Ugo Enrico Paoli
Ugo Enrico Paoli (1884 – 1963), filologo e storico italiano.
Vita romana
[modifica]Da piccola borgata sul Palatino Roma divenne la più grande metropoli dell'antichità. I suoi primi abitatori scendevano a pascolare gli armenti e a seppellire i loro morti nell'umida e angusta valle, dove poi sorse il Foro; dopo dieci secoli, quando Costantino trasferì a Bisanzio la capitale dell'Impero, l'abitato di Roma aveva un perimetro di quasi venti chilometri e una popolazione numerosissima e fitta. Le rive del Tevere da Porta Trigemina sino oltre le pendici dell'Aventino verso sud erano sistemate mediante opere portuali, in modo da assicurare i rifornimenti necessari in abbondanza e con regolarità. Undici acquedotti fornivano ogni giorno una tal quantità di acque che è calcolato un miliardo e mezzo di litri.
Citazioni
[modifica]- L'antica Roma non fu mai, come la Roma d'oggi, o Parigi, o Firenze, una città traversata da un fiume. Lo sviluppo cittadino si effettuò tutto sulla riva sinistra; di Roma il Tevere non segnava la mediana, ma il limite occidentale. [...] Ciò spiega perché in Roma i ponti erano pochissimi; oggi ve ne sono ventidue; la Roma antica entro la cinta aureliana ne ebbe solo otto; nove computando il ponte Milvio nel tratto settentrionale del Tevere, oltre le mura; i più di essi sono costruiti in età tarda. (Urbs, p. 39-40)
- Le stanze della casa romana non erano ingombre di mobili come le nostre, [...] Per conservare oggetti e tessuti, più ancora che i mobili come armaria, capsae, cistae, scrinia ecc., servivano delle stanze adibite appunto a questo scopo [...] questo sistema che la casa moderna ha condannato, aveva un larghissimo uso presso i Romani, dalle incavature del muro in cui nelle biblioteche si riponevano i libri, alle numerose cellae che servivano da dispensa, da guardaroba, da deposito. Conseguenza di ciò il numero incomparabilmente più esiguo della mobilia. Ai Romani le nostre stanze parrebbero magazzini. (cap. III L'arredamento della casa, p. 71)
- La differenza di gusto fra noi e i Romani è ancora più grave di quel che potrebbe sembrare se ci lasciassimo illudere da apparenti coincidenze: come noi, i Romani erano ghiotti dei funghi, ma li cuocevano col miele; pregiavano le belle pesche, ma le trattavano a un dipresso come facciamo noi con le anguille marinate; avevan una predilezione per molti dei pesci che ancor oggi si vedono volentieri sulla tavola, ma li preparavano con certi intrugli, diciamo così, preoccupanti, in cui entrava di ogni cosa un po', non escluse le susine e le albicocche spiaccicate e una purée di mele cotogne. Se qualcuno torce la bocca ha torto. Deve ricordarsi che mentre i Romani preferivano il cacio fresco, noi facciamo buon viso al cacio Gorgonzola, pur riconoscendo e dicendo che puzza: un cacio che è bacato, e che tanto più si paga e si apprezza, quanto più sapientemente è stato fatto bacare. I Romani arricciavano il naso davanti al cinghiale rancido; a noi par di sciuparlo se si mangia fresco, e lo cuciniamo solo quando è più che frollo e sa di carne passata. «È il gusto della selvaggina» si dirà; «No, è puzzo di cadavere» risponderebbe un Romano. Evidentemente fra tanti proverbi che ci sono, il più vero e il più equanime è quello che dice che tutti i gusti son gusti e sui gusti non si discute. (cap. IV I cibi, pp. 79-80)
- In provincia e in campagna, o nell'intimità della sua casa, il Romano stava in tunica. Se aveva freddo si copriva con un mantello o aumentava il numero delle tuniche (come faceva, per esempio, Augusto, un uomo paurosissimo dei raffreddori, che ne portava quattro oltre a maglie di vario genere); ma della toga che era tanto dignitosa e bella quanto poco pratica, aveva cura di sbarazzarsi appena si trovava in famiglia o lontano dal mondo ufficiale. (cap. VI Vestiti, calzature e ornamenti, p. 90)
- I romani antichi lasciavan crescer liberamente capelli, barba e baffi; erano maestosi ed orridi [...] Solo col secondo secolo a. C. cominciò a diffondersi l'uso di farsi i capelli e di radersi la barba. (cap. VII Barba e capelli, p. 97)
- A differenza dei Greci che tenevano le loro donne chiuse in casa e, se liberi dagli affari, non passavano il tempo in famiglia [...] i Romani sentirono profondamente l'attrattiva della vita domestica. È questo uno dei lati più caratteristici della loro civiltà, e tale che avvicina i Romani ai costumi e ai sentimenti dell'età nostra. (cap. VIII La donna nella famiglia romana, p. 101)
- E anche a Roma si ballava. Le antiche danze italiche consistevano in un tripudiar pesante, che aveva qualcosa di solenne e di marziale. Si batteva la terra coi piedi in un ritmo di tre tempi. Era più un saltar che un danzare; quelle forme di ballo infatti erano indicate con la parola saltatio, e rimasero in onore nel rito di alcuni ordini sacerdotali e nel volgo campagnolo in giorni di festa. Sulla fine del II secolo a. C. la cultura greca introdusse in Roma forme di danze più molli: nell'alta società si danzava alla greca. Ma danzavano solo le donne e i fanciulli. Non era ammesso che un uomo serio danzasse: l'epiteto di «ballerino» (cinaedus) era il più vituperoso epiteto con cui si potesse ingiuriare un uomo maschio... (cap. XX Divertimenti e svaghi di piccini e grandi, p. 209)
- I robusti Quiriti avevano la lingua sciolta, e quando si trattava di dir la loro non c'era verso di farli stare zitti. Questo, si può dire, è uno dei lati più caratteristici dell'indole romana. La maldicenza, sconfinata e ostinata, affondava le sue radici in un inveterato spirito di libertà; al popolo, provato in mille battaglie, si potevano imporre i sacrifici più duri, e, al campo, la più rigida disciplina; ma non di tenere la lingua a freno quando l'obbligo del silenzio sarebbe apparso inutili compressione e intollerabile oltraggio alla fierezza dei signori del mondo. L'italum acetum è un prodotto vernacolo, che ha caratteri propri e inconfondibili; e la potenza del motteggio in Roma è infinita. (cap. XXIV «Italum acetum», p. 233)
- A chi mi chiedesse qual era l'aspetto di Roma antica pregandomi di presentarglielo in concreto, dirò, per intenderci, di fotografarlo, dovrei rispondere alla domanda con un'altra domanda: «Quando?». Cicerone, Seneca, Marziale, ci hanno tramandato una copiosa massa di elementi informativi su quello che era l'aspetto materiale di Roma; ma se noi raccogliamo e combiniamo quegli elementi, ne viene fuori per ciascun autore una Roma diversa. Dir Roma e basta, e pensare che possa bastare, è già di per sé un errore; ed è un errore dei più comuni, perché vi è una diffusa tendenza a non considerare quanto il volto di Roma fosse mutevole, e a supporre, in certo modo, che Cicerone passeggiasse in una città molto simile a quella in cui, da adulto, passeggiava il suo figliuolo, che Roma presentasse agli occhi di Orazio lo stesso aspetto che agli occhi di Marziale. (Vicende edilizie dell'antica Roma, p. 253)
- Il Foro oggi è il documento confuso e quasi assurdo di una storia più che millenaria, il risultato gigantesco di secoli di attività edilizia e di successive distruzioni e rovine. Ogni generazione vi ha lasciato i suoi monumenti, e ogni monumento le sue tracce. Dal lapis niger, che l'antica leggenda faceva la tomba di Romolo (e che tomba di un antico certo fu, come gli scavi più recenti hanno dimostrato), alla Colonna di Foca, innalzata nei primi anni del VII secolo d.C., sono più che mille anni di storia di cui il Foro Romano con le sue venerande rovine ci è testimone. (Vicende edilizie dell'antica Roma, pp. 253-254)
Quanto ho detto sin qui suggerisce una conclusione: la mutabilità dell'aspetto di Roma era l'indice della sua possente vitalità. Per conseguenza, quando sotto Costantino, col trasferimento della capitale la vita della metropoli cessò dal pulsare col suo consueto ritmo, fu quello per Roma l'inizio di una lunga secolare agonia. Le trasformazioni e le mutilazioni che gli antichi edifici subirono non sono che le tappe di una lentissima morte; perché anche le città muoiono: muoiono come gli uomini, sia pure per tornare a vivere con aspetto diverso e nuovo.
Bibliografia
[modifica]- Ugo Enrico Paoli, Vita romana, Oscar saggi, Arnoldo Mondadori Editore, 1990. ISBN 88-04-33727-3.
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