Sara Rai

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Sara Rai ad Allahabad nel 2018

Sara Rai (1956 – vivente), scrittrice indiana.

Citazioni di Sara Rai[modifica]

  • Mentre leggeva la lettera lo sguardo gli cadde sul suo braccio. Braccio forte, da uomo, coperto di spessi peli scuri, e sul quale si vedeva il muscolo ben tornito. Di colpo la donna che viveva dentro di lui si perse d'animo e un noto sconforto cominciò a stringerlo nella sua morsa. Come era già successo in altre occasioni simili, appena prese coscienza del suo essere un maschio maledisse il suo destino e biasimò l'ingiustizia che aveva rinchiuso nel forte corpo di un giovane uomo il palpitante cuore di una donna. Prigioniero per sempre. Nel contesto della sua vita questo "sempre" gli sembrò infinito, insormontabile, esteso fin oltre l'orizzonte. E al pensiero di essere prigioniero sentì le fredde sbarre che lo circondavano, il crudele tocco del ferro e il suo odore. L'odore del sangue. Ma il suo sangue era diverso da quello dell'altra gente? Perché la natura aveva scelto lui, lo aveva fatto diverso dagli altri, perché camminasse sul sentiero solitario dei suoi desideri irraggiungibili? Perché? Il suo destino, la sua prigione era proprio amare non le donne ma le persone uguali a sé. Lui poteva esprimere le sue emozioni, poteva amare solo di nascosto dagli sguardi altrui. Prigioniero rinchiuso nella sua esistenza, che osserva il mondo esterno dalle aperture degli occhi. Provò un dolore profondo, e lo sforzo tremendo di resistere a quella ferita lo fece tremare.
    Nella famiglia di Manoranjan da parecchie generazioni non nascevano bambine, e sua madre, che aveva già due maschi, aveva pregato di avere una femmina. Come in uno scontro fra la preghiera e la natura era nato lui, Manoranjan. Un corpo da maschio con un'anima da femmina. Era un errore della natura? No, lui era arrivato proprio in risposta alle preghiere, in modo speciale! Ripeté con forza: speciale![1]
  • "In un modo o nell’altro siamo tutti prigionieri. Io sono condannato a non poter amare apertamente. Sono attratto dagli uomini... sono fatto così, che ci posso fare? È forse colpa mia? Per la gente qualunque è difficilissimo capire la mia schiavitù, amare una prigione... ma io lo capisco benissimo." Il volto di Manoranjan si era alterato in un moto di amarezza.
    "Perché hai questa opinione di te? Guarda che io ti amo!"
    "Dici davvero, Javed?"
    Trascinati dalla conversazione nessuno dei due aveva fatto caso che camminando erano arrivati davanti all'edificio dove c'era l'attico dello studio. Davanti al portone c'era un vecchio albero di cassia, che in quel momento era in piena fioritura. Era carico di fiori. Guardando i rami Javed, che stava sotto la pianta, vide mucchi di fiori, teneri, splendidi, a grappoli come fossero uva dorata. Gli stessi fiori erano sparpagliati anche per terra. Si sollevò appoggiandosi al tronco del rampicante ed ebbe la sensazione che la vibrante energia di quei fiori gialli fosse entrata completamente dentro di lui.
    "Sì", disse a Manoranjan, "dico davvero, Manoranjan."[2]

Note[modifica]

  1. Da Sull'orlo, p. 97.
  2. Da Sull'orlo, p. 102.

Bibliografia[modifica]

  • Sara Rai, Sull'orlo, traduzione di Alessandra Consolaro, in Queerness in the Middle East and South Asia, DEP, Deportate, esuli, profughe, n. 25, luglio 2014, pp. 97-105, unive.it.

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