Herta Müller

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Herta Müller, 2007
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (2009)

Herta Müller (1953 – vivente), scrittrice, saggista e poetessa rumena naturalizzata tedesca.

Citazioni di Herta Müller[modifica]

  • C'è stato un momento in cui tutti noi abbiamo pensato che con la Perestrojka e la Glasnost i russi ce l'avrebbero fatta. Il Grande Paese si è diviso in tante piccole parti e si è pensato che andava bene così. Ci si è detti "siamo ungheresi, romeni, polacchi: lasciateci stare così". Invece no. Oggi, con l'idea della Grande Nazione, torna tutto come prima. È che Putin è ammalato di fantasmi. Tutto quello che succede ora in Ucraina è il dolore che deriva da suoi fantasmi sovietici.[1]
  • Con il nazionalismo si corre sempre il rischio che la situazione perda il controllo. Il nazionalismo ha sempre in sé un elemento irrazionale. Le ideologie non stanno ferme: montano, crescono. Se il nazionalismo fosse solo un sentimento personale, lo si potrebbe vivere anche in un altro modo. Ma nel momento in cui si trasforma in ideologia diventa pericoloso.[1]
  • La Cina è un mostro: Internet bloccato, dissidenti arrestati. È così ricca che potrebbe comprarsi metà della Terra. Tutto questo m'inquieta e mi preoccupa.[1]
  • Quello che sta succedendo in Ucraina è mostruoso. Già il primo passo, l'annessione della Crimea, era inaccettabile. Ma la destabilizzazione della regione più ricca dell'Ucraina prosegue. Putin si fa forte di una propaganda antifascista, ma i suoi valori sono di estrema destra. Vede nemici dappertutto. Perché è di nemici che ha bisogno ogni dittatore per poter giustificare le violazioni dei diritti umani. Putin poi è un esperto in destabilizzazione: ha agenti specializzati, coltiva separatisti. In fondo non vuole davvero riprendersi l'Ucraina: lui vuole soltanto che sia destabilizzata abbastanza da non poter entrare nell'UE. È diabolico.[1]
  • Spero che Google o Wikileaks siano in grado di tenere a freno i servizi segreti. Spero, insomma, che la società civile si difenda. Abbiamo chiaramente bisogno dei servizi segreti, anche per combattere il terrorismo. Ma sono anche convinta di per sé siano diabolici. E sarebbe un problema se non fossero controllati. Perché i servizi segreti non ne hanno mai abbastanza: prendono tutto quel che possono, vanno al di là tutto. Per definizione.[1]
  • Lager, s.n.: campo
    Da quando so pensare, mia madre dice:
    Il freddo è peggiore della fame.
    Oppure: Il vento è più freddo della neve.
    Oppure: Una patata calda è un letto caldo.[2]
  • Sin dalla mia infanzia, da più di cinquanta anni a questa parte, mia madre non cambia in queste frasi neanche una parola. Vengono pronunciate separatamente, perché ognuna di queste frasi, presa a sé, racchiude cinque anni di campo di lavoro. È la sua lingua stringata che sostituisce i racconti del campo.[2]
  • Il Lager, nelle sue molteplici ma sempre mostruose forme, è un simbolo del ventesimo secolo. I campi di punizione e di lavoro in Germania e quelli del sistema Gulag dello stalinismo, i campi di concentramento e i campi di sterminio dei nazionalsocialisti. Con l'eccezione della Russia, in Europa sono scomparsi. La parola però è rimasta. Oggi sta per campo estivo, campeggio, camping, luogo di riposo.[2]
  • Nelle accezioni innocenti della parola Lager in tedesco sento sempre il terrore, il turbamento psichico. Le cose designate con la parola Lager hanno una specie di nascondiglio.[2]

Bassure[modifica]

  • Il paese è trasparente e lungo e sottile. Anche le case, i recinti e gli orti, anche la gente assomiglia a strade vuote.

Dappertutto si può vedere attraverso, passare attraverso e penetrare con la mano, e la gente è disorientata perché il paese è così ampio, perché si vede la valle e con lo sguardo si scivola sulla sua sterpaglia, perché si vede il bosco, così vicino da perdercisi dentro, perché si vede l'argilla nel fiume sotto l'acqua gialla, perché tutto si avvicina alla gola, alle punte delle dita. Il cielo è vuoto, perché gli alberi sono così vuoti. Si inciampa perché non ci sono ostacoli né distanze.

  • Non capivo perché la morte restasse sempre dietro le pareti delle case e non si potesse mai vederla, o si vedesse soltanto quando si era già compiuta, anche se per tutta la vita le si abitava accanto.
  • È sempre buio qui, e il gelo che mi assale si alza dal pavimento di pietra. Fa paura come una vasta superficie di ghiaccio, quando ci si è camminato sopra troppo a lungo e il corpo non ha più gambe e si deve continuare sulla faccia.

L'uomo è un grande fagiano nel mondo[modifica]

  • Il gufo vola sopra gli orti. Il suo grido è acuto. Il suo volo è profondo. Pieno di notte è il suo volo. "Un gatto," pensa Windisch, "un gatto che vola." Rudi tiene un cucchiaio di vetro azzurro davanti all'occhio. Il bianco dell'occhio si ingrossa. La pupilla è una sfera luccicante e bagnata nel cucchiaio. Il pavimento sospinge colori ai bordi della stanza. Il tempo nell'altra stanza batte onde. Le macchie nere nuotano insieme alle onde. La lampadina sussulta. La luce è stracciata. Le due finestre sfumano l'una nell'altra. I due pavimenti spingono via da sé le pareti. Windisch si sorregge la testa con la mano. Il polso gli batte nella testa. Nel polso batte la mano. I pavimenti si sollevano. Si avvicinano, si toccano. Affondano lungo la loro sottile fenditura. Diventeranno pesanti e la terra si squarcerà. Il vetro diventerà incandescente e sarà un'ulcera tremante nella valigia. Windisch apre la bocca. Se le sente crescere in faccia, le macchie nere.
  • Windisch mette i gomiti sul tavolo. Le sue mani sono pesanti. Sulle mani pesanti Windisch appoggia il proprio viso. La veranda non cresce. È una giornata luminosa. La veranda cade per un istante là dove non era mai stata. Windisch avverte il colpo. Alle sue costole è appeso il sasso. Windisch chiude gli occhi. Senti i globi degli occhi nelle mani. I suoi occhi sono senza faccia. A occhi nudi e con il sasso nelle costole Windisch dice a voce alta: L'uomo è un grande fagiano nel mondo. Quel che Windisch sente non è la sua voce. Percepisce la propria bocca nuda. E sono state le pareti a parlare.

Il paese delle prugne verdi[modifica]

  • Lasciò cadere i calzini sul pavimento. Le mani di Lola tremavano e i suoi occhi erano più di due in volto. Le sue mani erano vuote e più di due nell'aria. Nell'aria c'erano tante mani, quanti calzini sul pavimento.
  • Poiché avevamo paura, Edgar, Kurt, Georg ed io stavamo insieme ogni giorno. Stavamo seduti al tavolo, ma la paura rimaneva isolata in ogni testa, così  come ce la portavamo dietro quando ci incontravamo. Ridevamo molto, per nasconderla gli uni agli altri. Perché la paura svicola. Quando si domina il proprio volto, sguscia fuori nella voce. Se riesci a tenere in pugno il volto e la voce come se fossero un pezzo inanimato, sfugge persino dalle dita. Trapassa la pelle. Gira libera, la si vede negli oggetti che stanno nelle vicinanze.
  • E accarezzavo i capelli di una signora estranea, come se mi fosse familiare. Sotto la mia mano lei si smarrì. Si consumò nel suo amore legato, di cui non rimaneva nient'altro che due bambini, la puzza di fumo e una porta scardinata. E una mano estranea tra i capelli. La signora singhiozzò, sentii la sua bestia del cuore scappare fuori dalla sua pancia nella mia mano. Saltava di qua e là non appena la accarezzavo, solo più velocemente.
  • Il caffè era denso come l'inchiostro, il fondo mi gocciolò in bocca, quando sollevai la tazza. Sul mio grembo c'erano due macchie di caffè. Il caffè sapeva di litigio. Sedevo gobba e sentivo i passi veloci dei bambini scendere le scale di corsa. Guardai sotto la sedia e cercai la mia compassione per la signora. Il disegno del mio vestito arrivava fino alle caviglie. Se dietro sulla sedia sedeva la mia gobba, davanti tra i gomiti sedeva qualcosa di inanimato con due macchie di caffè in grembo. Quando cessarono i passi dei bambini lungo le scale, ero diventata qualcuno che fa compagnia alla miseria, per assicurarmi che rimanga.

Il re s'inchina e uccide[modifica]

  • Non c'era campo che non fosse una galleria senza limiti dei modi di morire, un fiorente banchetto di cadaveri. Ogni paesaggio si esercitava nella morte.
  • Vedevo sempre che il campo mi nutriva soltanto perché più tardi mi voleva divorare. Per me restava un enigma come si possa affidare la propria vita a un ambiente che passo passo mostra che si è candidati per la galleria della morte.
  • Non è vero che ci sono parole per esprimere ogni cosa. E non è neanche vero che i pensieri sono fatti sempre di parole. (…) Le regioni interiori non coincidono con il linguaggio, esse si trascinano là dove le parole non riescono a soffermarsi. Spesso sono le cose essenziali quelle su cui non si può dire più niente, e l'impulso di parlarne scorre bene perché va oltre senza fermarcisi. Solo in occidente si pensa di risolvere questo disordine parlandone. Il parlare non rimette ordine né nella vita del campo di mais né in quella sull'asfalto. E solo in occidente si pensa anche che non ha senso ciò che non si riesce a sopportare. Che cosa può fare il parlare? Quando gran parte della mia vita non quadra più, anche le parole vanno a fondo. Ho visto precipitare le parole che avevo. Ed ero certa che insieme ad esse, se le avessi avute, sarebbero precipitate anche quelle che non avevo. Le parole non esistenti sarebbero diventate come quelle esistenti che precipitavano. Non ho mai saputo di quante parole ci sarebbe stato bisogno per coprire completamente lo smarrimento della fronte. Uno smarrimento che subito si allontana di nuovo dalle parole trovate per definirlo. Ma di quali parole si tratta e come dovrebbero essere subito pronte a scambiarsi con altre per recuperare i pensieri. E che cosa significa recuperare. Il pensiero però parla con se stesso in modo del tutto diverso da come le parole parlano con esso. Il desiderio tuttavia di poterlo dire. Se non avessi avuto sempre questo desiderio, non si sarebbe arrivati a sperimentare nomi per il cardo da latte, per chiamarlo con il suo vero nome. Senza questo desiderio non avrei prodotto intorno a me quel senso di vergogna come conseguenza di una vicinanza malriuscita.
  • Gli oggetti appartengono sempre a ciò che è proprio di un essere umano, ne sono inseparabili. Sono la parte estrema tolta dalla pelle delle persone.
  • Posso dire tutto, ricordare l'albero di albicocche, la seta bianca dei cappelli, ma spiegare ciò che provocano nella mente non riesco a esprimerlo con le parole. Le parole sono fatte su misura per parlare, forse sono ritagliate perfino con la massima esattezza. Ci sono davvero solo per parlare, per quanto mi riguarda anche per scrivere. Ma neppure loro comprendono i rami a cacciavite degli alberi e il cappello del cervello. Non sono in grado di rappresentare quel che accade nella fronte.
  • Censurò [...] perfino la parola VALIGIA. Era diventata una parola fastidiosa perché l'emigrazione della minoranza tedesca doveva restare tabù. Questa presa di possesso rende cieche le parole e tenta di spegnere l'intelligenza del linguaggio contenuta nella parola. La lingua prescritta diventa ostile quanto l'umiliazione stessa. Parlare qui di patria è fuori discussione.
  • Il linguaggio non è stato e non è mai in alcuna epoca una riserva apolitica, perché non si lascia separare da ciò che gli uomini fanno con altri uomini.
  • Per me il falegname era uno che s'intendeva di tutto. Ai miei occhi era lui a creare il mondo. Cominciai a capire che il mondo non è fatto di cieli vaganti e di erbosi campi di mais, ma di legno sempre uguale. Sapeva sistemare dappertutto il legno per opporsi alle stagioni fugaci, alle nude e anche erbose stagioni della terra. Là c'era la galleria dei giorni della morte nella forma di materia squadrata e levigata. Una trasparenza in colori neutri, colori che non si spostavano più, ma diventavano solo più scuri di una sfumatura invece di svolazzare e dissolversi come paesaggio. Avevano una natura silenziosa, una quieta certezza. Non mi facevano paura, toccandoli non si muovevano, così che la loro quiete si diffondeva dentro me. Mentre le stagioni si spingevano l'una dopo l'altra nella regione e la divoravano, queste casse da morto nel laboratorio non si avvicinavano troppo alla carne. Si prendevano il loro tempo e aspettavano, erano solo l'ultimo letto per i morti, in modo da poterli portare via.

L'altalena del respiro[modifica]

  • Il palato è più grande della testa, una cupola, alto e penetrante fin nel cranio.
  • Durante l'appello mi esercitavo immobile a dimenticare me stesso e a non separare l'inspirazione dall'espirazione. E a volgere verso l'alto gli occhi senza sollevare la testa. E a cercare nel cielo l'angolo di una nuvola a cui poter appendere le ossa. Quando avevo dimenticato me stesso e trovato l'uncino celeste, lui mi reggeva. Spesso non c'erano nuvole ma solo un azzurro uniforme, come una distesa d'acqua. Spesso c'era solo una coltre chiusa di nuvole, un grigio uniforme. Spesso le nuvole correvano e nessun uncino si fermava. Spesso la pioggia bruciava negli occhi e mi incollava i vestiti alla pelle. Spesso il gelo mi rosicchiava le viscere. In quei giorni il cielo mi rigirava i bulbi degli occhi verso l'alto, e l'appello li ritrascinava giù – le ossa pendevano senza un sostegno, soltanto in me.
  • Di notte, da sessant'anni, cerco di ricordarmi gli oggetti del Lager. Sono il contenuto della mia valigia notturna. Dal mio ritorno a casa la notte insonne è una valigia di pelle nera. E questa valigia è nella mia fronte. Quello che da sessant'anni non so è soltanto se non riesco a dormire perché cerco di ricordarmi gli oggetti, o se invece è il contrario. Se mi azzuffo con loro perché comunque non riesco a dormire. In un modo o nell'altro, la notte fa la sua nera valigia contro la mia volontà, devo sottolinearlo. Devo ricordare, contro la mia volontà. E anche se non lo devo ma voglio, preferirei non doverlo volere.
  • Quando nella notte gli oggetti mi perseguitano e mi bloccano l'aria nella gola, spalanco la finestra e butto fuori la testa. La luna in cielo è come un bicchiere di latte freddo, mi risciacqua gli occhi. Il respiro ritrova il suo ritmo. Inghiotto l'aria fredda fin quando non sono più nel Lager. Poi chiudo la finestra e mi distendo ancora. Le coperte non sanno nulla, e riscaldano. L'aria nella stanza mi guarda e sa di farina calda.

In viaggio su una gamba sola[modifica]

Incipit[modifica]

Tra i piccoli villaggi sotto gli schermi radar che giravano nel cielo, c'erano i soldati. Qui era stato il confine dell'altro paese. La costa scoscesa che arrivava per metà dentro il cielo, la sterpaglia, il limonio erano diventati per Irene la fine dell'altro paese.
Più chiaramente Irene vide questa fine dentro l'acqua che affluiva e defluiva. Che affluiva veloce e defluiva lenta, lontana dietro le teste dei nuotatori, fino a coprire il cielo. In questa estate slegata per la prima volta Irene sentì più vicino il riflusso dell'acqua in lontananza che la sabbia sotto i piedi.

Citazioni[modifica]

  • Quando ancora non ero qui, mi sono immaginata spesso dall'altro paese la distanza che separava te da me. Erano molte distanze diverse. Ogni giorno una nuova. Ed erano tutte vere. Sono rimaste vere anche dopo l'atterraggio, perché all'aeroporto c'era Stefan. Soltanto dopo alcune settimane, quando ho visto la tua faccia, ho capito che non erano più vere. Ero partita da sola e volevo che arrivassimo in due. È stato l'opposto. Siamo partiti in due. E all'arrivo ero sola. Continuamente ti scrivo cartoline. Le cartoline sono piene di parole. Ed io sono vuota. Il caso che ancora una volta ci minaccia, non esiste. (Irene, p. 129)

Note[modifica]

  1. a b c d e Dall'intervista rilasicata ad Andrea Bajani, Herta Müller: "Europa, attenta Putin è malato di passato", La Repubblica, 11 luglio 2009, p. 39.
  2. a b c d Da Parola d'autore. I lemmi del vocabolario europeo 2009, Corriere della sera, 8 ottobre 2009.

Bibliografia[modifica]

  • Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, traduzione di Lidia Castellani, Marsilio, Venezia, 1992. ISBN 978-88-317-9985

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