Varlin

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Willy Leopold Guggenheim, noto come Varlin (1900 – 1977), pittore svizzero.

Citazioni di Varlin[modifica]

  • Mentre stava per dire addio a Parigi, il poeta tedesco Hebel scrisse: "se tutte le città del mondo dovessero sparire, che Parigi esista per sempre!". Valga questo anche per Napoli. Napoli, parola magica; che tu possa sempre essere te stessa.[1]
  • Quando giungo in una città straniera, ho l'abitudine di chiedere del penitenziario, del manicomio e delle macellerie equine; lì ci sono i quartieri più poveri, ossia i più pittorici. Lì circolano uomini, non manichini. Piega dei pantaloni, cravatte, ricercatezze leziose non sono la mia specialità.[1]

Citazioni su Varlin[modifica]

  • Negata, dunque, e rifiutata ogni bellezza, ogni sua memoria, ogni suo segno? È questione d'intenderci; poiché una bellezza deformemente solenne e deformemente sublime sibilante nella sua voragine e nella sua perdizione d'un nero più nero dei fori stessi da cui nasciamo e da cui defechiamo, è presentissima e, anzi, intona e incarna lo stesso dissistemato sistema dell'ultimo Varlin; ed è da delibarsi come una risata che si faccia «complainte» sulla cisterna, tre sull'orinatoio, sul vespasiano e sulla latrina dell'universo mondo; e degli universi cieli. Ma, oltre a tutto questo, fate ben attenzione; in quelle voragine, in quei precipizi, in quegli iati, esistono occhi che v'attendono al varco: celesti, azzurri o neri, essi, possono fulminarvi lì, per sempre, con la forza e l'ipermalia medianica di gioielli fabbricati da un vero e proprio terrorista psichico; in essi s'è infatti coagulato tutto ciò che, per anni e anni, era stato il rutilante splendore della materia e delle trombe pittoriche varliniane; esistono bocche che possono aprirsi, mordervi, addentarvi, baciarvi; facce che possono ipnotizzarvi e obbligarvi a seguirle in eterno. (Giovanni Testori)

Roberto Tassi[modifica]

  • Come molti artisti e molti poeti che per questo fan fatica ad entrare nella notorietà, desiderava non il potere, ma il non-potere: la libertà, gaiezza, equilibrio che dà il non-potere. E la stessa assunzione dello pseudonimo con cui lo conosciamo ne è come un emblema; chiamandosi Guggenheim, già negli anni in cui viveva a Parigi, cambiò quel nome "da bravo e ricco borghese", per suggerimento del mercante d'arte Zborowski, con quello di Varlin, in ricordo di uno degli uomini più sconosciuti e coraggiosi della Comune, morto in modo eroico ed orribile durante la "settimana di sangue". Ma un'altra ragione è da cercarsi nei soggetti della sua pittura, che sono sempre miserabili: ambienti di squallore e disordine, oggetti usati, sgangherati, corrotti, persone che stanno nei bar, nelle cucine, camminano per le strade e son visti con quell'ironia e con quella pietà come se fossero usciti da un film di Chaplin.
  • Dopo aver vinto il premio Città di Zurigo scrive in una lettera: "Non capisco per quale motivo, se si dipinge qualcosa alla bell'e meglio, bisogna salire su un podio e stringere delle mani". Ma ancor più l'episodio in cui culmina il suo contrasto con Max Bill ci serve a capire e ci affascina: il campione svizzero dell'astrattismo, essendo membro della giuria selezionatrice, aveva esposto alla mostra annuale degli artisti zurighesi tre quadri di Varlin, contro la sua volontà. Varlin, in risposta, si reca all'esposizione e con una lametta taglia le proprie tele. Il gesto è drammatico e bello, carico del consueto sarcasmo varliniano; non è un gesto iconoclasta, né dada, ma il contrario, gesto d'amore, di violenza amorosa sull'opera; è la stessa violenza amorosa che Varlin compie teneramente con le donne e con gli amici, forsennatamente con la pittura. E poi quei quadri potevano essere ricuciti; non ne avrebbero sofferto, avrebbero acquistato delicatezza e mistero; come a volte una sottile cicatrice rende più attraente il corpo di una donna.
  • Nessuno deve scandalizzarsi se Varlin dipinge un ombrello rotto, un letto sfatto, un gatto morto, un vecchio clochard, una via lunga, stretta e con lenzuola stese di Napoli, un atrio tristissimo di stazione, una poltrona sventrata, o il proprio atelier ricolmo degli oggetti più diversi, del disordine più angoscioso, delle incrostazioni più informi (come neanche lo è l'atelier di Bacon, che conosciamo solo in fotografia). Nessuno si scandalizzi, perchè Varlin ne fa meraviglie di pittura, grumi di esistenza dove l' artistico e il vissuto si sovrappongono e si intrecciano.

Note[modifica]

  1. a b Citato in Roberto Tassi, E Varlin tagliò i suoi quadri con la lametta, la Repubblica, 5 giugno 1992.

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