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Mario Alighiero Manacorda

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Mario Alighiero Manacorda (1914 – 2013), storico dell'educazione italiano.

Lettura laica della bibbia

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  • Questi, infatti, quanto piú quelle scritture apparivano incongrue con le loro tradizioni e concezioni, tanto piú dovevano forzarne l'interpretazione, per renderle piú consone ai loro bisogni morali e culturali. Si consolidò cosí questa molteplice tradizione interpretativa, «falsificante» quanto altra mai, e che pure costituí quel plurimillenario esercizio intellettuale che affinò cosí straordinariamente le virtú logiche di noi europei. È una mia ipotesi: ma il cavillo può diventare sottigliezza, il puntiglio può diventare rigore, l'arbitrio può diventare inventività, l'astrazione può rovesciarsi in universale concretezza. Cosí, del resto, la retorica e l'euristica greca del V sec. a.C. fornirono le armi logiche alle grandi riflessioni di Platone e di Aristotele, che restano le fonti massime di tutta la riflessione filosofica di noi occidentali. (12, p. 44)
  • Ora, se voglio evitare i rischi del cav. Gioia, non intendo però in alcun modo prestarmi al gioco per cui, parlando di questioni religiose, non si dovrebbe offendere la sensibilità dei credenti e mancar di rispetto alle idee degli altri. Io non intendo in alcun modo «rispettare le idee degli altri», quando le ritenga immeritevoli di rispetto; intendo però rispettare gli altri, quelli che le sostengono, perché so bene quanto la coscienza di ciascuno sia piú complessa delle sue parole o apparenze. Se vogliono che rispettiamo le loro idee, adottino idee rispettabili: su queste è difficile dare scandalo ed esercitare ironia. E del resto, ogni persona religiosa, quand'anche non ti mandi di fatto all'inferno, non può non parlarti se non pensando di parlarti in nome di dio. E questo è segno del piú profondo disprezzo che l'uomo possa nutrire verso l'altro uomo: è il vero peccato contro lo spirito: dell'uomo, intendo, ché altro spirito proprio non conosco. (12, p. 46)
  • Cosí, questo mito della caduta è, in contrasto con le intenzioni dello scrittore e del suo dio, il mito del trionfo dell'uomo: un doppio e tragico trionfo, perché l'uomo ha conquistato la conoscenza, e perché ha avuto il coraggio di pagarla con la morte. Senza volerlo, l'autore della Bibbia ha scritto una pagina degna del mito di Ulisse nell'Inferno di Dante. Nel pessimismo ebraico-cristiano il diritto alla conoscenza si paga con la morte e la dannazione: ma è un diritto che l'uomo si è storicamente acquisito, e che nessuno può togliergli: parola di dio. (21, p. 86)
  • C'è voluto uno sforzo di millenni per fare di quel gran libro il fondamento della nostra morale. Ma quanto sarebbe stato meglio leggerlo laicamente, come leggiamo le altrettanto sanguinose storie degli Atridi o dei tebani in Grecia, o di Romolo e Remo e di tutti gli altri in Roma! Il punto è di capire perché, nell'uscire dalla moralità ellenistico-romana, ci sia stato bisogno di santificare all'eccesso quest'altra immoralissima moralità. Capire cioè perché l'uomo abbia avuto sempre bisogno di miti, e come riesca a costruirseli, anche partendo da cose atroci e insensate. (40, p. 175)
  • Ma su Giosuè un'altra cosa devo dirti: col racconto delle sue imprese troviamo nei libri storici l'inizio di quella categoria storica che è l'idea di sterminio, o di consacrazione a Jahvé, e il conseguente canone storiografico che si esprime nel verificare «ciò che è bene e ciò che è male agli occhi di Jahvé», cioè appunto l'aver eseguito lo sterminio di chi non è con lui, sia egli ebreo o straniero. Israele non conosce altro rapporto con gli altri popoli che lo sterminio, che va oltre la strage sul campo di battaglia, normalmente praticata da tutti gli eserciti, ma investe tutta la popolazione, talvolta risparmiando donne e bambini per farsene concubine e schiavi, ma talvolta sacrificandoli totalmente, come contro i madianiti. (48, p. 234)
  • Il fatto è che si vuole dare una lettura monoteista di testi chiaramente politesisti, dove Jahvé, dio degli ebrei, è contrapposto ad altri dei. (53, p. 262)
  • Come da un insieme cosí limitato e contraddittorio sia potuta derivare una morale valida per millenni, è il segreto della cui soluzione tu andavi in cerca, cara Yúkiko. Abbiamo in parte capito come il limitato e parziale possa diventare universalmente umano, quando la perdita della forza materiale costringa a riflettere sui valori ideali. Resta tuttavia, e resterà (ahimè!) indefinita, la contraddizione persistente tra la predica che qui ascoltiamo, e la pratica che tutti pratichiamo. Tutti: e finora soprattutto i predicatori, che in privato e in pubblico, come individui e come Stati cristiani e anzi «cristianissimi», li hanno sistematicamente violati tutti. E tra i violatori si sono sempre distinti i potenti, i cui peccati sono stati perennemente giustificati e benedetti in nome di Dio.
    La religione non ha mutato in niente i costumi dell'uomo: li ha resi, semmai, piú contraddittori con le idealità proclamate, aggiungendovi cosí la sua ipocrisia: «accumulando duol con duolo», per dirla con Dante. In questo senso è stata davvero, ed è tuttora, il male del mondo. Lo è soprattutto quando propagandosi oggi nel mondo non in forza propria ma in forza della civiltà evoluta di cui è parte, induce i «meno evoluti» a credere che in essa e solo in essa risieda una piú alta morale, per seguire la quale si debbano anche prendere come oro colato le parole dei suoi antichi miti: è questo il caso delle odierne «evangelizzazioni». Come sarebbe bello se invece potessimo considerare serenamente i suoi dogmi e le sue prescrizioni come tappe della nostra difficile evoluzione! e se, per fondare una piú alta morale, imparassimo a guardare all'uomo, anziché a un ipotetico dio! (55, p. 273)

Scuola pubblica o privata?

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  • [Sulla riforma Ermini del 1955] Tutto sommato, questa scuola ricordava quella, solo un po' meno attiva, del cardinal-vescovo di Imola del 1854. Le cose, si sa, si ripetono spesso nella storia, possibilmente in peggio: l'ispirazione della scuola per il popolo-fanciullo ovvero per il fanciullo del popolo, restava immutata col mutare dei regimi, liberale, fascista, democristiano. E, temiamo, ulivista. (p. 68)
  • [Sul Concordato] Ma la sostanza piú profonda è un'altra: in tutto questo lo Stato si impegna con un potere altro, indipendente e sovrano, a rispettare la propria Costituzione, cioè se stesso. Bella dimostrazione di una sovranità superiorem non recognoscens! Che ne avrà in cambio dalla Chiesa? Dei due poteri indipendenti e sovrani, la Chiesa vive e gode di privilegi sul territorio dello Stato, e non viceversa. Che sapienza giuridica! In cambio, l'uno e l'altro potere (i governi, non lo Stato!) avranno il vantaggio di esercitare il loro duplice controllo sulle masse popolari. È questa la ragione vera di ogni Concordato: imporre due poteri sui cittadini. (p. 82)
  • C'è solo da domandarsi: i cittadini cattolici che, seguendo la loro Chiesa, sono stati d'accordo prima con lo Stato fascista e poi con la Democrazia cristiana della conventio ad excludendum, quando obbediscono alla richiesta del papa di violare la Costituzione a favore della scuola cattolica, sono cittadini dello Stato o sudditi della Santa Sede? C'è un grande compito democratico da compiere nella Repubblica italiana: restituire i cattolici alla loro libertà di coscienza, sottrarli alla gerarchia ecclesiastica che, contro le leggi dello Stato, intende disporre di loro non soltanto nelle sue scuole, ma in tutta la vita politica. Ma, evidentemente, questo è compito degli stessi cattolici. (pp. 113-4)
  • Ci si dimentica che il compito dello Stato nei riguardi dell'istruzione è qualcosa di piú che un servizio, essendo una sua funzione sociale primaria. Lo sapevano molto bene i nostri padri risorgimentali, che considerarono contestualmente obbligo scolastico e obbligo militare, per educare cittadini capaci di servire la Patria nel corpo e nello spirito. (p. 116)
  • Cosí ricompare indirettamente l'intreccio tra confessionalismo e liberismo aziendalistico, con la rinuncia a una completa formazione culturale e civica di base in una scuola comune. Non pare corretto pensare che l'obbligo possa adempiersi in una scuola confessionale della prima infanzia, quando cominciano a formarsi le prime strutture mentali, né piú tardi in una scuola aziendale finalizzata all'impresa e indifferente all'assunzione di capacità critiche. La scuola dell'obbligo non può essere la scuola della competizione mirata all'immediato posto di lavoro, dev'essere scuola della convivenza, della cultura generale formativa, della cittadinanza. (p. 129)

Perché non posso non dirmi comunista

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  • [Su Karl Marx] Ognuno vede il mondo e considera il prossimo coi propri occhi. Di tutte le cose misura è l'uomo, diceva Protagora. E perché no il porco? rispondeva Platone (Teeteto, 152a, 161c). Io ho preferito leggere in lui le parole che educano a smascherare i feticci e aprono il cuore alla speranza; altri hanno preferito leggervi (ma via!) quelle che li chiudono nel loro stesso squallore. lo vi ho cercato la denuncia dell'attuale miseria e l'auspicio della possibile ricchezza umana. E se considero l’assetto che abbiamo ricevuto dalla natura, che è, come per tutti i viventi, il destino di una continua lotta per la sopravvivenza; continuo a sperare che l'uomo possa passare a una gioiosa gara per la convivenza. E anche per questo non posso non dirmi comunista. (p. 71)
  • [Commentando Antonio Gramsci] Ogni acquisizione logica e morale, di vita civile, non è innata, ma da apprendere attraverso un adeguamento o conformizzazione agli aspetti più elevati della civiltà storicamente raggiunta: solo così ciò che si acquisisce attraverso l'esperienza diventa una «seconda natura» e la necessità diviene libertà. Anzi, questo della «seconda natura», da conquistare attraverso l'educazione, è anch'esso tema ricorrente in lui. Significa che il cucciolo «naturale» dell'uomo deve faticosamente entrare in quella seconda natura che è la storia. (p. 84)
  • Come è facile rovinare le rivoluzioni e farle passare dalle illusioni alle delusioni! Basta accerchiarle militarmente e strozzarle economicamente, e intanto foraggiare l'opposizione interna: e, mentre devono nello stesso tempo affrontare l'avversario interno e il nemico esterno, la fame genera lo scontento, lo scontento provoca la repressione, i ceti delusi abbandonano la rivoluzione, i ceti sconfitti rialzano la testa, e il fallimento è inevitabile. (p. 106)

Bibliografia

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  • Mario Alighiero Manacorda, Lettura laica della bibbia, Editori Riuniti, 1989. ISBN 8835932793
  • Mario Alighiero Manacorda, Scuola pubblica o privata? La questione scolastica tra Stato e Chiesa, Editori Riuniti, Roma, 1999. ISBN 8835946433
  • Mario Alighiero Manacorda, Perché non posso non dirmi comunista, Scipioni, 2003. ISBN 9788883641008

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