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Pierangelo Baratono

Al 2024 le opere di un autore italiano morto prima del 1954 sono di pubblico dominio in Italia. PD
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Pierangelo Baratono (1880 – 1927), scrittore italiano.

Citazioni di Pierangelo Baratono

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  • La gloria, regal femmina, vuol sedurre e non esser sedotta.[1]

Genova misteriosa

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Esiste in Genova un misterioso quartiere, ove l'ombra e il tanfo della miseria pare si siano raccolti a condensare in un punto solo tutte le ripugnanti manifestazioni delle umane sventure. Esso si estende sovra una collina, che come un'escrescenza malata domina via Madre di Dio e va a terminare su via Ravecca e nel piano di Sant'Andrea. Pare che l'opera industre dell'uomo abbia edificato quel gruppo malsano di case a bella posta per rendere più forte il contrasto tra il luridume della più tenebrosa miseria e la piacevole appariscenza dell'agiatezza, quale si può ammirare sul vicino e salubre colle di Carignano. Da una parte le tenebre e la nausea della sporcizia, dall'altra il sole e il profumo dei fioriti giardini. La natura vive, appunto, di questi contrasti. Allorché essa ha raffigurata una cosa bella, le pone a fianco il pantano, quasi per fare apprezzare maggiormente la prima e fors'anche per un suo bisogno o bizzarro capriccio, che le impone di sfogare le insane perversioni, che, in fondo, si trovano diffuse ovunque, negli uomini come nelle cose.

Citazioni

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  • Un viandante, che si appoggiasse al parapetto di via Fieschi, di tutto il quartiere popolare sopra accennato non potrebbe scorgere se non una massa confusa di case, di aspetto irregolare, tagliate nei modi più disparati e bizzarri, ad angoli, a punte, appiccicate una all'altra e tempestate di finestrelle e di buchi. Di giorno l'insieme ha un colore terreo, che neanche la viva luce del sole può dissipare o schiarire. Un'ombra secolare si è addensata intorno a quelle abitazioni, sporcando i muri, penetrando nell'interno di esse a imprimervi il segno indelebile della miseria. Al chiaro di luna poi, il quartiere assume un aspetto fantastico e medioevale. È la sua bellezza, questa; poiché ogni cosa ha i suoi momenti felici. Il raggio lunare spiovendo su quella deformità la rende piacevole; esso lista di bianco gli spigoli e le sporgenze, bagna i tetti con la sua benefica rugiada luminosa, fa risaltare il grottesco complesso di quelle mura e dona a tutto un'impronta di mistero e di poesia. Il nottambulo, allora, può dal muraglione di via Fieschi sprofondare lo sguardo in quel blocco di case e rimanere per un istante affascinato dalla stessa irregolarità dell'insieme, dalla dolcezza quieta della luce lunare e da quel puro squarcio di cielo, frastagliato e quasi lavorato a traforo dalla linea spezzata delle case più alte. (pp. 3-4)
  • Andò ancora avanti, borbottando fra i denti uno scongiuro. Giunse in tal modo innanzi al primo arco del ponte di Carignano. Esso si profilava al lume del gas col grande sviluppo delle mura massiccie copriva con un gesto protettore un abisso di tenebre, che ingombrava tutto lo spazio vuoto fra le due braccia dell'arco e si allungava poi sul terreno a nascondere una parte del breve ripiano e le sinuosità del muricciolo, che limitava la strada. Storno si lasciò cadere seduto sul terreno, le gambe sospese sull'abisso d'ombra, gli occhi imbambolati, fissi su quel profilo di arcata come a cercare in quella robustezza di muri un sostegno al suo accasciamento. (p. 12)
  • Il circolo possedeva anche uno statuto, formato da tre articoli:
    «Articolo primo. Non esiste che una sola categoria di soci, quella dei soci morosi.
    Articolo secondo. La libertà più completa di azione e di pensiero è ammessa fra i componenti la società.
    Articolo terzo. Nessuna donna potrà avvicinarsi al circolo, se non sarà da tutti debitamente riconosciuta come a sufficienza nauseante fisicamente e moralmente». (p. 30)
  • Genova tenebrosa è visibile fors'anche ad occhio nudo; essa è localizzata e possiede certe speciali espressioni e manifestazioni, che la indicano subito all'attenzione del curioso e del gaudente.
    Non così Genova misteriosa. Per quest'ultima la prostituzione, i giuochi di borsa, gli intrighi sono acqua di rose. Essa ha il volto sorridente di esperta matrona e le mammelle avvizzite, bacia e morde ad un tempo ed ove credi non esista ti si scopre ad un tratto come un orribile spauracchio da una scatola a sorprese.
    Per conoscerla occorre essere una canaglia o assumerne l'aspetto. Neanche la polizia può sorprenderla, tanto essa è attenta e ricca di precauzioni e di strattagemmi. [...]
    Ci si dirà: ma dove posson celarsi tanti misteri in una città, che non possiede neanche trecentomila abitanti e che è conosciuta, si può dire, palmo per palmo dalla polizia?
    Ove meno credete, amabile lettore. Genova è piccola e grande ad un tempo. Da Porta Lanterna essa getta il suo fascio di strade sino a Staglieno da una parte e a San Pietro della Foce dall'altra.
    A studiarne la carta topografica si riconosce subito, o si crede di riconoscere, la poca probabilità di misteri. Quella rete di strade, di vicoli, di passeggiate pare semplice ed evidente. Eppure, già qualche gruppo fitto di case, come quello descritto da noi nel primo capitolo della «Signorina Scarpette», fa arricciare il naso ad un attento osservatore. (pp. 81-82)
  • Il palazzo, che è il secondo rifugio di Genova misteriosa, è bellissimo ed appartiene ad uno dei più ricchi borsisti della città marinara.
    Nessuno sospetterebbe in via Balbi e sotto apparenze così lusinghiere una simile corruzione. Le ampie scale, i colonnati, i giardini, la lunga serie di stanze magnificamente arredate, il numero ingente di camerieri e di persone di servizio, lo sfarzo delle carrozze e tutto quell'insieme, che rivela una vita signorile e quasi principesca nascondono i più pericolosi trasporti dei sensi e dell'immaginazione.
    In quel dedalo di camere esistono certi stanzoni, accuratamente ammobiliati, che sono esclusivamente tenuti per sfogarvi le malsane voglie di temperamenti corrotti.
    In tal modo, mentre al primo si balla e si tiene circolo fra persone distinte e nelle quali nulla troveresti di men che onesto e corretto, al secondo un gruppo di signori avvizziti, di baldracche e di popolani si dà in braccio alla lussuria ed all'orgia. (p. 84)
  • Vedete Genova? Da un lato il mare, ove si agitano lievemente selve d'alberi di navi e si profilano le lunghe ombre dei transatlantici; intorno ad esso, lunga e densa la linea delle case, solcate da una grande striscia architettonica di palazzi medioevali, che da piazza Acquaverde va a finire al Duomo.
    Scorrete con passo celere le strade, da un lato e dall'altro di questo storico solco. Verso il monte troverete vie larghe e giardini e palazzi a caserma; lungo il mare, invece, vicoli e strettoie, che scindono le grevi file di casoni alti, anneriti, piegati sotto il peso degli anni e vicini tanto, da toccarsi con le grondaie: tutta la vita marinara e affaticata del popolo. Quei caseggiati, di notte cerchiati dall'ombra, ma di giorno multicolori, costruiti secondo le figure geometriche più arrischiate, non vi rivelano forse tutta l'indole di questo popolo? In quell'invasione di piccoli spazii, in quell'utilizzazione di ogni tratto di terreno, che vi foggia angoli bizzarri, sporgenze mostruose, bernoccoli massicci, non leggete lo spirito pratico, attivo, calcolatore del genovese? E non vi leggete anche il risparmio e l'economia, smentiti solo in apparenza dalla sfarzosità grottesca delle nuove abitazioni? Quelle nicchie, quei ricami, quei gingilli sui muri, appariscenti e sfacciati, non vi denotano la mania dello sfoggio e del lusso, che prepara lauti banchetti la domenica, mentre gli altri giorni si mangia il minestrone? (Gianni Maglino, p. 135)
  • Bisogna osservare che nella borghesia ricca di Genova predomina un elemento popolano, che del popolo ha conservato i vizii e dimenticate le virtù. Sono lavoratori infaticabili, giunti alla potenza a forza di energia e di risparmio, i quali conservano ancora nel corpo tozzo, nelle maniere grossolane e nelle mani indurite i segni del loro passato. Come in una tromba aspirante essi hanno trascinato dietro la loro fortuna la famiglia, comprese le mogli, oneste ex-bisagnine, buone diavolaccie in fondo, malgrado la prosopopea apparente e la smania di lusso. (p. 161)
  • Il genovese ricco, per quanto diffidente, è come il contadino e si lascia facilmente ingannare da un cumulo di buone apparenze. Perciò, pullulano in Genova gli scrocconi, quasi tutti muniti di un titolo nobiliare più o meno autentico e di una faccia tosta a prova di bomba. Essi sanno il loro potere e corrono di salotto in salotto a prodigare le loro grazie e le loro stoccate. (p. 162)
  • Affrontiamo un altro lato caratteristico della vita genovese, il bigottismo. In Genova la chiesa occupa un posto importantissimo. L'esercito delle sottane nere comanda a bacchetta, sia che inspiri le parole in Consiglio, sia che diriga gli avvenimenti nel seno delle famiglie. Il fenomeno si spiega con la poca istruzione generale, ma anche col carattere proprio delle città marinare che, o per atavismo o per sentimentalità personali, si professano devote al culto di Dio.
    La donna, vecchia o giovane, è la prima vittima del miraggio. Essa frequenta le messe, ascolta rispettosa le parole e i consigli del confessore e in tutto cerca di mantenersi in buona pace con l'altro mondo. La sua influenza sull'uomo, considerevole ovunque, in Genova trova maggior terreno per estendersi, poiché la politica clericale è quella adottata dall'ambiente. Da ciò quell'apparenza untuosa, che informa le conversazioni e il modo di agire di ognuno. (pp. 168-169)
  • Oh, la bontà! La più spregevole delle virtù! Un uomo buono è uno zero, per me. Preferisco il delinquente, che prepara arditamente il suo colpo e ha il coraggio di compiere l'assassinio. Tu, non saresti neanche capace di uccidermi, se mi trovassi nelle braccia di un altro. (Anna, p. 174)

La morte di Bisca e del sarto aveva terrorizzato tutti quegli operai. Silenziosamente essi uscirono da quella casa, ove erano entrati con grida di minaccia ed ove rimaneva, a piangere sui due cadaveri, Anna Vincigli.
Quanto al Cerruti, la spaventosa scossa morale lo aveva, ormai, annientato. Chiese egli stesso di venir condotto in prigione alle guardie, che troppo tardi, erano accorse a frenare la folla, e si avviò rassegnato all'orribile castigo, che gli preparava la giustizia degli uomini.

Incipit di alcune opere

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Commenti al libro delle fate

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Un uomo, che recava in mano una borsetta da viaggio, entrò in una grande città e si recò difilato nel migliore albergo. Chiese la camera più bella, una cena succulenta; poi segnò sul registro un nomuccio qualsiasi e andò a coricarsi. Ma, al mattino, ebbe l'imprudenza di lasciare sul tavolo un foglio di carta da lettera con tanto di corona principesca e di stemma nell'angolo superiore. Subito, dall'albergatore all'ultimo mozzo di stalla, tutti seppero di aver da fare con una persona ragguardevole.

Edgar Poe

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Com'è inzuccherato e salutifero il precetto: La virtù sta nel mezzo! Deve aver nitrito di letizia, puledro su verde praticello, colui che, per il primo, divinò questo rimedio per ogni cruccio, questo succoso impiastro per ogni ferita! Poiché la virtù sta nel mezzo, solo chi rimanga nel mezzo è virtuoso. Magnifico assioma, che libera l'infinito stuolo dei mediocri dalle melanconie dei desiderii vani e dai rodimenti della bile. E non importa che l'umanità, così livellata, diventi grigia moltitudine di formiche in attesa del colpo di scopa della morte e del capitombolo negli abissi del nulla. Non importa che il nostro globo sia qualcosa più di un formicaio appunto perché, di tempo in tempo, dalle sue viscere nascon creature destinate a sbeffeggiare l'assioma e a mostrare l'inganno della panacea. Di secolo in secolo, la formuletta consolatrice è impiastro alle ferite di una mediocrità tormentata da desiderii inutili e da travasi di bile. E di secolo in secolo, nelle case virtuose, una teca, poggiata sovra un altarino, le serve di scrigno: e fiori di carta la fiancheggiano e ceri accesi le offron tributo di devozione e di fumo.

Il beato Macario: romanzo mattacchione

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Al tempo dei tempi, quando ogni cosa era di bronzo — e, anche, i cuori e le facce degli uomini — scivolò all'onor del mondo un pargoletto, destinato dalla benigna sorte a mostrare esempio di rare virtù. Sin dai primi vagiti, difatti, l'eccelso personaggio, che doveva poi, col nome di Macario, vivere e morire diffondendo intorno a sé un acuto odore di santità, volle appalesare con chiari segni la propria missione opponendo un fiero corruccio agli osceni allettamenti dei sensi e rifiutando il latteo alimento sol perché offertogli in una coppa di carne nuda da una poco timorata nutrice.

Ombre di lanterna

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In paese lo chiamavano il «Gufo», perché abitava una vecchia torre diroccata, spersa fra le sabbie, dalla quale non usciva, a compiere le sue solitarie passeggiate, se non quando le tenebre calavano sulla terra e sul mare. Di lui si sapeva soltanto ch'era scultore e che veniva da una città lontana lontana. Qualche pescatore, incontrandolo sulla spiaggia nelle notti lunari, ne aveva osservato il volto bruno, nascosto nella fitta barba e sotto lo spiovere dei capelli ed ancor più rabbuiato da un'espressione indefinibile di scoramento. Un doganiere dal rifugio del suo casotto in una sera di tempesta lo aveva scorto, al bagliore dei lampi, alzare le braccia verso il cielo in un gesto di minaccia e d'odio.

Note

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  1. Da Edgar Poe, parte sesta

Bibliografia

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Voci correlate

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Altri progetti

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