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Lazzaro Spallanzani

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Lazzaro Spallanzani

Lazzaro Spallanzani (1729 – 1779), presbitero, biologo e accademico italiano.

Citazioni di Lazzaro Spallanzani

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  • Se mi impongo di dimostrare qualcosa non sono un vero scienziato. Devo imparare a seguire la strada che mi indicano i fatti e a combattere i pregiudizi.[1]

Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell'Appennino

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Quell'interesse e quello zelo, che mi ha sempre mosso e animato a contribuire, come per me si poteva, ai progressi del pubblico I. Museo di Storia naturale della R. Università di Pavia, coll'accrescerlo di nuove, e importanti produzioni, procacciate in diversi viaggi da me intrapresi dentro all'Italia, e fuori, mi stimolò a viaggiare nelle estive e autunnali vacanze del 1788 alle Due Sicilie. Quanto questo R. Stabilimento è dovizioso in altri generi di naturali prodotti, altrettanto era penurioso di cose vulcaniche, riducendosi elleno a poche ignobili scorie del Vesuvio, e a non so quante volgarissime lave del medesimo luogo, che per essere state ridottte in tavolette, e queste pulite e lustrate, perduto avevano i sensibili caratteri, che le distinguono, e per conseguente quell'occhio d'istruzione tanto necessario ai naturali Musei consecrati allo studio, e all'insegnamento dei Giovani.

Citazioni

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  • Trovandomi io a Messina, quando si prendevano i pescispada per essere il tempo degli annuali loro passaggi per quello Stretto, intervenni a tal pescagione; e la qualità singolare delle barche usate da que' marinai per la medesima, gli attrezzi che l'accompagnano, l'arte di ferir questi pesci, e predarli, le naturali loro abitudini in queste periodiche ennigrazioni; tutto questo poté indurmi a descrivere cotal pesca. (vol. 1, pp. XLI-XLII)
  • Il corallo, di che si va in traccia tutto l'anno da messinesi marinai, sterpandolo con adatti ingegni dagli scogli subacquei del loro canale, è stato gran pezzo un'ambigua produzione, che si è fatta correre pei tre Regni della natura, volendola altri un fossile, altri un vegetabile, ed in fine si è dimostrato appartenere agli animali, quantunque abbia le sembianze di pianta; e perciò acconciamente fra piantanimali si annovera. (vol. 1, p. XLII)
  • In altre parti del Mediterraneo, nell'Adriatico, nell'Arcipelago, e nel Bosforo Tracio esaminato aveva più specie di que' molluschi, comunemente chiamati Meduse. Ammirato aveva la semplicità del loro organismo, e più ancora come alcune specie, talvolta del peso di venti e più libbre, si sciolgano quasi interamente in un liquore, non rimanendo di esse, che alcune sottili ed aride pellicelle, che pesate montano a pochi grani. (vol. 1, pp. XLIV-XLV)
  • Ma il Lago di Orbitello, nominatissimo per l'immensa copia di grosse anguille, che nutre (Muraena Anguilla Linn.) fu a me di nuovo incentivo per osservare, dovuto avendo per una nojosissima calma restare per più giorni col mio Bastimento inchiodato a Porto Ercole, poche miglia distante da Orbitello. In quest'intervallo avendo io adunque a mia disposizione il maggior numero di anguille, ch'io voleva, feci su di esse moltissimi esami diretti a schiarire, se era possibile, il modo, onde propagan la specie, giacché malgrado gli sperimentali tentativi dei vecchi Naturalisti, e dei moderni, non si è per ancora con certezza saputo, se generino per feti, ovveramente per uova. (vol. 1, pp. XLVII-XLVIII)
  • Allorché li 24. Luglio del 1788. io giunsi a Napoli, sebbene questo Vulcano non fosse in uno stato d'inazione, pure i suoi accendimenti non movevano la curiosità de' Napoletani, i quali per la contratta abitudine di averlo sempre dinanzi agli occhi, non sogliono mettersi in voglia di visitarlo, se non nelle grandi, e rovinose eruzioni. Vedevasi egli allora continuamente fumicare di giorno, e dagli elevati fumi generavasi un bianco nuvolo, che copriva il sommo del Monte, e che da' venti di nord-est spinto, e assottigliato stendevasi in larghe fila sino all'Isola di Capri. (vol. 1, pp. 2-3)
  • Potrei aumentar la nota delle rocce lanciate da' fuochi vesuviani, senza che le abbiano punto offese, ma io avviso che le già allegate bastino a mostrare, che per intendere la presenza dei feldspati, e dei sorli nelle lave, e le varie loro cristallizzazioni, non abbiam bisogno di supporli così formati dentro di esse, o quando eran fluide, o allorché divenian fredde, giacché nella guisa che scorgiamo cotesti corpicelli vetrosi nelle lave, li riscontriamo del pari nelle sostanze lapidee, che ad esse hanno data l'origine. (vol. 1, pp. 36-37)
  • La bellissima Napoli si asside tutta sopra materie vulcaniche. Fra queste domina il tufo, il quale anzi concorre in parte alla costruzione di molti Edificj. Al nord, e all'ouest sollevasi in grandi ammassamenti, e forma spaziose colline. Il forestiere Osservatore, che entra in questa Dominante, e che vede l'immensa congerie di una sostanza, che in lui risveglia l'idea del fuoco, non può non esser tocco da meraviglia, e non cercar pensieroso, quale ne sia stata l'origine. Si sa che intorno a un tal punto i Naturalisti sono divisi. Certi opinano che il tufo vulcanico generato siasi dentro al Mare, quando bagnava il piede delle Montagne infiammate. Taluno pensa, che le ceneri vomitate dal fuoco, col lento volger degli anni rassodate si sieno in questa specie di pietre per il feltramento dell'acque piovane. Altri in fine inchinano a credere che il tufo tragga l'origine da ceneri fangose, e fluide, mandate fuora dai Vulcani in qualcuna di loro eruzioni. (vol. 1, pp. 39-40)
  • Ma i feldspati, e per la considerabile loro grandezza, e per la maggior copia, più facilmente che i sorli feriscono l'occhio. I più hanno forma piatta romboidale, la qual costa di un aggregato di laminette bianche, suddiafane, brillanti, segnate con lineamenti longitudinali, e fra loro paralleli, insieme strettamente connesse, da' colpi tuttavia del martello non difficilmente separabili, più della lava scintillanti all'acciajo, e all'aperto lume del giorno manifestanti quel colore cangiante, che suole esser compagno di cotesta pietra. I più grandi hanno dieci linee di lunghezza sopra sei di larghezza, e i più piccioli sopravanzan la linea. Nel modo stesso dei sorli vengono imprigionati dalla lava, e vi stanno sì fitti, che ne occupano circa la metà. (vol. 1, pp. 43-44)
  • Oggidì sappiamo che la pomice non è che un vetro, cui poco manca per esser perfetto. A divenir tale sembra non richiedervisi che un grado di più di fuoco. Il passaggio dal vetro meno perfetto al perfetto scorgesi in alcuna di queste pomici nella più evidente maniera. In assai luoghi fibroso ne è il tessuto, e le fibre sono vetrose, ma senza quella liscezza, quel lustro, e quel grado di trasparenza che non va disgiunto da' vetri vulcanici. Ma seguendole con l'occhio, si mirano consolidarsi là e qua in massette di varia grandezza, simili a lucente, e liscia vernice, che non è che compiuto vetro, come si ravvisa anche meglio staccandole dalla pomice, ed esaminandole isolate. Sono dure abbastanza per mandare scintille col battifuoco, fenomeno che si osserva in ogni vetro vulcanico. (vol. 1, pp. 62-63)
  • Dopo l'avere parlato dei principali prodotti dell'interno della Solfatara, direm poche cose di alcuni altri giacenti nel suo esterno, in quella parte che è prossima ai Pisciarelli, così chiamati per l'acqua calda, e gorgogliante, che con istrepito sgorga dal fondo d'un monticello a questo Vulcano contiguo, per le mediche virtù da lungo tempo famosa. (vol. 1, p. 63)
  • Scarsissimi, e quasi insensibili sono i fumi, che escon dal suolo de' Pisciarelli, quantunque una volta esser dovessero numerosi, e forti, come si raccoglie dalla molta scomposizione, e imbiancamento delle lave ivi esistenti. Più sopra ho accennato il romore, che metton l'acque che hanno tal nome, nello sboccar dalla terra. Somiglia quello d'una caldaja che bolla. Varie sono le cagioni assegnate da quelli, che scritto hanno di questo sito vulcanico, ma tutte finora congetturali. Accostando l'orecchio all'apertura, donde scaturisce quella polla, si sente che i gorgogli non vengon già da molta profondità, ma a poca distanza dalla superficie della terra. (vol. 1, pp. 69-70)
  • Veduta la Solfatara, e le rupi, che le fanno corona, e continuata la mia direzione all'ouest, non mi fu d'uopo di lungo viaggio, per giungere alla Grotta del Cane. Non evvi erudito che ignori, così denominarsi una picciola caverna, posta tra Napoli, e Pozzuolo, perché fattovi entrare un cane, e forzatolo a starsi col muso rasente terra, comincia a respirar con affanno, indi tramortisce, e ancora lascia di vivere, se sollecitamente levatolo da quel luogo, non venga trasferito all'aria aperta, e sfogata. Sebbene cotesta Grotta, tanto rinomata dagli antichi, e dai moderni, divide la sua fama con infiniti altri luogi dotati di somigliantissime ree qualità, non essendo ella che una delle innumerabili mofete disseminate nel Globo, specialmente nelle contrade vulcaniche, le quali colla possente loro efficacia sono fatali agli animali non meno, che all'uomo, non ostante che non offrano agli occhi il più tenue indizio di loro presenza. Una serie ben lunga di Scrittori ne parlano, ch'io qui potrei nominare, se amassi far l'erudito fuor di proposito. Solamente laddove molte di queste mofete sono temporarie, quella della Grotta del Cane è perpetua, sembrando che fosse anche mortifera a' tempi di Plinio. Siccome un uomo, stando in piè diritto, non soffre punto, per non sollevarsi questa mofeta che a poca altezza, così vi andai sopra senza pericolo, e per quanto aggrottassi le ciglia, non era in lei visibile esalazione di sorta. (vol. 1, pp. 84-85)
  • Si sa che le rane innanzi di acquistare la forma della specie, hanno quella di verme, chiamato comunemente girino, apparendo formate d'un corpo orbicolare, e d'una coda; e sappiam del pari che questi girini appariscon rane per gradi, mettendo da prima le gambe posteriori, poi le anteriori; e ritenuta allora per qualche tempo la coda, simulano la più bizzarra figura, con essa coda rappresentando la metà inferiore d'un pesce, e col corpo globoso, corredato di gambe, le divise di rana. Quindi per gl'inesperti nelle cose naturali possono allora aversi per animali mostruosi, quasi che per metà fosser pesci, e per l'altra metà fossero rane. (vol. 1, p. 117)
  • Il sormontare la repente, e grand'erta del cono dell'Etna, quantunque in dirittura non più lunga d'un miglio, mi costò, siccome accennai, tre ore della più penosa fatica. Non è a dirsi della maggiore brevità del tempo impiegato nel discender da lei: ma cotal brevità superò di molto la mia espettazione. Mi accorsi, che a fare quella discesa null'altro si richiedeva, che il fermare stabilmente il piede su qualche grosso pezzo di scoria, e il sostenersi diritto, ed equilibrato della persona, poiché quel pezzo al più picciolo urto all'ingiù che riceveva dal mio corpo, sdrucciolando velocemente per la china, mi trasportava a notabil distanza; arrestatosi poscia tra via da altre scorie che avanti cacciava, e che in gran numero si accumulavano attorno di esso. (vol. 1, pp. 266-267)
  • Le zeoliti, senza che la lava matrice, abbia sofferto una piena fusione, si veggono vetrificate, e corsa taluna su la superficie della lava, formando una sfoglia di vetro: ma le più si ritondano in globetti, che pel lucido lattato che hanno, somigliano a perle. Sotto la lente però manifestano molti peli, nati probabilmente dal subito trasporto delle lave dalla fornace all'aria fredda. Questo vetro è semitrasparente e duro. Rompendo i pezzi di lava esposti al fuoco, ed esaminandone le rotture, non si trova seguita che una semivetrificazione nelle zeoliti, che vi son dentro. (vol. 1, p. 282)
Prospetto del castello di Lipari, in Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell'Appennino
  • Coteste Isole del Mediterraneo situate tra la Sicilia, e l'Italia, denominate Eolie, da Eolo riputato loro Re, e più universalmente appellate di Lipari, dalla principale e più grande, che gode tal nome, quantunque dall'Antichità sieno state riconosciute per vulcaniche, e perciò stesso si dicano anche vulcanie, solo però in questi ultimi tempi la loro vulcanizzazione si è considerata come uno degli oggetti idonei ad interessare le ricerche del Fisico, e a promuovere lo studio della natura. (vol. 2, pp. 5-6)
  • Partito essendo da Napoli per la Sicilia li 24. di Agosto del 1788., e l'entrante notte oltrepassate avendo di molto le bocche di Capri, cominciai a scorgere cotal prodigio di Stromboli, quantunque da me lontano ben cento miglia. Pareva un soffio di vampa, che d'improvviso mi feriva debilmente gli occhi, e che dopo due o tre secondi spariva. Scorsi dieci o dodici minuti primi, ricompariva la fiamma, poi dileguavasi. Per più ore fui contemplatore di quel picciolo spettacolo, il quale diversificava solamente nella maggiore o minore durata, e negl'intervalli alle accensioni frapposti. I marinai, da' quali era condotto, guardavano con occhio di compiacimento que' fuochi, senza cui, mi dicevano essi, nelle oscure notti fortunose correrebbero assai volte gran rischio, o di andar naufraghi in alto mare, o di rompere fatalmente alle coste della vicina Calabria. Fatto giorno, e maggiormente appressatomi all'Isola vulcanica, non più pel vivo lume solare vedevasi gittar fuoco, ma fumicare, con l'invariabil tenore però che i fumi avevano presso a poco le alternazioni nella fiamma osservate. (vol. 2, pp. 13-14)
  • Questi erano Delfini, che preso in mezzo il nostro legnetto si diedero a scherzarvi attorno, e a trastullarsi, guizzando da prora a poppa, e da poppa a prora, d'improvviso profondandosi nell'onde, poi ricomparendo, e fuori cacciato il muso, lanciando a più piedi di altezza il getto d'acqua, che a riprese espellono dal forame che sul capo si apre. E in quegli allegri lor giochi appresi cosa non mai da me veduta nelle migliaja di questi piccioli cetacei in altri mari osservate. Ciò fu l'indicibile loro prestezza nel vibrarsi dentro l'acqua. Uno o più delfini talvolta movevano da prora a poppa. Ad onta di dovere allora rompere l'impetuoso scontro del fiotto, volavano con la rapidità di un dardo. (vol. 2, p. 15)
  • Durante quella veleggiata, Stromboli che aveva in faccia, e a cui di mano in mano io mi appressava, coperto era alla cima di un densissimo fumo, che giù fino al ciglio del Monte si distendeva. Quando giunsi a terra erano nove ore del mattino, e già ardendo di voglia di occuparmi intorno al suo Vulcano, ne salii senza indugio i fianchi, finché pervenni all'estremo lembo del fumo, voglioso di espiarlo con attenzione. Cotesto fumo, quanto all'apparenza, simulava perfettamente le nubi. Nericcio ed oscuro ne era lo strato inferiore, biancheggiante, e chiaro il superiore, quello per la poca luce solare, questo per la molta, onde era penetrato. La sua foltezza era tale, che toglieva il veder l'occhio solare. Inoltre lo strato superiore partivasi in più globi, ed in ammassamenti di forme irregolari, e bizzarre, che secondo i diversi movimenti dell'aria, ascendevano, discendevano, e si volgevano in giro, tanto più bianchi, e più dal sole irraggiati, quanto più elevati; apparenze tutte che ravvisiamo nei nuvoli massimamente estivi. Ma il fumo giunto che era a molta altezza, diradava tanto, che non si rendea più sensibile. L'acido sulfureo in lui era manifestissimo, e sì incomodo alla respirazione, che in quel giorno mi fu mestiere di ritornarmene al piano, sendo impossibile l'accostarmi di più al Vulcano. Questo faceva sentir sordi scoppj, e quasi continui. (vol. 2, pp. 16-17)
  • Spirando tramontana, o maestrale, piccioli e bianchi sono i fumi, e moderatissimi gli strepiti del Vulcano. Questi per l'opposito sono gagliardi, e più frequenti, quegli amplamente più estesi, ed anche neri, o almeno oscuri, ove soffii libeccio, scilocco, od austro. E con forza facendosi sentire taluno di questi tre venti, egli avviene talora che il fumo spandasi per l'Isola intiera, e la oscuri, altrettanto che fanno le nubi piovose. Se quel folto velo fumoso si faccia vedere nella stagione, in cui verdeggian le vigne di Stromboli, ma dopo poche ore si dilegui, queste non ne soffrono; ma se la sua durazione si estenda a un giorno, e più ancora, ne patiscono sì fattamente, che l'uve o non maturano, o defraudano in parte le speranze dei coloni. L'odore del fumo putisce sempre di acceso zolfo, e per conseguenza male si tollera dagli uomini. (vol. 2, pp. 17-18)
  • L'imparziabilità [...] esser dee la divisa della Filosofia [...]. (vol. 2, p. 32)
  • Basiluzzo alla circonferenza gira due miglia; di poche pertiche si solleva dal mare, e al sud ha un seno angusto [...]. Quivi messo il piede, giunsi in pochi istanti per una viottola tortuosa alla sua sommità. Sovra di essa apresi un piano di non molta estensione, ed è questo l'unico luogo a coltura, per la raccolta di scarso frumento, e scarsi legumi. Questa esile vegetazione nasce in grazia di una sottile crosta di lava decomposta, sotto cui si scopre tosto la lava solida, che in più siti è granitosa, apparendo a chiare note il quarzo, il feldspato, e la mica [...]. E girando per l'Isoletta, ci accorgiamo che quasi tutto il restante è composto di lave analoghe. Due sole picciole casette, spettanti a' proprietarj di quel meschinissimo fondo, sono piantate lassù, in vicinanza di rovine di antiche fabbriche [...]. (vol. 2, pp. 129-130)
  • I conigli sono i soli animali, che soggiornano in Basiluzzo; ma questi ridotto avevano a disperazione i pochi Isolani ivi dimoranti, per divorare le loro biade, finché presero l'util partito di oppor loro un nemico, che poteva assalirli dentro le sotterranee lor tane, voglio dire i gatti. (vol. 2, p. 131)
  • Proseguendo il cammino da Stromboli a Lipari offresi finalmente Panaria, non già scoglio, ma Isola, il cui circuito al litorale oltrepassa le otto miglia, quantunque essa di poco s'innalzi sul mare. Quì pure la roccia che ha servito alla sua costruzione è il granito vulcanizzato, ma in più luoghi essendosi superficialmente scomposto, e d'altronde trovandosi frammischiato ad altre materie più facilmente decomponibili, ne è nato in più parti dell'Isola un pingue terriccio, dove vigorosamente vegetano gli ulivi, ed altre piante fruttifere coltivate da più famiglie in essa abitanti. (vol. 2, pp. 134-135)
  • Le Saline così a' nostri giorni chiamate pel muriato di Soda, che in un angolo della spiaggia si cava, anticamente portavano il nome di Δίδυμη, cioè Gemella, per apparire da lungi un'Isola bicipite, quantunque guardata da presso sia anzi tricipite, per terminare nella superior parte in tre punte. Fra le Eolie, questa dopo Lipari è la più grande, avendo il circuito oltre a 15. miglia. Fattone il giro alle radici, e attraversate le parti di mezzana altezza, e le più eminenti, conobbi essere la sua ossatura, e il di fuori un ammassamento di correnti di lave. (vol. 2, pp. 136)
  • Vulcanello da assai tempo divenuto una porzione di Vulcano, ma tuttavia da lui distinguibile per la frapposta lingua di terra, ha forma di triangolo scaleno, due lati del quale in mare si profondano, e questi a preferenza degli altri luoghi litorali meritano d'essere considerati. Costano di molti suoli di lave, alti più piedi, e gli uni agli altri vicendevolmente addossati, i quali quando colarono, dovevano più inoltrarsi nel mare, ma a poco a poco per la violenza dell'onde infranti si sono, e le rotture formano adesso una come verticale muraglia di grande altezza, che piomba nel mare. Ivi essendo sottili le acque, si vede il fondo sparso di grossi pezzi di queste lave, e dappresso conducendosi a quella muraglia, si ravvisano le correnti di lave in più tempi seguite, di colore, d'indole, d'impasto diverse. (vol. 2, pp. 160-161)
  • [...] mi si parò avanti tutto ad un colpo lo spettacolo più grandioso che offra Vulcano, che è quanto dire il suo cratere. Dopo quello dell'Etna io non ne conosco un più amplo, e più maestoso. Il suo giro oltrepassa il miglio: ovale ne è l'apertura, e il maggior diametro è dal sud-est, all'ouest. A quel modo che questa Montagna rassomiglia esternamente a un cono diritto, il suo cratere ne rappresenta un rovesciato, e l'altezza delle interne pareti dal sommo all'imo va al di là d'un quarto di miglio. Stando su la cima si vede il fondo, che è piano, e da più luoghi di esso, come pure dalle pareti esalano pennacchi di fumo, i quali ascendono fin sopra il cratere, e mandano un odore di solfo, che fassi sentire a molta distanza. (vol. 2, pp. 175-176)
  • Proseguendo il mio viaggio coll'allontanarmi viemmaggiormente dal Porto, alquanto più in là della rupe porfirica, il mare forma un seno dentro terra, attorno al quale sono edificati radi tugurj, dove vivono a stento pochi Isolani mercé di un vigneto, che male risponde ai loro sudori. Canneto è il nome di questo luogo, e al di sopra pende una corrente di lava a base argillosa, analoga a quella dell'Arso in Ischia. (vol. 2, p. 260)
  • La pomice, quantunque universalmente ammessa per prodotto del fuoco, pure quanto alla sua origine, è uno di que' corpi, che ha messo in dispareri i Chimici non meno che i Naturalisti, così moderni, che antichi. Si può dire che abbia fatto nascere non minor numero d'opinioni, e di bizzarrie, che la tanto per l'addietro agitata natura dell'ambra gialla, e dell'ambra grigia. (vol. 2, pp. 262-263)
  • A ben conoscere l'interno di un montuoso Paese vulcanizzato, il miglior partito, per quanto a me ne paja, si è quello di salir primamente il Monte più elevato, e dopo l'averne esaminata la cima, volgere al basso lo sguardo, e osservare la schiera de' monticelli che attorno lo accerchiano. (vol. 3, p. 9)
  • La mattina dunque dei 7. Ottobre salpai da Lipari per Felicuda, discosta 23. miglia, facendo in 4. ore questa breve velata di mare. Ella non è corredata di Porto, ha però due seni, uno al sud, l'altro al nord-est bastanti a dar ricovero ai piccioli bastimenti, e quando il vento contrasta l'ingresso in un seno, si può agevolmente entrare nell'altro, e ciascuno è difeso abbastanza, per trovarsi a ridosso della montagna. Fu nel seno al nord-est ch'io diedi fondo; e il primo mio divisamento era quello di esplorare la natura del materiale dell'Isola; né molto penai ad acquistare le più accertate contezze che è veracemente vulcanica; conciossiacché oltre l'essere quel catino coronato di lave, salito essendo io nel rimanente di quella giornata su d'un fianco dell'Isola, che guarda il sud-est, trovai subito fra la terra di alcuni camperelli buon numero di pomici, di vetri, e di smalti. (vol. 3, pp. 84-85)
  • Felicuda ha 9. miglia di circonferenza alla base, ne cominciai il giro esaminando le lave circondanti il seno, dove approdai. Hanno per base il feldspato, che è di pasta squamosa grigio-bianchiccia, non molto compatta, sfavillante però alcun poco all'acciajo, ed attraente l'ago magnetico. In questa pasta sono incastrati degli aghi di nero e fibroso sorlo, e delle massolette di feldspato, che facilmente si distinguono dalla base per la loro bianchezza, semitrasparenza, e splendore. Una porzione dei contorni del suddetto seno è formata di questa lava, per lo lungo fessa profondamente in più luoghi, come è proprio d'una moltitudine d'altre lave. Sono osservabili diverse rotonde vacuità del diametro di più pollici, che s'internano in lei, simili in certa guisa ad un favo d'api, e che io opinerei piuttosto prodotte da gazose elastiche sostanze, quando la lava era in fusione, che da corrosioni derivate dall'ingiurie delle meteore, o di altro agente esteriore. (vol. 3, pp. 85-86)
  • A cinquanta passi più in là apresi nella lava litorale una spaziosa caverna, che riesce gradevolissima agli occhi del Viaggiator vulcanista. Grotta del Bove marino vien detta, forse per aver dato altre volte alloggio a qualche Foca, giacché all'Isole di Lipari, come in più altri luoghi, le foche talvolta ivi prese si denominano Vitelli marini. (vol. 3, p. 91)
  • Ne' giorni 14. e 15. Ottobre seguitai a restare in Alicuda, nel qual tempo conobbi appieno la natura dell'Isola, e appagai le mie brame. Notissima è la riflessione di quel greco Filosofante, che preso nell'Arcipelago da una insuperabil tempesta, e gettato a rompere alle spiagge di Rodi, e a gran pena campato dal naufragare, come vide sulla spiaggia, dove prima mise il piede, non so quali figure geometriche, uscì in queste parole: conosco i vestigj degli uomini. Io pure tosto che con sicurezza afferrai il litorale di Alicuda, e che mossi dentro di essa, potei dire per riguardo alle mie ricerche: conosco i vestigj del fuoco. Ciò erano pomici, vetri, e smalti, che mi si offersero alla vista su le falde, e su' fianchi di Alicuda, i quali saria opera perduta il descriverli, per somigliare in tutto a quei di Felicuda, e per trovarsi egualmente fra mezzo alle materie tufacee. (vol. 3, p. 120)
  • Alicuda alla base volge attorno sei miglia, e corso io ne aveva già una metà: compiendo questo giro conobbi che la medesima natura di lave fin quì menzionate entra in quasi tutta l'altra metà, diversificando esse soltanto per alcune leggeri varietà, che non valgon la fatica d'essere espresse.
    Adombrato abbiamo in brevi tratti le lave del circuito di quest'Isola, ma sarebbe impossibile il farne sentire gli orrori, che per due terzi di quel circuito si presentano all'occhio. Di tutti quanti i luoghi vulcanizzati fino al presente da me descritti non se ne è alla mia vista un altro affacciato sì sconvolto da' fuochi vulcanici, sì manomesso, e straziato, e le cui ruine sieno state di tanto accresciute dal tempo, e dal mare. (vol. 3, p. 128)
  • Dentro all'Europa il solo luogo, che per l'abbondanza delle pomici uguaglia, o fors'anche supera Lipari, e Vulcano, si è l'Isola Santorine. (vol. 3, p. 162)
  • Innanzi di ricercare qual sia l'origine dei basalti, cioè se siano il risultamento dell'acqua, oppure del fuoco, d'uopo era stabilire che intendasi per basalte, o a dir meglio ciò che abbiano inteso gli Antichi, che a certe determinate pietre apposto hanno tal nome. Ma niuno evvi che adesso non sappia, perché ripetuto da cento Scrittori, sebbene dai più senza le dovute ponderazioni, che il basalte al riferire di Strabone, e di Plinio, denominasi una pietra opaca, e solida, della durezza, e del colore quasi del ferro, d'ordinario figurata in prismi, originaria dell'Etiopia, la qual pietra adoperavasi dagli Egiziani per uso di statue, di sarcofagi, di mortai, e di tali altri utensigli. Ciò statuito restava a cercarsi, se questa pietra fosse d'origine vulcanica o no, col portarsi su' luoghi dov'ella si ritrova, esaminando attentamente il paese, per poter conoscere, se esso abbia sì o no caratterizzati contrassegni di vulcanizzazione. (vol. 3, pp. 174-175)
  • Gli Evganei che formano masse per lo più coniche, altre isolate, altre nella base contigue, oltre l'andare massimamente composti di lave, diversi hanno a queste frammischiati carbonati calcari. Questi due generi di pietre riescono fruttuosi ai Veneziani, valendosi delle lave, chiamate masegne, per lastricare le pubbliche strade, e dei carbonati per far calce: quindi sono ivi più cave in attualità di lavoro, nel tempo che altre o esauste, o divenute poco proficue, si veggon già derelitte. (vol. 3, p. 212)
  • I terribili e spaventosi quadri di globi di fiamme, e di sassi infocati a grandi altezze vibrati, di montagne per l'ardor cocentissimo illiquidite, e di fiumi di lave incendiarie, che in ogni tempo sono appariti agli uomini, hanno indotto i più nella credenza, che la possanza di questi fuochi devastatori sia superiore alle idee che abbiamo del fuoco nostro. (vol. 4, pp. 8-9)
  • Da una quarta qualità di uve si ricava la famosa malvasìa di Lipari, il cui nome solo può bastare per farne l'elogio; vino d'uno schietto color d'ambra, generoso insieme, e soave, che inonda e conforta la bocca d'un amabile fragranza, con un ritorno di soavità alcun tempo appresso di averlo gustato. Ma siccome la natura par che abbia per consueto il largire agli uomini le cose più preziose con mano avara; così quest'uva d'ogni altra è quivi più scarsa, fornendo di malvasìa tutto al più due mila barili per anno, che da' Liparesi vendonsi fuor di paese, come della passola, e della passolina pur fanno. E durante la mia dimora colà, mi riescì a stento di procurarmene tanto, onde confortare talvolta lo stomaco, e ravvivare gli spiriti abbattuti nelle penosissime mie pellegrinazioni, come pur di recarne meco, qual rara e deliziosa bevanda, alcuni saggi a Pavia. (vol. 4, pp. 89-90)
  • Fui vago di apprendere il metodo praticato da quegli Isolani per fare la malvasìa, che è il seguente. Non distaccasi quest'uva dalla vite se non se a perfetta maturità, il che si conosce dal bellissimo colore dorato, e dal dolcissimo sapore che prende. I vendemmiati grappi, pria liberati da' grani o fracidi o guasti, si lasciano al sole distesi sopra stuoye di canne palustri, per otto o dieci giorni, ed anche di più, fin che appassiscano. Poi si collocano su d'un mondo piano lapideo, attorniato da murelli, alti ciascheduno due piedi, e allora i grappoli si comprimono, e schiacciansi, prima con pietra legata all'estremità d'una picciola trave, indi co' nudi piedi, finattantoché tutto il sugo ne venga spremuto. Questo poi per un foro aperto nel piano discende in altro piano consimile, le cui sponde sono più elevate del primo, e quivi è dove il sugo o mosto vien tutto raccolto. Di lì si trasfonde nelle botti a fermentare, finché depurato sia perfettamente, e reso abile al bersi; il che avviene nel susseguente gennajo. (vol. 4, pp. 90-91)
  • Un'altra pianta, s'ella non forma un ramo di esterno commercio, è però nell'interno di qualche utilità a' Liparesi, vo' dire l'opunzia, volgarmente chiamata fico d'india (cactus opuntia). Questo arbusto presso noi non la dura nel verno, se non se custodito nelle stufe, e per trovarsi in un clima non suo, cresce sempre a poca altezza, e i suoi frutti son piccioli stentati e buoni da nulla. All'opposito a Lipari, e così vuol dirsi dell'altre Eolie, prospera a segno, che d'ordinario è alto dieci e dodici piedi, e talvolta anche quindici, e il diametro del fusto ha di lunghezza un piede e talvolta più ancora. Le sue frutta, che di grossezza pareggiano un uovo di gallina d'india, sono dolci, e gustosissime al palato, e di una facilissima digestione. Sendo acerbe, la loro corteccia è verde, ma giallo-rossa quando divengon mature. Appigliasi questa pianta, e vegeta mirabilmente dove che sia, purché trovisi esposta alle benigne guardature del cielo, e la più favorevole si è quella del mezzodì. I più magri terreni del pari che i più pingui, le spaccature delle lave, le rovine delle antiche case, gli aridi calcinacci, e i fessi delle muraglie, sono luoghi egualmente idonei alla sua vegetazione. Si sa che i suoi frutti nascono, e crescono su gli orli delle foglie: incerto ne è il numero, ma bene spesso è grande: in tal foglia ne ho contati fino a 22. Cominciano a maturare sul principio di agosto, e la maturazione continua fino in novembre. In certi luoghi però si estende a tutto l'inverno, dove la postura volta sia incontro alle più benefiche influenze del sole. Ma anche ne' siti che non godono di tale vantaggio si possono avere belli e maturi nel verno, col raccoglierli acerbi in autunno, sì veramente che rimangano attaccati alla foglia matrice, o ad un pezzo di lei; facilmente perché allora il sugo della foglia, che è sempre grossa, e polposa, passa in nutrimento del frutto. (vol. 4, pp. 91-93)
  • Per più mesi adunque dell'anno si mangiano da' Liparesi, e per la grande abbondanza si vendono a vilissimo prezzo, fatta anche maggiore per l'industria de' Nazionali; poiché oltre ai fichi d'india che la terra produce da sé, si piantano a gran numero in vicinanza dell'abitato; e la maniera di moltiplicarli è delle più facili. È noto che questa pianta moltiplica mediante le foglie, figurate a modo di desco allungato, più stretto in una estremità, che nell'altra, le quali foglie per la qualche somiglianza con le pale, da' Siciliani si chiamano con questo nome. Ogni foglia è grossa e polputa, ed ambedue le facce sono sparse di più bottoncini, ossieno gemme, d'onde esce una infinità di picciolissime spine, con una grossetta nel centro della lunghezza d'un pollice. Tanto solamente che tocchin terra coteste gemme, mettono le radici, qualunque ne sia il terreno, ed ivi allignano felicemente. La foglia radicata alla terra ne mette altre e poi altre, ed essa che prima era piatta, fassi col tempo ritonda, e divien tronco, il quale si allunga, ed ingrossa, in ragione dell'altre foglie, che pullulano su la prima. E però il pedale, e il tronco de' fichi d'india, che come ho detto ha talvolta il diametro al di là d'un piede, non è che una serie di foglie in piè diritte, e punta a punta insieme attaccate. (vol. 4, pp. 93-94)
  • Ma giacché è tornato in campo il discorso de' fichi d'india, non voglio tacere un mio pensamento, che se mai venisse recato ad effetto, sarebbe fruttuosissimo per la Sicilia, non che per l'Isole Eolie. Il Messico, e qualche altra Provincia della Spagna, sono i Paesi, dove raccogliesi l'insetto Cocciniglia (Coccus cacti. Lin.), e il commercio che se ne fa, si valuta molti e molti milioni in argento per anno. Le Eolie, e la Sicilia, che può considerarsi come la parte più meridionale dell'Italia, divisa da lei per la irruzione del mare, che ha prodotto lo Stretto di Messina, perché non potrebbero divider col Messico i vantaggi di questa preziosa droga? Due cose vi si richieggono, la pianta su cui vive e moltiplica cotale insetto, e la presenza di lui ne' mentovati luoghi, dove si vuol propagare. Per quanto al primo, cotesta pianta si è appunto il volgarmente detto fico d'india, tanto abbondante all'Eolie, e alla Sicilia, e di cui ho veduto coperte le falde dell'Etna. È scritto che le opunzie al Messico, ove sieno coltivate con diligenza, crescono fino all'altezza di otto piedi, e le foglie di alcune giungono in lunghezza quasi ad un piede. Abbiam narrato, che quelle di Lipari, e così vuol dirsi del rimanente dell'Eolie, e di quelle della Sicilia, si sollevano a elevatezza maggiore; quindi non è maraviglia se le foglie sogliano oltrepassare il piede in lunghezza. Se adunque in Sicilia, e all'Eolie prosperano come in America, e fors'anche meglio, le opunzie, perché non vi potranno prosperare egualmente bene le cocciniglie, che di esse si cibano? (vol. 4, pp. 97-98)
  • Ma de' vegetabili che interessano Lipari, siane fin quì detto abbastanza. Vuolsi ora dire una parola della pescagione che vi si fa. Questa nel vero non può essere più meschina, non già che quivi il mare non sia pescoso, ma perché pochissimi sono di mestier pescatori, e però i più non si curano di avere i necessarj attrezzi per pigliar pesci. Questi adunque si riducono tutti all'amo, e alle sciabiche. Si sa che la sciabica è una specie di rete, che i pescatori allargano a gran tratto entro mare, poscia la ragunano contratta alla spiaggia. Nel solo Porto usano cotal pesca, né molto frequentemente, almen nella state, giacché sento dire che nel verno è meno infrequente, per essere allora la gente disoccupata. Io più fiate, meno per curiosità, che per fare qualche acquisto di pesce per la mia picciola tavola, mi sono trovato presente al gettar della sciabica; ma se quei giorni erano male augurati pei pescatori, erano sfortunati per me, giacché dopo le tre, e le quattro tratte, o nessun pesce incappato era nella rete, o questo era sì poco, che se altro non avessi avuto di che cibarmi, sarei morto di fame. (vol. 4, pp. 100-101)
  • In giugno, e in luglio pescasi anche il corallo, tanto attorno a Lipari, quanto a Vulcano. Quando vi andai, feci acquisto d'un pezzo raro, consistente in una branca di corallo, nato su d'uno smalto vulcanico, preso sotto il Castello di Lipari. Quindici sogliono esser le barche, come dicono, coralline. Ma o perché gl'ingegni non sono i più acconci per estrarre dagli scogli, e dalle caverne del mare questo pregevole piantanimale, o più veramente perché coloro che ne vanno in cerca non sono i più addestrati, cotal pescagione suol essere meschinissima. (vol. 4, p. 101)
  • Quantunque questo animale [il furetto] sia originario dell'Africa, vive però, e propaga ne' paesi meridionali dell'Italia. È grosso quanto un gatto mediocre, e le fattezze sue sono tra quelle della donnola, e della faina. A Lipari gli ho veduti della massima dimestichezza, e nelle case moltiplicano così bene, come nello stato di libertà. Quando adunque il cacciatore vuole far preda di conigli, seco conduce il furetto dentro una gabbia, ed un cane. (vol. 4, p. 105)
  • Ma la natura contraffatta e guasta dagli uomini, ove posta sia in libertà, non lascia di ridonare agli animali quella grandezza, e quell'abito esteriore di corpo, che avevano nel natìo stato. (vol. 4, pp. 106-107)
  • Vidi a Lipari una quinta specie di rondine, cioè quella di ripa (h. riparia), e fu quando per mare feci il giro dell'Isola. Si sa così denominarsi questo uccelletto per far nidio dentro alle ripe de' fiumi, e qualche volta a quelle del mare. Osservai adunque alcune di queste rondini aggirarsi per l'aria attorno a quelle rupi di tufo, che quasi verticalmente piomban nel mare, ed ivi per qualche tempo arrestato essendomi con la barca, ne notai più d'una entrare ne' buchi da esse lavorati nel tufo, come altresì qualche altra escirne. Seppi da' Liparesi, che questa qualità di rondine apparisce in marzo nella loro Isola, e ne dispare in ottobre. (vol. 4, p. 110)
  • Da Vulcano è ben diversa, Didima, o come oggigiorno la chiamano, le Saline. Oltre all'essere in più luoghi quest'Isola alle falde attorniata di case, e ivi sopraricca di vigne, i vini che ne provengono, non la cedono a quelli di Lipari. (vol. 4, p. 126)
  • Que' Terrazzani nel fornirmi queste notizie mi narrarono un fatto, che fu a me di qualche sorpresa, e questo è, che in una straordinaria burrasca essendo entrato il mare nel lago, e trasportati avendovi molti pesci cefali, continuarono essi a viver là dentro, come nel nativo loro elemento, anzi abbondevolmente moltiplicarono, non ostante che poco appresso pel novello svaporamento ritornata fosse l'acqua salsissima, ed avendoli poscia pescati, furon trovati succulenti, e d'ottimo gusto. E tanto più in me si accrebbe la maraviglia, quanto che alcuni anni prima veduto aveva in altra parte del Mediterraneo, cioè dove il fiume Magra vicino a Carrara mette in mare, questa specie di pesce compiacersi dell'acqua pressocché dolce. Imperocché faceva passaggio dal mare alla foce, cercando a preferenza que' luoghi, in cui l'acqua marina mischiatasi alla fluviale era appena salmastra. E lì appunto i pescatori con le reti aspettavano i cefali al varco. (vol. 4, pp. 129-130)
  • Presi prima le mosse su d'un battello alla volta di Scilla. Gli è questo un altissimo scoglio da Messina distante 12. miglia, che cade a piombo sul lido della Calabria, al di là del quale siede la picciola Città, che porta cotal nome. Quantunque non facesse quasi vento, pure a due miglia dallo scoglio cominciai ad udire un fremere, un tuonare, e quasi un confuso latrar di cani; e fattomi più dappresso, non penai a scoprirne la verace cagione. Cotesto scoglio nella inferior parte apresi in più caverne, una delle quali è spaziosissima, da' Scillani Dragara denominata. Le onde pertanto agitate, con empito entrando dentro di esse, e per attorno frangendosi, riversandosi, confondendosi, e levando alto spruzzi, e bolle schiumose, creano que' moltiplici svarianti fragori. Mi accorsi allora quanto acconciamente Omero, e dopo lui Virgilio, volendo animar Scilla, e ritrarla al naturale, la rappresentino insidiosa nella oscurità di una vasta caverna, quegli attorniata i fianchi da rabbiosi latranti mastini, questi dai lupi, per amplificarne l'orrore. (vol. 4, pp. 160-161)
  • Parlo del Capo di Buona Speranza, denominato Campo tempestoso dal suo scopritore, e che nel Vocabolario degli antichi marinai suonava formidabil Leone. Cotesto luogo in ogni parte pienissimo di pericoli per i due gran mari, che discendendo dagli opposti fianchi dell'Africa, quivi s'incontrano, ed urtano insieme; per la rapidissima corrente a libeccio, che ove affrontisi col mare, e col vento contrarj, genera più vortici, ognun de' quali tira in profondo i bastimenti più estesi; per gli scogli rapidissimi entro mare, dove rompono i violenti marosi, e creano picciole montagne d'onde sollevate; e dove in fine le traversie de' venti tanto più v'imperversano, quanto che quell'Oceano è più spazioso; cotesto luogo, io diceva, quanti apparecchiamenti, quante cautele non esigeva dalla nave destinata a passarlo? (vol. 4, p. 189)
  • La medusa, che sta sempre immersa nell'acqua, e che in conseguenza ne ha sempre piena la cavità dell'ombrello, ad ogni restrizione o sistole spigne avanti l'acqua rinchiusa, e l'obbliga ad urtare le interne parti di esso ombrello, e con tale urto la medusa fa un passo. (vol. 4 pp. 207-208)
  • Se adunque a notte incominciata su di un basso legnetto entreremo nello Stretto di Messina, recandoci ne' luoghi preso terra, dove l'acque sono in piena calma, le meduse, che quivi sogliono essere più frequenti, manifestano un principio di luce, che crescendo le tenebre acquista intensità, ed ampiezza, rappresentando ogni medusa una fiaccola vivace, che si dà a vedere a qualche cento passi all'intorno, ed accostandoci a lei, quel brillante fosforo lascia discernere la forma del suo corpo. Cotal lume, ove il vespertino crepuscolo sia estinto è di un bianco vivace, che ferisce l'occhio, quando anche l'animale a 35. piedi giaccia sott'acqua. (vol. 4 pp. 216-217)
  • [...] gioverà per un momento trattenerci su le ascidie picciole attaccate di spesso alle grandi. [...] le picciole non solo nelle aperture, ma nel rimanente del corpo, considerato anche al di dentro, sono somigliantissime alle ascidie adulte, fino ad avere le vescichette, e i globettini, a proporzione solamente minori. Ne ha però molte così minute, ed anche di vantaggio, affatto solitarie, e affisse agli scogli subacquei. Ma ho preferito di fermare i miei riflessi su quelle ascidie che nascono, o si sviluppano addosso alle più grandi, per iscoprire quai legamenti hanno le prime con le seconde. E tosto mi avvidi non esservi veruna interna comunicazione, ma tutto l'attaccamento esser riposto nella pelle coriacea. [...] Mi avvidi inoltre che le medesime si possono staccare dall'ascidia più grande, senza che la pelle coriacea ne soffra; ed è evidente che non ci sono che attaccate, e come incollate per via d'un sugo vischioso, che bagna sempre queste ascidie nella prima loro età: in grazia del quale vi si appiccano egualmente, come abbiam detto, altri minuti animali. (vol. 4 pp. 254-255)
  • I bracciolini [dei polipi] [...] formano quasi una campana capovolta, che dal continuo agitarsi crea un picciol moto vorticoso nell'acqua, che la fa correre alla parte ristretta della campana, dove è la bocca dell'animaletto, che ricevendo l'acqua s'impadronisce de' corpicciuoli che vi nuotan dentro, e intanto può sceglier quelli, che a lui servono di alimento. Cotal curiosissimo giuoco esercitasi però, siccome ho veduto, da innumerabili altri animalucci marini, destinati dalla natura a star sempre affissi a' medesimi luoghi. Non potendo questi andare in cerca del necessario alimento, col ministero de' bracciolini o di organi analoghi l'alimento va in cerca di loro. Se poi ad arte o per caso facciasi qualche commozione nell'acqua, i nostri polipi, chiusi di presente i bracciolini, si ritirano immantinente nelle loro cellette per un rotondo forellino, che sporge dalla cima di esse, e quivi stansi appiattati finché l'acqua ritornata sia in quiete, poiché allora di nuovo ne escono, ricomparendo i bracciolini, e risvegliando come prima il picciol vortice. (vol. 4, pp. 263-264)
  • Questa Città [Messina] dalla parte opposta al mare è circondata dal granito, ed è facile che sia una continuazione di quello di Melazzo. Mi si affacciò questa roccia appena ch'io escj dall'abitati per la Porta de' Legni, e ch'io mi trovava a venti piedi circa di altezza sopra il livello del mare. Quivi essa comincia a distendersi in un amplo ammasso formante all'ouest uno scosceso pendìo, su cui è edificata una porzione delle antichissime mura di Messina. (vol. 5, pp. 7-8)
  • Uno scarso miglio prima ch'io giungessi a Fanano finj di vedere cotal pietra, e ne sottentrò un'altra che per formare la membratura delle parti sublimi del nostro Appennino, e per trovarsi di mezzo ad essa i fuochi di Barigazzo e gli altri circonvicini, vuole essere in dettaglio descritta. Questa è arenaria, dai Toscani appellata macigno, o pietra serena. Quì adunque ai due lati della pubblica via mi si presentarono spaziose moli di cotal pietra di cui poscia trovai pieno Fanano. Gli è questo un grosso Borgo dell'alte montagne di Modena, famoso per gli Uomini celebri in arme, in pietà, e in lettere, che ha prodotto, e tra gli ultimi vanta all'età nostra un Corsini, e un Sabbatini, ambidue delle Scuole Pie, de' quali il solo nome può equivalere al più splendido elogio. Il suo materiale adunque è formato pressoché tutto di pietra arenaria, senza eccettuarne i pavimenti delle strade, e i tetti delle case. I Fananesi non hanno latomie onde valersene ne' loro edificj, ma traggono coteste pietre dalle vicinissime circostanti montagne, preferendo quelle che a tale uso giudican migliori. Imperocché quatunque cadan tutte sotto il medesimo genere, differiscono però fra sé moltissimo sia nella pasta più o meno fina, sia nella diversità della grana, sia nella maggiore o minore saldezza. (vol. 5, pp. 57-59)
  • Nel dopo pranzo dei 10. Agosto dell'istesso anno [1788] partj da Fanano per il Cimone, e la sera mi ricoverai in un tugurio di pastori nel sito che chiamano i Faggi, per cominciar ivi la zona di questi alberi. Sorto dal letto un ora dopo la mezza notte proseguj il mio viaggio col favore d'un bellissimo chiaro di luna, determinato di trovarmi su l'eminenza del Monte prima del giorno, per poter di lassù vagheggiare il sole nascente. (vol. 5, p. 88)

Viaggio all'Etna

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  • Il monte Etna all'incontro, preso alle radici, volge attorno cento ottanta miglia, e la sua elevatezza sul mare oltrepassa d'assai le due miglia. Su' fianchi dell'Etna levansi altri monti minori, quasi suoi figli, talun de' quali il vesuviano agguaglia in ampiezza. Le lave più estese di questo monte non superano in lunghezza le sette miglia, e quelle dell'altro s'innoltrano al quindicesimo e al ventesimo miglio, e taluna è giunta fino al trentesimo. (p. 220)
Veduta dell'Etna dalla parte di Catania, in Viaggio all'Etna
  • Prima di recarmi in Sicilia, letto aveva l'onoratissima menzione fatta dal Borch al principe di Biscari, fra l'altre ragioni, perché allora erasi accinto a fare cangiar faccia fuor di Catania alla lava del 1669, col lodevolissimo pensiero di trasmutare quell'ingratissimo suolo nel più ridente giardino. Giunto sul luogo vidi e ammirai gli sforzi dell'arte. In più siti per via di mine è stato squarciato il seno alla durissima lava. In più altri mirasi rotta minutissimamente, e ragunata in ricettacoli, dove affidare diverse qualità di utili piante. Ma ella è disgrazia che sieno sempre perite, non ostante l'avervele replicantemente piantate. Alcune pochissime ritrovai vive, come qualche melagrano e qualche mandorlo, ma tisicucce e languenti, quantunque la sminuzzata lava, dove gettate avevano le radici, rimescolata fosse a terra ferace. I soli fichi opunzia (cactus opuntia, Linn.) lussureggiavano copiosamente. (pp. 229-230)
  • Tre ore prima del giorno escito co' miei compagni dalla Grotta delle Capre, che fornito mi aveva bensì un ricovero, ma un letto insieme dei più duri e dei più disgustosi, per aver dovuto restarmi sdrajato sul pavimento di lave di pochissime secche foglie di quercia ricoverto, continuai il mio viaggio all'Etna; e il cielo ch'era sereno mi faceva sperare che tale fosse nel vegnente giorno, senza di che non mi sarebbe stato conceduto di godere la vista di quell'elevatissimo giogo, quasi sempre offuscato da nebbie, ove nuvolosa sia quella parte di cielo. (p. 245)

Note

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  1. Citato in AA.VV., Il libro della biologia, traduzione di Anna Fontebuoni, Gribaudo, 2022, p. 59. ISBN 9788858039595

Bibliografia

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