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Carlo Lozzi

Al 2024 le opere di un autore italiano morto prima del 1954 sono di pubblico dominio in Italia. PD
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Carlo Lozzi (1829 – 1915), giurista e letterato italiano.

  • Checché ne sia di questi racconti favolosi, certo, Cecco per ingegno poetico non è neppure paragonabile al genio sovrano dell'Alighieri; e l'Acerba, al cui grandioso disegno non poté dare il debito svolgimento, rimane una nebulosa di fronte al sole sfolgorante della Commedia; ciò non pertanto anch'egli fu molto stimato nei tempi suoi e nei posteriori, e godette di una certa popolarità, anche alla stregua dei codici e delle edizioni della sua Acerba.
    Né vi è storia politica e letteraria, che occupandosi di Dante non consacri un ricordo a Cecco d'Ascoli, e alle loro relazioni; e non celebri più o meno la sua Acerba. Basti rammentare che l'Alidosi la chiamò opera divina, certo esagerandone il merito. Dante, che è Dante, non ebbe sempre lo stesso culto, stando al numero delle edizioni della sua Commedia, il quale nel sec. XVII fu scarsissimo, a cagione del cattivo gusto predominante.
    La civiltà italiana si può misurare alla stregua della varia fortuna di Dante, come direbbe il Carducci, ossia del culto di Dante rivelato principalmente dalle edizioni e dalle illustrazioni del suo poema. Qui cade opportuna la osservazione del Labriola, che essendo stata composta l'Acerba quando appena si conosceva e forse non intera la Commedia, non aveva ancora potuto aver luogo quella educazione letteraria, che poi andò facendosi sul gran Poema, dal quale data e non prima lo svolgimento largo e magnifico della nostra letteratura. (da Cecco d'Ascoli e la musa popolare, pp. 35-36)
  • Ad ogni modo, come opina anche il prof. Castelli, per quanto sia grande il pregiudizio dottrinale di Cecco, non vi è malignità di sorta o viltà di oltraggio; «anzi vi scorgiamo una forma dantesca di lealtà e di carattere».
    Onde il pigliarsela tanto contro Cecco d'Ascoli per conto di Dante è un far torto ad ambedue e alla verità storica, e ha fatto anche torto a se stesso il principe dei nostri viventi letterati e poeti[1] unendo la sua nota intemperante al triste coro d'onta e di spregio contro il tanto calunniato Ascolano, vittima d'immeritata sventura, per la libertà del pensiero, per lo spirito battagliero della critica contro gli errori di quelli che andavano per la maggiore, che ai prepotenti del trono e dell'altare non curvò mai la fronte, più coraggioso in ciò dello stesso Dante. Imperocché, secondo il Colocci anche Cecco era Ghibellino, e soleva dire che Dante se era acconcio co' frati, temendo il loro furore, perché in quelli tempi (parole notevoli in bocca di un prelato e segretario di un papa!) era cosa stupenda la iniquità dè frati contro li homini docti. (da Cecco d'Ascoli e la musa popolare, p. 44)

Note

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  1. G. Carducci. Studi letterari; Della varia fortuna di Dante. I – Livorno, Vigo 1880.

Bibliografia

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