Alice Diop

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Alice Diop nel 2017

Alice Diop (1979 – vivente), regista francese.

«Siamo molto di più dei modelli in cui vogliono confinarci»

Intervista di Lucrezia Ercolani, ilmanifesto.it, 6 dicembre 2022.

  • [È il tuo primo film di finzione [Saint Omer] dopo diversi documentari. Ci sono delle differenze nella ricezione?] Posso dire che la ricezione del film e di me stessa in quanto cineasta non è la stessa in Francia rispetto ad altri luoghi come gli Stati Uniti dove sono appena stata. In Francia il film è stato accolto molto bene dalla stampa, anche perché sono una figura nuova nel panorama: sono poche le donne nere che fanno cinema, c'è Mati Diop ma lei lavora sulla società senegalese mentre il mio film parla di quella francese. Allo stesso tempo però molte delle recensioni che ho ricevuto riguardano la mia persona invece della forma o della scrittura del film, e in alcuni casi sono stata definita arrogante e pretenziosa per aver citato Pasolini e Marguerite Duras. Negli Stati Uniti, dove già trent'anni fa è stato assegnato un premio nobel a un'intellettuale nera come Toni Morrison, non stupisce il fatto che io abbia questi riferimenti.
  • [Perché hai deciso di parlare della maternità attraverso questa vicenda di cronaca?] Quello della maternità è un tema universale che viene affrontato almeno a partire dall'antichità classica con il mito di Medea. Non ne avrei parlato se non fossi rimasta affascinata da Fabienne Kabou: il modo che aveva di raccontare la sua storia e il suo crimine apriva un campo all'immaginario con elementi mitologici, tragici e psicoanalitici. Nel primo articolo scritto sul caso da «Le Monde» ho letto che l'accusata aveva dichiarato: «Ho lasciato la mia bambina sulla spiaggia con l'idea che il mare avrebbe preso il suo corpo». Queste parole mi hanno colpito, se avesse detto «ho affogato mia figlia» non avrei seguito il processo. È stata questa elaborazione quasi letteraria ad attirarmi, una sublimazione che rendeva possibile la messa in questione di ciò che Kabou aveva compiuto.
  • [C'è una difficoltà del linguaggio giuridico nell'affrontare i sentimenti, un vuoto percepibile in «Saint Omer».] Non avevo mai partecipato a un processo e mi ha colpito il tentativo di restituire la complessità di un personaggio e della sua psiche attenendosi solamente ai fatti oggettivi. Questa ricerca entra in conflitto con il mistero assoluto davanti al quale ci troviamo. È come se Dostoevskij, che ha tentato di sondare l'abisso dell'anima umana, dovesse usare un discorso materiale, scientifico, obiettivo. Il che si collega al motivo per cui per me è così difficile parlare del film, sento che i giornalisti vorrebbero che scegliessi un aspetto di lei, un tema, una frase che possa riassumere tutto. Invece la messa in scena di questo lavoro ha a che fare con la sua complessità, con gli strati che la costituiscono.

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