Charles Dupaty

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Charles Dupaty

Charles-Marguerite-Jean-Baptiste Mercier Dupaty (1746 – 1788), giurista, letterato e scrittore francese.

Lettere sull'Italia nel 1785[modifica]

  • Esco dai palazzi Brignole, Serra e Carrega.
    Sono abbagliato, stordito, incantato: non so più che cosa sono. I miei occhi sono colmi d'oro, di marmo, di cristallo, di porfido, di basalto, d'alabastro, sotto forma di colonne, pilastri, capitelli, di ornamenti di tutte le specie, di tutte le forme, di tutti i tipi, ionici, dorici, corinzi. Mille quadri sono sparsi a brandelli nella mia immaginazione. Vedo teste, piedi, mani, corpi e cadaveri, vedo vecchi e fanciulle, Veneri e Vergini. Qui, le lacrime dolorose che velano gli occhi di un venerabile vecchio. Là, un sorriso incantevole che sboccia sulle labbra di una fanciulla di appena quindici anni, a sua volta incantevole: è, credo, il suo primo sorriso. (p. 41)
  • Sono le sei di mattina. La mia immaginazione si sveglia nel salone di palazzo Serra o piuttosto del palazzo del sole. Abbasso ancora le palpebre. Non si può dare un'idea della sontuosità di questo salone. È come quando si guarda la natura attraverso un prisma: così è il salone di palazzo Serra. Che specchi! Che pavimenti! Che colonne! Che oro! Che azzurro! Che porfido! Che marmo! Il termine che si adatta all'insieme è magnificenza. (p. 43)
  • Se si vuol vedere la più bella strada che esista nel mondo intero, bisogna vedere a Genova Strada Nuova. Su due linee molto prolungate e su un pavimento di porfido, numerosi palazzi fanno a gara per ricchezza, altezza, massa, ostentano i loro porticati, le loro facciate, i loro peristili brillano di stucco bianco, nero, di mille colori. Questi palazzi, dall'esterno, sono dei quadri. (p. 43)
  • Le case di Genova sono molto alte e le vie molto strette. Il sole non vi penetra mai. Si sarebbe tentati di credere che Genova non sia stata costruita che per una sola stagione; che Genova sia una città dell'estate. (p. 43)
  • Ho appena visitato il palazzo del doge, dove il senato tiene le sue sedute; da dove spira, su cinquecentomila sudditi, lo spirito del suo governo, delle sue leggi, della sua politica, vale a dire della sua cupidigia. L'occhio, quando si entra nel cortile, è sbalordito. La facciata ornata di colonne e di statue di marmo è la prima cosa che incanta. Si sale nella sala del Minor Consiglio: è l'architettura più elegante; si passa nella sala del Maggior Consiglio: è l'architettura più ricca. Di spazio in spazio, entro una moltitudine di colonne, le statue dei grandi uomini della repubblica ricevono da tutti coloro che passano, come premio del loro merito o della loro fortuna, il debito della posterità; un ricordo e uno sguardo. (p. 44)
  • Uscendo dal palazzo del Doge, sono entrato in un superbo palazzo. Ho attraversato un lungo colonnato, calpestato marmi di tutti i colori; si è aperta una porta immensa: ero dentro un ospedale.
    Contiene milleduecento malati, distribuiti nelle diverse sale: là gli uomini, qui le donne; là le ferite, qui le febbri. Ho creduto di vedere la morte vagare in mezzo a questi malati, che colpiva da ogni parte, a caso, con la sua falce invisibile. Uno sventurato è spirato davanti a me. I letti dei malati sono circondati dai loro parenti inteneriti che li consolano, che li confortano: c'è una madre accanto alla figlia; un marito accanto alla moglie. Almeno, in questo ospedale, mani sensibili e care possono chiudere gli occhi dei morenti.
    Vi regna un ordine ammirevole, una pulizia perfetta, una cura estrema. Vi si guarisce.
    Le statue di tutti i benefattori dell'ospedale sono distribuite nelle sale. Le persone riconoscenti possono, dal momento in cui le loro forze lo permettono, andare a bagnare di lacrime, senza dubbio molto dolci, le immagini dei loro dei tutelari.
    Non so quale piacere mi tratteneva in questa dimora del dolore. (pp. 44-45)
  • Uscendo dal porto franco, sono stato a visitare il banco di San Giorgio. È là che è chiusa, con cento chiavi, la soluzione di questo grande e terribile enigma, se la banca possiede dei miliardi o se li deve. Questo enigma è la salvezza dello stato e, in parte, la sua ricchezza. (p. 45)
  • Uscendo da quel luogo, ho portato nella mia anima un'impressione indefinibile, sulla quale si sono spente, un momento dopo, tutte le bellezze e tutte le ricchezze del palazzo Durazzo. Ah! Come il lusso e la magnificenza fanno male agli occhi, quando si è appena osservata la miseria. (pp. 46-47)
  • Che spettacolo offre al filosofo e all'uomo sensibile il magnifico ospedale degli incurabili!
    Nessuno di questi novecento infelici, stesi, o meglio incatenati, in letti di dolore, recupererà mai la salute!
    Questi vecchi vivranno ancora e questi bambini soffriranno sempre!
    Non ho potuto attraversare la distesa e il silenzio di questo palazzo del dolore senza rabbrividire.
    Da un capo di una sala all'altro, sentivo un movimento e distinguevo un sospiro.
    È praticamente impossibile che lo sguardo percorra questa folla di incurabili di tutti i mali, di tutte le età e di tutti i sessi, senza versare qualche lacrima su queste infelici vittime della vita.
    A lato di questi sventurati che hanno perduto la salute, si vedono, in una sala vicina, gli sventurati che hanno perso la ragione. Così, ecco, nello stesso luogo, tutti gli scarti della specie umana. (pp. 53-54)
  • Si possono suddividere gli abitanti di Genova in tre classi: i nobili, che sono circa duemila; i borghesi, commercianti, artigiani, avvocati, preti, che compongono la popolazione; e infine i poveri di ogni specie, che ne sono la feccia. (p. 55)
  • I Genovesi sono vendicativi. Ma questo spirito di vendetta dipende dalla difficoltà di ottenere giustizia, sia contro i nobili, a causa del loro potere, sia contro i pari, in ragione della protezione dei nobili. Si spiega in tal modo il numero degli assassinii e si giustifica la loro causa, così come l'impunità generale. La maggior parte degli omicidi non rappresenta un crimine ma una forma di giustizia. Bisogna che essa venga fatta, in un modo o nell'altro. (p. 59)
  • La cattedrale di Pisa, che si chiama il Duomo, merita l'attenzione del viaggiatore. La sua torre attira a prima vista gli sguardi: li atterrisce. È talmente inclinata che si crede che cada, ma quel che tranquillizza è che cadrà dopo molti secoli, come l'impero romano sotto i Cesari.
    Questo fenomeno è oggetto di una grande discussione. Si tratta di un'irregolarità del suolo oppure è la volontà di un architetto, il quale ha fatto inclinare intenzionalmente questa torre? Discutere qui di questo problema sarebbe una bella occasione per essere ridicoli e noiosi; occorre sforzarsi di evitarlo.
    [...]
    La cattedrale è grande e maestosa: due file di colonne antiche di granito, settanta in tutto, resti di antichi templi, non hanno potuto essere deturpate dal gusto gotico che le ha riunite là. (p. 71)
  • [...] si è presi, si è colpiti, entrando nel campo santo, in altri tempi il cimitero dei Pisani. Superbo e immenso chiostro, colmo di tombe e mausolei di marmo, diversi dei quali sono ammirevoli. Uno di questi è stato dedicato ad Algarotti dal sovrano di Prussia. Ovidii aemulo, Newtonii Discipulo, Fredericus Magnus. I nomi di Ovidio, di Algarotti, di Newton, di Federico, sopra una tomba!
    Il centro del chiostro è un giardino, il cui terreno è di quella terra santa che i Pisani portarono al tempo delle crociate per seppellirvi i loro morti. Dicono che questa terra abbia una proprietà sorprendente: divora un cadavere in un'ora. La mia mente tornerà più di una volta al campo santo. Tutti questi marmi, questi epitaffi, questo lungo chiostro, questo silenzio, questa solitudine, questa terra, questi grandi nomi, questi secoli! Come è il cuore è emozionato e tormentato da tutto questo! (pp. 71-72)
  • Che massa! Che elevazione! Che circonferenza! È una montagna di marmo che è stata tagliata? È la Cattedrale.
    Si entra e, al primo sguardo, l'immaginazione tocca il cielo, ma, al secondo, cade, perché queste colonne gotiche sono troppo deboli per sostenerla. (p. 93)
  • Esco dal Palazzo Pitti. È la residenza del granduca.
    Che mole! Che altezza! Che dimensioni di costruzione! Tuttavia questa altezza, questa dimensione e questa massa, non possono interessare che uno sguardo. Gli occhi scivolano su questa prodigiosa superficie, senza incontrare un solo ornamento, senza trovare un solo punto d'appoggio. Il palazzo intero non sembra che una pietra. (p. 99)
  • Che situazione è quella di Firenze! La pianura, al centro della quale è incastonata, è coperta di alberi di ogni genere, soprattutto da frutto. In primavera, Firenze è in mezzo a un bouquet di fiori e merita di portare il proprio nome.
    Ma, man mano che ce ne allontaniamo, il terreno diviene irregolare, la coltivazione monotona, la terra sterile, gli uomini rari, le donne brutte, le greggi magre. Tutta la natura, infine, degenera. (pp. 105-106)
  • Che cos'è in apparenza un cicisbeo? Che cos'è in realtà? Come una donna lo accetta? Come un uomo vuole esserlo? Come i mariti lo sopportano? È il sostituto del marito? Fino a che punto lo rappresenta? Qual è l'origine di questa usanza? Quale motivo la mantiene o la modifica? Che influenza ha sui costumi? Se ne trovano tracce o somiglianze nei costumi degli altri popoli? Domande a cui è difficile rispondere! In due parole, il cicisbeo rappresenta, più o meno, a Genova, quello che, a Parigi, è l'amico di casa. (p. 61)
  • I Genovesi sono molto malmessi. Confondono la ricchezza e gli ornamenti, gli ornamenti e l'abbigliamento. Nessuna conoscenza dell'abbinamento di pettinatura e lineamenti, di colori e incarnato, di stoffe e taglia; nemmeno una sa mascherare un difetto, né valorizzare un pregio, né nascondere gli anni. (p. 61)
  • I costumi a Genova sono privi di tutti quegli affetti che, altrove, ne rappresentano l'ornamento, la felicità, la virtù. Non c'è madre, non c'è bambino, non c'è fratello; non ci sono eredi, né parenti. Non si è neppure amante: si è uomo o donna. (pp. 61-62)
  • Questa città offre i contrasti più singolari. A Genova c'è tanto libertinaggio, che non ci sono prostitute; tanti sacerdoti, che non c'è religione; tanti a governare, che non c'è governo; tante elemosine, che i poveri vi brulicano. (p. 62)
  • Che cos'è questo superbo monumento? La sua struttura, la sua altezza, le sue dimensioni, la sua magnificenza mi stordiscono! È un ospedale. Lo chiamano albergho de poveri. Bisognava chiamarlo il palazzo dei poveri. Come mi urtano queste colonne di marmo, questi pilastri di marmo, tutti questi ornamenti di marmo! Ognuna di queste colonne occupa il posto di numerose persone. Si è voluto restituire ai poveri, in un solo palazzo, la parte che appartiene loro in tutti i palazzi? (p. 62)

Bibliografia[modifica]

  • Charles Mercier Dupaty, Lettere sull'Italia nel 1785, traduzione di Elisabetta Goggi e Marcella Traverso, Città del Silenzio Edizioni, Novi Ligure (AL), 2006. ISBN 978-88-902359-0-0

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