Achille Dina

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Achille Dina (XIX secolo), storico italiano.

Citazioni di Achille Dina[modifica]

  • Quanti diversi giudizi intorno al Moro! Chi non vede in lui che il traditore, chi lo dice un tiranno feroce, chi il miglior principe dei suoi tempi, chi lo chiama vile, chi per certi rispetti un eroe, chi lo proclama il Cavour del suo secolo, chi il Pericle della Lombardia, chi il Machbet italiano, chi lo presenta come un essere smorto «la negazione di ciò che si chiama carattere», chi ne fa «la più perfetta figura principesca d'allora». Veramente, a nessuno forse dei suoi contemporanei si può applicare così bene come a lui quella frase del Macaulay sull'uomo nel Machiavelli «che non sembra (a prima vista) altro che un enigma, un insieme grottesco di qualità incongrue.» Egli aveva molto ingegno: era sagace, destro, coltissimo, di fantasia lucida, minuziosa; al Burkardt pare «un uomo superiore.» Eppure, benché per lo più «modesto nel parlare», era vanaglorioso, qualità delle menti piccine. - La prudenza, di cui faceva il suo massimo vanto, non impediva che fosse pieno di disegni strani e temerari. – Mente raffinata, calcolatrice, animo corrotto, ci stupisce l'ingenuità della sua passione e della sua fede nelle sue arti di governo. Per alcuni rispetti ci appare costante, tenace, per altri mutabilissimo. Per lo più era padrone di sé stesso, «mai non lo superava la collera», «merito et tempore» si leggeva sul suo scudo, pure talvolta appariva schizzinoso, permaloso, tal'altra, davanti a difficoltà impensate, il troppo calcolare lo rendeva incerto e sgomento, onde l'accusa di pusillanimità, di viltà, di timidità; la quale non toglie che il Michelet, non senza ogni ragione, lo ponesse fra gli eroi dell'astuzia e della pazienza. – In politica era l'uomo più spregiudicato del mondo, in religione superstizioso, soggetto a impeti di devozione paurosa, obbediva agli astrologhi. — «Mitissime principes» lo chiamavano i suoi poeti, era pieno d'affabilità, il suo affetto per la moglie ci commuove ancora, eppure lo strazio che fece di Galeazzo e d'Isabella mise orrore al suo secolo sanguinario. Non mancano nella sua vita, fra i tanti tradimenti, i tratti di generosità, eppure il suo egoismo causò la rovina d'Italia. Come mai qualità così diverse potevano star unite in un sol uomo? [...] Galeazzo ebbe dal padre l'ardore del sangue, la forza di Francesco traboccò in lui in violenza, la sensualità in sfrenata libidine. Ludovico ereditò, senza il contrappeso dell'energia nell'azione, l'astuzia, la pazienza, a cui aggiunse un che di femminile e delicato l'influenza della madre. Un'indole mansueta, pieghevolezza, diligenza, attività, sottigliezza d'ingegno [...] tutte le miserabili guerre di quegli anni furono di natura da persuaderlo sin d'allora di quello ch' egli ripeteva poi sovente, che spesso nel maneggiar le guerre ha più forza una penna da scrivere che una spada. [...] Il nero tradimento contro il nipote, eseguito con tanta raffinatezza e tenacia fa vedere a che punto, colla sua indole mite, paziente, ingegnosa, egli potesse pervertirsi nel male e farne quasi un'opera d'arte, punto dallo sprone dell'egoismo e d’un partito scelto dalla fredda ragione.[1]

Note[modifica]

  1. Da Ludovico il Moro prima della sua venuta al governo, in Archivio storico lombardo, 1886, pp. 770-775.

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