Roberto Tassi

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Roberto Tassi nel 1975 circa

Roberto Tassi (1921 – 1996), storico dell'arte, critico d'arte e medico italiano.

Citazioni di Roberto Tassi[modifica]

  • [Su Varlin] Come molti artisti e molti poeti che per questo fan fatica ad entrare nella notorietà, desiderava non il potere, ma il non-potere: la libertà, gaiezza, equilibrio che dà il non-potere. E la stessa assunzione dello pseudonimo con cui lo conosciamo ne è come un emblema; chiamandosi Guggenheim, già negli anni in cui viveva a Parigi, cambiò quel nome "da bravo e ricco borghese", per suggerimento del mercante d'arte Zborowski, con quello di Varlin, in ricordo di uno degli uomini più sconosciuti e coraggiosi della Comune, morto in modo eroico ed orribile durante la "settimana di sangue". Ma un'altra ragione è da cercarsi nei soggetti della sua pittura, che sono sempre miserabili: ambienti di squallore e disordine, oggetti usati, sgangherati, corrotti, persone che stanno nei bar, nelle cucine, camminano per le strade e son visti con quell'ironia e con quella pietà come se fossero usciti da un film di Chaplin.[1] 
  • Da molti anni Guccione dipinge il mare. [...] Guccione sostituisce alla terra con i suoi monti, le pianure, i dirupi, le onde di nebbia, il cielo, sostituisce a tutto il mare: la contemplazione suprema avviene tra l'uomo e il mare.[2]
  • [Su Varlin] Dopo aver vinto il premio Città di Zurigo scrive in una lettera: "Non capisco per quale motivo, se si dipinge qualcosa alla bell'e meglio, bisogna salire su un podio e stringere delle mani". Ma ancor più l'episodio in cui culmina il suo contrasto con Max Bill ci serve a capire e ci affascina: il campione svizzero dell'astrattismo, essendo membro della giuria selezionatrice, aveva esposto alla mostra annuale degli artisti zurighesi tre quadri di Varlin, contro la sua volontà. Varlin, in risposta, si reca all'esposizione e con una lametta taglia le proprie tele. Il gesto è drammatico e bello, carico del consueto sarcasmo varliniano; non è un gesto iconoclasta, né dada, ma il contrario, gesto d'amore, di violenza amorosa sull'opera; è la stessa violenza amorosa che Varlin compie teneramente con le donne e con gli amici, forsennatamente con la pittura. E poi quei quadri potevano essere ricuciti; non ne avrebbero sofferto, avrebbero acquistato delicatezza e mistero; come a volte una sottile cicatrice rende più attraente il corpo di una donna.[3]
  • In fondo Soutine non è mai entrato veramente in quello stretto manipolo di grandi che la storia ha consegnato all'esaltazione e all'adorazione dei più. E' stato sempre tenuto un po' a lato, in quelle zone non centrali, non del tutto illuminate, dove continua a bruciare lo spirito dei solitari, degli estremi, dei disperati. La sua opera infatti ha sempre prodotto un turbamento che non è facilmente, e a lungo, sostenibile: febbrile, palpitante, satura di una vita inesausta. Nessun altro fu così istintivo, così perduto e insieme così cosciente, come Soutine. E proprio qui sta il punto delicato, oscuro, generativo, della sua grandezza: punto difficile da capire, da spiegare e forse anche da accettare.[4]
  • Nessuno deve scandalizzarsi se Varlin dipinge un ombrello rotto, un letto sfatto, un gatto morto, un vecchio clochard, una via lunga, stretta e con lenzuola stese di Napoli, un atrio tristissimo di stazione, una poltrona sventrata, o il proprio atelier ricolmo degli oggetti più diversi, del disordine più angoscioso, delle incrostazioni più informi (come neanche lo è l'atelier di Bacon, che conosciamo solo in fotografia). Nessuno si scandalizzi, perchè Varlin ne fa meraviglie di pittura, grumi di esistenza dove l' artistico e il vissuto si sovrappongono e si intrecciano.[1]
  • Soutine non conosce movimento artistico, poetica modernista, teoria della dissoluzione formale, dell'avanguardia o non dell'avanguardiaia. Arriva a Parigi nel 1913 in piena avventura cubista, attraversa gli anni in cui si formano i vari astrattismi, senza che né l'uno né gli altri possano minimamente appassionarlo; subito creando, e poi senza sosta perseguendo, quel suo stile in cui la materia, il colore e la forma si stringono e si fondono per esprimere qualcosa che non è solo bellezza, ma angoscia e palpitazione della vita. Ignora Dada e Surrealismo. E quando, tra il 1919 e il 1925, non c' è studio di pittore in cui non spiri, poco o tanto, l'ordine di un recupero classicista, egli dipinge, prima a Céret nei Pirenei, poi a Cagnes, poi a Parigi proprio nel 1925, il più grandioso e sublime disordine: immagine in cui la materia si depone e organizza, addensata e viva, in una estrema e tragica armonia.[4]

Note[modifica]

  1. a b Da Varlin un clown della pittura, la Repubblica, 28 gennaio 1986.
  2. Citato in Piero Guccione, a cura di Marco Goldin, Electa, Milano, 1989, p. 136. ISBN 88-435-3077-1
  3. Da E Varlin tagliò i suoi quadri con la lametta, la Repubblica, 5 giugno 1992.
  4. a b Da un articolo pubblicato su la Republica; citato in Due bambini per la strada, abellarte.com.

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