Vera Pegna

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Vera Pegna (1934 – vivente), traduttrice, attivista e scrittrice italiana.

Una vita intera tra attivismo e nonviolenza

Intervista di Andrea De Lotto, pressenza.com, 31 agosto 2021.

  • [Partiamo dall’inizio.] Sono nata nel 1934 ad Alessandria d'Egitto e lì ho vissuto per circa 20 anni con la mia famiglia, che ci teneva molto al nostro essere italiani. In Egitto si parlavano tante lingue: oltre all'arabo, l'inglese, il francese, il greco, magari mescolandole, ma a casa nostra guai, si doveva parlare una lingua per volta e bene, e poi c'era un elenco di parole che si potevano usare in una lingua diversa se non esisteva un esatto corrispettivo in quella che stavamo usando. In quel tempo l'Italia era ancora fascista, ad Alessandria c'era una scuola italiana, la Don Bosco, ma quando mio fratello e io tornammo a casa facendo il saluto fascista, mio padre ci tolse immediatamente. Voleva metterci alla scuola inglese, ma dal momento che eravamo "nemici" non ci volevano, però finirono con accettarci grazie all'intervento di un amico inglese altolocato che assicurò che eravamo antifascisti.
  • [Come andasti a finire in Sicilia?] All'università feci un incontro – per me vitale – con uno studente inglese buddista che mi introdusse alla nonviolenza. Ne rimasi folgorata. Poco dopo lessi un articolo su Danilo Dolci, che veniva chiamato "il Gandhi siciliano", per cui andai a trovarlo a Partinico.
  • [Quale fu la prima impressione?] Terribile. Arrivammo all'ora di pranzo, io naturalmente ero vegetariana, e quando arrivai lui stava mangiando una bistecca! A me si strinse il cuore. Danilo era bravissimo, capì subito che il fatto che io conoscessi l'inglese e il francese gli sarebbe stato utilissimo e io mi lasciai convincere volentieri a stare lì. Nel frattempo mi ero fatta un cliente importante, "Il centro internazionale per l'insegnamento del giornalismo" di Strasburgo: lavoravo al loro seminario annuale di un mese e con quel guadagno campavo il resto dell'anno a Partinico. Rimasi quasi due anni con Danilo Dolci, ma presto cominciai a sentirmi a disagio. Quando chiedevo alle mie vicine "Perché non venite alle iniziative di Danilo? rispondevano che sì, era un uomo buono che si era preso in moglie la vedova di un pescatore con 6 o 7 figli, ma non capivano cosa ci facesse là. Così col tempo ho capito che, tranne qualche eccezione, le iniziative proposte da Danilo avevano poco seguito perché i metodi di lotta nonviolenta che lui proponeva, come lo sciopero della fame, non appartenevano alla cultura locale. E i mariti delle mie vicine mi dicevano: "Ma come lo sciopero della fame? io vado a letto tutte le sere con la fame..."
  • [Con le tue parole ci restituisci una figura di Danilo Dolci più "umana", con i suoi limiti, mentre forse in tanti siamo stati abituati a idealizzarla.] Danilo è stato utilissimo perché ha fatto conoscere la miseria della Sicilia, l'analfabetismo, la disoccupazione, la mafia (anche se va detto che la mafia non gli ha mai torto un capello, per fortuna). Dove ero molto severa io? Nel fatto che lo vedevo utilizzare, a fin di bene certo, ma pur sempre utilizzare, la Sicilia e i siciliani. Un esempio: era l'anno in cui lo Sputnik russo andò in orbita e lui mandò noi volontari a fare inchieste, chiedendo: "Cosa pensi di questo razzo che va verso la luna?". A me era toccata la regione delle Madonie, una regione di grande emigrazione, dove erano rimasti vecchi e bambini. Le risposte che mi arrivavano erano del tipo: "Eh no! Non va bene un razzo sulla luna, le cose del Signore non si toccano!". Danilo usò come esempio questa frase per dimostrare il "basso livello tecnico-culturale" dei siciliani! Non era vero, perché per esempio gli operai del cantiere navale facevano tutt'altri discorsi. C'erano insomma queste forzature.
  • [Dopo due anni, lasciasti.] Sì, furono i miei vicini che erano comunisti e mi introdussero a quel partito. Io ero da poco in Italia e non sapevo niente della politica, la mia famiglia era antifascista, ma anche anticomunista. Invece questa famiglia siciliana mi raccontava che "no, è una cosa bellissima, tutti i proletari del mondo si uniranno, faremo un mondo più bello!" Erano entusiasti, anche se semianalfabeti. C'era un ideale splendido che li faceva lottare. Allora ho pensato: "Ma forse sono comunista?!" Nel frattempo, a Danilo Dolci era stato assegnato il premio Lenin per la Pace, consisteva in 17 milioni di lire, tanti soldi. Lui assunse Michael Faber, uno che aveva fatto il piano di sviluppo della Rhodesia; questi arrivò con la famiglia e disse: "Provo per tre mesi e poi vediamo". Faber chiese i dati della Sicilia occidentale, ma non c'erano, e Danilo la fece facile mandando noi volontari in giro a raccoglierli. Io ero la responsabile dei volontari, c'era qualche italiano e qualche straniero, ma nessun siciliano. Per me era tragico, dal momento che Danilo andava in giro per l'Europa raccontando della situazione in Sicilia e chiedendo l'aiuto di volontari: spesso così arrivavano le persone più inutili... cosa potevo far fare ad un norvegese esperto in triangolazioni che non sapeva una parola di italiano? Insomma le cose si complicavano, ci si perdeva d'animo e in 4 o 5 decidemmo di lasciare. Andai a Palermo alla federazione del PCI, suonai alla porta e al compagno che mi aprì dissi: "Credo di essere comunista e vorrei parlare con voi." Mi guardò con sospetto (poi me lo raccontò, quando diventammo amici) e mi portò da Napoleone Colajanni, persona raffinata, che capì subito che ero una studentessa borghese benintenzionata. Colajanni mi diede tre libri da leggere per capire se ero davvero comunista. Il Manifesto, Che fare?, Un passo avanti e due indietro. Dopo averli letti ritornai più convinta di prima; mi disse che a quel punto mi mancava l'esperienza pratica e mi mandò in un comune dove si votava fuori turno per dei brogli alle elezioni precedenti. Disse che era una roccaforte della mafia dove il partito era molto debole e non avevamo nulla da perdere. Così andai a Caccamo.
  • [E lì cosa è avvenuto?] Arrivai sulla piazza, dove mi avevano detto che c'era la sezione, con la mia utilitaria ancora targata Ginevra. Salii e vidi una stanza squallida, qualche panca intorno al muro, dei manifesti alle pareti con Stalin, Togliatti e in mezzo Santa Rita, la santa dei miracoli impossibili. Uno si alzò e mi disse: "Chi sei? Cosa vuoi?" Io: "Mi manda il partito. Sono venuta a vedere se si può presentare una lista, fare una campagna elettorale..." "No, no!", mi rispose, "Qua c'è la mafia e non si può fare niente". Mi raccontarono storie di ammazzatine, anche di un compagno, Filippo Intili, ammazzato su un monte lì vicino, a colpi di accetta. Un giovane compagno però mi disse: "Ma noi dobbiamo lottare! Cerchiamo di fare qualcosa! Io, per esempio, sono giovane e non posso lavorare, non trovo lavoro, perché sono comunista". Eravamo in piena campagna elettorale, quindi si potevano fare comizi, parlare in pubblico, senza permessi. Così ci lanciammo in questa campagna elettorale, con me che non sapevo cosa fosse la mafia. Non avevo nessuna soggezione. A Partinico non se ne parlava, tanto meno la si respirava. Invece qui il territorio e la vita ne erano intrise. Capii velocemente cosa volesse dire la mafia nella vita quotidiana delle persone, la mafia si sostituiva alle istituzioni, allo stato. Anche i carabinieri... Quando andai alla stazione dei carabinieri, dal maresciallo, a dirgli: "Guardate che io domani vado con i miei compagni sul feudo a dividere il grano secondo la legge" lui mi rispose: "Dica a chi la manda che è un fetente". Io insistetti perché mi aiutassero a far rispettare la legge e lui mi urlò più forte la stessa frase. Io gli dissi: "Se non viene domani il fetente è lei!" E andai via sbattendo la porta.

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