Javier Pastore
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Javier Matías Pastore (1989 – vivente), calciatore argentino.
Andrea Lamperti, ultimouomo.com, 16 maggio 2024.
- Per tutta la mia carriera, ogni cosa che mi è successa era qualcosa a cui avevo pensato. Avevo 13, 14 anni e già pensavo a giocare in Europa. Ma come in Europa, se ancora non hai neanche giocato in prima squadra? Ma era così che io mi ripetevo sempre, e che dicevo ai miei, a tutte le persone vicine. Dove volevo arrivare, con chi volevo giocare, e piano piano le cose succedevano. [«Non sempre piano piano in realtà»] In Argentina, quando ero all'Huracán, è successo tutto molto velocemente in effetti: sono esploso in sei mesi, ho fatto 8 gol e ho giocato molto bene, mi chiamavano [...] tanti grandi club europei... però io normalizzavo tutto nella mia testa. [...] alla fine ho deciso: la scelta migliore era Palermo. [...] Io penso che la carriera di un calciatore deve essere continua, facendo un passo alla volta, senza fretta. Quando salti dieci passi, senza fare il percorso in mezzo, può arrivare un momento in cui vai giù. Io ho sempre pensato così, ho sempre voluto andare piano piano in questo senso.
- [...] il Mondiale in Qatar l'ho sentito come se fosse un po' anche mio. Ho festeggiato, perché c'erano Messi, Di Maria, Otamendi e altri con cui abbiamo vissuto dei momenti brutti in Nazionale, grandi giocatori che sono stati massacrati per non aver vinto con l'Argentina. Io non ho davvero nessun rimpianto, però. Ho giocato tante partite in Nazionale, negli anni di Messi, mi ha pure allenato Maradona... non capita a tutti, penso di essere fortunato. Certo, mi sarebbe piaciuto esserci [...], ma non è davvero un pensiero che ho. Per me alla fine restano le esperienze, i rapporti, molto più che le coppe.
- [«[...] è una scelta diventare così belli da vedere, o con la tua eleganza si nasce?»] [...] io ho sempre voluto diventare questo tipo di giocatore, mi sono sempre visto così. Quando entri in campo ci sono persone che ti guardano, tante o poche, e io ho sempre pensato: voglio far arrivare qualcosa alla gente, fare giocate che diano emozioni, gioia. [...] ho sempre saputo che quella era la mia forza, anche perché fino a 16 anni sono sempre stato il più basso. Ero magro e molto più basso degli altri, dovevo adattarmi. [...] ero sempre tra i migliori quando giocavo nel mio quartiere, poi nei campionati giovanili, spesso con ragazzi più grandi, e il mio modo di giocare un po' è rimasto quello. Vedevo che più provavo a seguire quello stile [...], e più facevo la differenza, allora ho cominciato a viverla come una virtù, a lavorare per migliorare e farne la mia forza. Ero rapido, mi muovevo veloce, saltavo l'uomo, facevo i tunnel, quelle cose... sentivo che era un mio punto di forza, e faceva impazzire gli avversari. A volte li faceva anche espellere. Insomma, è sempre stato normale per me giocare in modo un po' diverso dagli altri, ed è quello che mi ha sempre reso felice in campo.
- Alcuni allenatori mi dicevano di non cercare il tunnel in partita, ad esempio. Ma perché no, è una forma di dribblare l'avversario, perché devo fare tutto il giro con la palla, se con un tocco posso superarlo? Più andavo avanti nelle giovanili, e più mi sentivo dire: così non giocherai mai, così in Europa non ci arrivi, la Nazionale, questo, quello. Beh, alla fine ho giocato pure in Nazionale facendo tunnel! [ride, ndr] Sentirmi dire quelle cose mi dava ogni volta più forza, pensavo: vedrai, vedrai...
- [«[...] del tuo primo giorno in Italia, cosa ricordi?»] Un giorno strano, sinceramente. [ride, ndr] Molto strano. Dopo aver fatto un viaggio di 14 ore ed essere arrivato a Milano, mi aspettavano Walter Sabatini e un collaboratore del mio agente. Siamo saliti in macchina per andare direttamente dall'aeroporto in Austria. Io neanche sapevo perché. Sabatini fumava dentro la macchina, io dietro di lui con il fumo che mi arrivava in faccia, per due ore, e pensavo: ma dove andiamo? Arriviamo al centro sportivo, la squadra era lì in ritiro, e mi presentano il presidente, Zamparini; e lui subito, ma proprio subito, mi chiede se volevo giocare, c'era una partita amichevole quella sera. Io avevo 19 anni, appena compiuti... certo che volevo giocare, figurati! Il problema è che non avevo neanche portato le scarpe [...], perché in Argentina l'ultimo giorno prima di partire avevo regalato tutto. Zamparini allora mi dice: «Non è un problema, non importa, vieni con me» [...]. Andiamo in un centro commerciale e [...] mi dice: «Prendi [...] magliette, pantaloncini, scarpe, tutto quello che vuoi» [...]. Torniamo al campo, che non era proprio il massimo, e io avevo le scarpe nuove, ma il presidente diceva: «Deve giocare, per forza». Allora entro nel secondo tempo. E subito, la prima palla appena entro, mi arriva alta e faccio un sombrero al difensore che mi viene incontro, la metto giù, tunnel al secondo, la passo lunga a Miccoli che la stoppa, gol. In tribuna non ci credeva nessuno. [...] Perché davvero, fisicamente quando mi vedevi i primi anni in Europa, così magro, capello lungo, corto, non si capiva bene, dicevi: ma questo dove va? Ricordo che dopo il gol in tribuna erano tutti impazziti... Zamparini piangeva. [...] Giuro, mi hanno detto che è scoppiato a piangere!
- [Su Diego Armando Maradona, «com'è essere allenati da una leggenda?»] Solo vederlo lì era una spinta in più per noi. Quando ci parlava, noi avevamo una voglia incredibile di uscire e dare tutto in campo. Io avevo quella sensazione: non importava ciò che diceva, era proprio la sua essenza, il suo stare lì, il rispetto che avevano tutti nei suoi confronti. Non ho visto con nessun altro allenatore un'atmosfera simile.
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