Enrichetta Carafa Capecelatro

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Enrichetta Carafa Capecelatro, nota anche con lo pseudonimo di Duchessa d'Andria (1863 – 1941), poetessa, scrittrice e traduttrice italiana.

Una famiglia napoletana nell'800[modifica]

  • Di tutte le leggi della vita quella dell'oblio è la più triste sebbene sia la più necessaria. Ma ciò che si può salvare, salviamolo. Ognuno porta in sé questo segreto giardino del passato, sempre verde perché la vita, scorrendo, lo abbevera delle sue linfe e lo fa rivivere e confondersi nel presente. Noi talvolta ci affanniamo a sotterrarlo nell'oblio perché abbiamo paura del passato come di un grande spettro doloroso. Lasciamolo invece venire liberamente a noi e non ci farà più paura perché lo vedremo intessuto degli stessi elementi dei quali si compongono i nostri giorni presenti. E amiamolo perché è vita, com'è vita l'oggi, come sarà vita il domani. Se, a dirla con Shakespeare, noi siamo fatti della medesima stoffa dei nostri sogni, si può bene affermare che i nostri sogni son fatti della medesima stoffa dei nostri rimpianti. (pp. 8-9)
  • [Alfonso Capecelatro di Castelpagano] Mio zio aveva una mirabile serenità d'animo, anche in mezzo alle lotte che non gli furono risparmiate. Realizzava l'ideale di vivere per sé, senza egoismo. Non l'ho mai visto adirarsi e spesso calmava qualche escandescenza di mio padre. Amava la conversazione nella quale portava una temperanza di parole che si scambiava facilmente per indifferenza ma che non lo era. I suoi giudizi erano sempre benevoli, la sua indulgenza si stendeva a tutto: la parola più grave che diceva contro qualcuno era: imperfetto. Aveva in ogni cosa uno squisito e aristocratico senso della misura.
    Nell'80 fu nominato arcivescovo di Capua e dové lasciar Roma per chiudersi in quella città morta, nell'antico, immenso palazzo arcivescovile, le cui terrazze, dall'ammattonato verde di muschio, davano sul Volturno. Nelle linee grandiose di quel paesaggio, velato dalle nebbie umide del fiume, ritrovò la solitudine della sua cella di filippino e la sua vita parve diventare ancora più spirituale. Semplicissimo nelle abitudini, frugalissimo, alla mano, non aveva ambizioni e chiedeva soltanto d'essere lasciato in pace. Ma la sua pace non era una morta gora. La sua vita interiore era doviziosa e tale si mantenne fino all'ultimo respiro. Già vecchissimo, amava ancora di apprendere cose nuove e s'interessava a qualunque soggetto di letteratura o d'arte. Se qualche tempesta si agitò nel fondo del suo spirito, nulla però venne a turbare mai la calma superficie della sua esistenza. Nemico acerrimo degli scrupoli, si sforzava di struggerne il germe nell'animo dei suoi penitenti e di tutti coloro che lo avvicinavano. Se avesse dovuto prendere una divisa credo che avrebbe preso: Ne quid nimis. (pp. 38-39)
  • La casa nella quale io entrai sposa era ricca di memorie patriottiche. Ettore Carafa, conte di Ruvo, prozio di mio marito, aveva lasciato la testa sul patibolo nel 1799 e sul patibolo anche era morto l'altro suo prozio, dal lato materno, Gennaro Serra, del quale serbiamo una miniatura che ha nel rovescio una ciocca dei suoi biondissimi capelli.
    «Biondo era e bello e di gentile aspetto» e a ventidue anni gli fu troncata la vita dal carnefice.
    Il mio spirito giovanile sentiva tutto l'orgoglio di quelle glorie e mi pareva che non fossero pagate a troppo caro prezzo con la perdita degli averi, perché il sequestro dei beni di casa Carafa al '99 non fu tolto che assai tardi e lasciò la famiglia in condizioni disastrose. (pp. 39-40)

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