Percival Everett

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Percival Everett (1956 – vivente), scrittore statunitense.

Citazioni di Percival Everett[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • Vorrei comunque ricordare che le rivoluzioni si facevano anche prima dei social media. Ma certo, è una forza che aiuta.[1]
  • [«I suoi romanzi sono un po' fuori dal tempo e ricoperti dalla polvere del deserto californiano. [...] Ha un cattivo rapporto con la tecnologia?»] Quanti telefonini ci sono nei dipinti? Non ho niente contro della tecnologia, ma che cosa può fare lei per me, alla fine? Ho uno smartphone solo perché non vendono più i vecchi cellulari. E uso le email perché è una cosa conveniente. Ma non dimentichiamo che eravamo in grado di entrare in contatto gli uni con gli altri anche prima di Facebook, o Bookface, come si chiama...[2]
  • La popolarità e la capillarità dei social network è pervasiva. Le conseguenze sono devastanti. [...] questi strumenti hanno dato la possibilità a chiunque, cattivi maestri in primis, di inquinare con informazioni distorte e negative il nostro spazio, i nostri luoghi di vita e la convivialità. I risultati pessimi sono sotto gli occhi di tutti. I social media sono una forza "anti-intellettuale". Sono nemici del pensiero riflessivo e critico, demoliscono la capacità di attenzione di chiunque. Laddove servirebbe tempo per riflettere, studiare, informarsi, i social esaltano l'ideologia dell'istante. Ogni azione necessita di una reazione immediata, fulminea. Senza che vi sia una mediazione o, come ho detto prima, una riflessione.[3]
  • I social media hanno creato una cultura della superficialità che toglie spazio a chi, comunque, anche in quel mondo virtuale, potrebbe essere portatore sano di riflessioni e pensiero critico. Queste voci vengono spazzate via da urlatori, da slogan e menzogne. Chi si prende mai la briga di verificare qualcosa? Ci si esalta, ad esempio, per un'immagine postata su un social e, via, partono i dibattiti. Ma nessuno che s'interroghi sulla complessità che c'è dietro una foto, sulla storia che è lì dentro espressa. Twitter, Facebook e consorelle fanno business. I loro affari fioriscono quanto più la popolarità dei loro prodotti aumenta. Ma non sono legislatori. Sono imprese private e hanno regole interne. Quando uno entra in quel mondo accetta opportunità e limiti. Si rimette al loro giudizio. Non so se è corretto, parlando da un punto di vista etico, ma giuridicamente è ineccepibile il loro comportamento. Tuttavia, non dobbiamo perdere di vista il vero problema: la crescente assenza di cultura, di capacità di analisi e di senso critico che respiriamo nell'arena dei social.[3]

Il senso letterario dell'artista

Intervista di Giulio D'Antona, linkiesta.it, 10 dicembre 2014.

  • La produzione di ogni artista è sempre intensamente personale, che sia messa in prima o in terza persona. È un paradosso: non mi piace l'autobiografia, ma qualsiasi cosa io scriva è condannata ad essere in qualche modo autobiografica.
  • Sono cresciuto leggendo scrittori afroamericani e sembrava che esistessero solo due argomenti che gli era permesso trattare: le città degradate e il profondo Sud. Romanzi della schiavitù o romanzi del ghetto, nient'altro. L'editoria ha alimentato per anni gli stereotipi esistenti, facendo delle scelte ben precise riguardo a cosa un autore afroamericano avrebbe scritto e venduto, e di conseguenza decidendo cosa gli afroamericani avrebbero dovuto leggere. [...] Le realtà indipendenti si sono fatte via via più aperte a proposte differenti, ma lo stereotipo esiste ancora.
  • Da artista devo credere che l'arte possa influenzare a tal punto la realtà da migliorarla, ma la verità è che la gente legge sempre meno e ancora meno persone leggono la narrativa letteraria e se aspettiamo che sia il cinema a cambiare la realtà, allora siamo fottuti. Il cinema nutre una specie di influenza diretta sugli spettatori, pericolosa in qualche modo. Nessuno oggi si sognerebbe mai di girare qualcosa come Nascita di una nazione o altre pellicole di propaganda razzista, ma chi può dire con certezza cosa ci riserva il futuro? In tutte le forme d'arte persistono gli stessi stereotipi che hanno caratterizzato la letteratura.
  • Finché gli editori continueranno a considerare l'arte per quella che è e non semplicemente uno strumento per ingrassare le proprie casse, forse ci sarà speranza. Se gli scrittori pensassero solo a vendere i libri che stanno scrivendo, la letteratura morirebbe in pochissimo tempo. Immagina se Picasso avesse dipinto Guernica solo pensando a come avrebbe potuto piazzarlo sul mercato, probabilmente non sarebbe quello che è. Non avrebbe cambiato il mondo. Il dovere degli artisti è quello di continuare a provare a cambiare il mondo, da tutti i punti di vista: sociale, politico e artistico.
  • La cosa bella dell'arte è che è democratica e lo slancio artistico non si può fingere. Ogni volta che sento di qualcuno che sta iniziando a scrivere un romanzo, rimango impressionato. Perché so che nessuno lo fa – o dovrebbe farlo, c'è chi lo fa ed è completamente pazzo – per cercare di arricchirsi. Scrivere è una missione d'amore. Per l'arte, per la letteratura. Non c'è niente di male in questo, che ci siano dieci milioni di persone che seguono questa via o che ce ne siano solo venti, non importa. L'ispirazione che scorre tra loro è la stessa e questa è una cosa buona.
  • Mentre scrivevo il mio primo romanzo pensavo: "Che cazzo sto facendo?". Che è più o meno quello che penso ogni volta che mi imbarco in un nuovo progetto. Ci sono persone abilissime nel raccontare le storie, io non sono una di queste. Non sono arrivato alla narrativa da narratore. Ho percorso una via più filosofica, ho seguito la costruzione dell'argomento, più che la costruzione della trama. Quello che mi tiene incollato al mio lavoro è il fatto di indagare il significato filosofico del romanzo e di come questo cambi con il passare del tempo e a confronto con i diversi personaggi. Non so mai, quando incomincio a scrivere, quale domanda filosofica finirò per sollevare o che piega prenderà la storia. Non so nemmeno perché mi vengono in mente certe storie. Posso partire da un personaggio, da una frase, da un ragionamento, ma non riesco mai a vedere l'evoluzione della trama prima di arrivare alla fine. Devo avere fede nel fatto che i miei interessi troveranno il modo di filtrare attraverso quello a cui sto lavorando.

Citazioni non datate[modifica]

Intervista a Percival Everett

David Frati ed Elena Torre, mangialibri.com.

  • Non ho mai ben capito cosa debba essere questo postmoderno. Quelli che ho voluto sempre scrivere sono romanzi modernisti: possiamo definirli strani, forse. Questo sì. Strani.
  • [...] io amo l'astrazione. E di romanzo in romanzo utilizzo i mezzi narrativi che mi sembrano di volta in volta più opportuni – a volte uguali, a volte diversi – per raccontare l'astratto, ciò che va oltre l'apparenza delle cose, la semplice sequenzialità dei fatti nel plot.
  • Per indole sono molto più concentrato su quello che ho davanti, ripenso poco spesso a quello che ho già fatto. I miei personaggi sono stati importanti, certo, ma non sono tanti diversi me stesso, se è quello che intendi. O almeno non più del normale: ogni personaggio porta con sé un qualcosa del suo scrittore.
  • Il mio sguardo è sempre ironico. Non mi sforzo di trovare ingredienti di commedia nella vita e in ciò che racconto, sono già lì evidenti per tutti senza che io li debba cercare o sottolineare. Sarà un luogo comune, ma la nostra esistenza è sempre un alternarsi di commedia e tragedia: a volte sono lì davanti ai nostri occhi tutte e due assieme. Prendiamo per esempio il romanzo Percival Everett di Virgil Russell: ci ho lavorato per anni, ma mancava sempre un quid per chiudere il cerchio. Nel 2010 mi trovavo in Europa proprio durante l'eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll, che ha bloccato il traffico aereo. Fatalità, proprio in quel momento le condizioni di salute di mio padre si sono aggravate molto, ed è stato ricoverato in un hospice. Dovevo tornare a casa di corsa, ma non c'erano aerei per gli Usa. Ho preso un pullmann dalla Danimarca a Milano, da lì un aereo per Tel Aviv. Mentre ero in attesa di partire finalmente per la California, mia sorella mi ha contattato con Skype, e ha inquadrato con la webcam mio papà, in condizioni ormai molto gravi. Lui non poteva parlare, ma ha guardato l'obiettivo allargando le braccia con un'espressione sul viso che voleva dire "Che vuoi farci?". È stata l'ultima volta che l'ho visto vivo. Da questa tragedia è arrivata la spinta per chiudere il libro, che infatti ho dedicato alla sua memoria.
  • Non avverto lo stress di scrivere così tanto, lo faccio comodamente. Anzi, ti dirò di più: sono una persona piuttosto pigra. Non sono di quelli che stanno alzati la notte per scrivere [...]
  • Quando scrivo un nuovo libro se c'è una continuità di temi con il libro precedente è solo casuale, non penso mai a quello che ho scritto già quando mi siedo alla scrivania.
  • Nel mercato Usa noi professionisti della penna tendiamo a venire rinchiusi in un ambito il più possibile circoscritto – per esempio io sono uno scrittore afroamericano, punto. Invece io scrivo e basta. Una volta sono entrato in un grande bookstore, perché pioveva: mi sono detto "Cerchiamo il mio libro Frenzy, che riguarda la figura del dio greco Dioniso". Non era in Letteratura; non era in Mitologia; non era in Antropologia; era in Studi Afroamericani. Cioè, uno va a cercare in libreria un romanzo che parla di Dioniso e deve cercarlo in Studi Afroamericani secondo loro? O peggio cerca Studi Afroamericani e trova sullo scaffale un libro su Dioniso? Una confusione inaccettabile e inspiegabile. Il giorno dopo ricevo per posta un libro da un editore – e lo trovo orribile. Ne parlo col mio agente e quando mi dice che cifra iperbolica hanno pagato all'autore capisco che gli scrittori neri secondo chi gestisce il mercato editoriale possono scrivere solo due generi di libri: le storie sulla schiavitù e le storie di gang urbane. Peccato che questa non è la mia esperienza. Peccato che questa non è l'esperienza della stragrande maggioranza dei neri che vivono negli Usa.
  • Non credo che gli editor siano stupidi, ma penso che agiscano sempre seguendo di fondo motivazioni commerciali destinate purtroppo fatalmente a produrre una cosa standardizzata e diluita. Molte case editrici – soprattutto quelle più piccole – cercano di spingersi oltre allargando i confini della narrativa. Io per primo cerco di pubblicare con case editrici indipendenti, penso che sia la via d'uscita più stimolante e più fedele per il mio percorso artistico.
  • [...] è inutile fare gli ipocriti e far finta di cadere dalle nuvole. Non sono uno scrittore mainstream, lo ammetto: ma nondimeno credo che chiunque possa leggere le cose che scrivo. Un lettore deve fare un po' fatica a leggere, dai: in fondo è la parte bella della lettura, questa.

Note[modifica]

  1. Dall'intervista di Alessandra Baduel, Percival Everett: "Un anno dopo, non è cambiato nulla", repubblica.it, 12 agosto 2015.
  2. Dall'intervista di Laura Pezzino, Festivaletteratura 2015: quattro domande a Percival Everett, vanityfair.it, 13 settembre 2015.
  3. a b Da un'intervista a La Stampa; citato in Samuele Prosino, Distruzione della capacità di critica, formulapassion.it, 17 gennaio 2021.

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