del cielo» per la porta d'oriente. Tutto in fiamme e in un cocchio guidato da due scudieri e tratto da forti muli, «le cui ginocchia non piegano», egli correva rapidamente su per la catena delle montagne, che cinge il mondo, cioè lungo la linea, la quale divide il cielo dalla terra. Il disco fiammaggiante, che si vede di quaggiù, non era che una delle ruote del cocchio. Compiuto il viaggio giornaliero, il dio rientrava per la porta d'occidente dietro il muro di metallo, che chiude la parte del cielo visibile agli uomini, e ivi passava la notte nella sua dimora, Ebabbarra (I-babbarra, «casa di Babbarra» cioè «del sole»), onde era immagine il suo gran tempio di Sippara, chiamato appunto Ebabbarra. (p. 63)
  • Come apportatore di luce Samas era tenuto in conto di uno dei maggiori nemici delle potenze del male, nate dalle tenebre e che specialmente col favore di queste esercitavano la loro funesta azione. (p. 65)
  • Al pari delle altre divinità maggiori del pantheon eufratico Samas è nominato nelle formole imprecative, dove comparisce non soltanto quale dio del sole, ma anche quale giudice e terribile punitore. Mi limito a recarne una, che è forse la più importante e a ogni modo vale, si può dire, per tutte: «il dio Samas, giudice del cielo e della terra, gli sfracelli la faccia (al colpevole) e gli converta in tenebre (?) lo splendido giorno». (p. 66)
  • [Su Marduk] Originariamente egli fu un dio solare in genere, sotto l'aspetto locale il dio-sole di Eridu, e il suo culto connesso con l'adorazione del sole. Quando poi il concetto del sole nella sua interezza fu concretato in Samas, allora in Marduk si vide il sole del mattino e ad un tempo quello della primavera. Egli passò più tardi da Eridu a Babilonia, assorgendo all'onore di dio locale e tutelare della grande metropoli. Man mano che l'importanza politica e religiosa di questa città venne crescendo, Marduk contemporaneamente si elevò sempre più nella gerarchia celeste; finché all'apogeo della potenza di Babilonia comparisce come capo di tutti gli dei mesopotamici. (p. 80)
  • [Su Marduk] Fra tutti gli dei del pantheon babilonese-assiro egli fu quello che ebbe un culto più diffuso e duraturo. Se ne fa menzione già nei documenti privati delle antichissime dinastie di Babilonia, dai quali risulta che il dio era venerato insieme con Sin e con Samas. Tutti i monarchi dell'impero babilonese gareggiarono nel rendergli omaggio. (p. 88)
  • Il culto di Marduk fiorì ancora durante la signoria persiana per opera di Ciro, che con fine intendimento politico seppe rendersi favorevoli i potenti sacerdoti del nume, rimasto anche nel periodo di decadenza dell'impero caldeo-babilonese la principale divinità di Babilonia. Cambise seguendo l'esempio paterno tenne in molto onore l'antico dio, la cui città continuò per lungo tempo ad essere la capitale del nuovo impero fondato da Ciro. Il gran santuario di Marduk fu poi messo a sacco e distrutto da Serse; il che segnò la fine del suo culto. (p. 90)
  • Istar è, senza contestazione, una delle divinità del pantheon babilonese-assiro intorno alle quali si hanno maggiori notizie, ma è ad un tempo quella che conosciamo meno: tante furono le sue forme secondarie e i suoi aspetti contradittorii e così largo e intricato svolgimento ebbe il suo mito. (p. 93)
  • Le divinità del pantheon mesopotamico sono divinità dei viventi, le quali premiano i buoni, cioè gli uomini pii, e castigano i cattivi, gli empii, appunto durante la loro vita. Il premio consiste, come risulta dalle preghiere di molti monarchi agli dei loro protettori, soprattutto in una lunga vita prospera e non rattristata da malattie, in una vecchiaia felice e in una numerosa posterità; il castigo, nell'essere privati di questi doni della benevolenza divina: l'empio era il ludibrio degli spiriti malvagi, che lo tormentavano con ogni sorta d'infermità prima di dargli il colpo mortale. Ma se le idee dei Babilonesi-Assiri sul corso della vita terrena rispetto alla condizione dei buoni e dei cattivi sono, come si vede, molto semplici e chiare, altrettanto non si può dire delle loro nozioni intorno alla vita futura: di cui i testi tacciono quasi affatto. Si credeva all'immortalità dell'anima, e che essa sentisse maggiormente il dolore del distacco dal corpo, se questo era maltrattato o lasciato insepolto. Nessun accenno però al destino dell'anima dipendentemente dall'annientamento o dal durare del corpo stesso nella tomba. (pp. 154-155)

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