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Ercole Ricotti

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Ercole Ricotti

Ercole Ricotti (1816–1883), storico e politico italiano.

Citazioni di Ercole Ricotti

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  • Addì 5 agosto del 1529 fu conclusa in Cambrai tra il re di Francia[1] e l'Imperatore una pace definitiva: la quale liberò il Piemonte dagli stranieri, e porse alcun sollievo a' mali ond'era oppresso. Ma, procurando a Carlo V la padronanza della Lombardia, gli rese senza contrasto serva l'Italia.[2]

Storia delle compagnie di ventura in Italia

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Gli ordini della romana milizia, stati per dieci secoli strumento alla conquista del mondo, dopo essersi a mano a mano infievoliti, al minar dell'impero scomparvero affatto. Nuovi ordini, nuovi linguaggi, nuovi modi di vivere e pensare, nuovi elementi di futura civiltà arrecarono nelle loro invasioni i popoli settentrionali. A' Greco-romani successero i Longobardi, a' Longobardi i Franchi, a' Franchi Ungheri, Saraceni, Normanni e il sistema feudale unificato nel nome dell'impero. Sotto il qual nome nati e cresciuti i Comuni, sciolsero al vento non più veduti vessilli. Mercenarie armi poi la turbolenta libertà, che essi rappresentavano, abbatterono e spersero, per aprire il varco a quelle compagnie di ventura, le cui origini, vicende ed effetti siamo per narrare.

Citazioni

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Volume I

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  • Un diritto regolava ne' Longobardi la ragion criminale, e tenea viva nel popolo la natural ferocia e l'uso delle armi, il diritto della faida o vendetta, comune a tutta la stirpe germanica. Estendevasi l'obbligazione della faida al settimo grado di parentela o ginocchio: soltanto vendetta o composizione la estingueva. Nell'uno e nell'altro caso, come vedesi, non la pubblica legge, ma il privato sforzo degli offesi raffrenava il colpevole: la vendetta era la restituzione materiale dell'ingiuria; la composizione era un temperamento della vendetta, cui l'interesse individuale avea trovato, la legge autenticava. (vol. I, cap. I, p. 6)
  • L'essenza originale della feudalità fu la disunione e lo spopolamento. Dove l'azione del governo è forte e rigogliosa, facili le comunicazioni, fiorente l'agricoltura, proporzionate le sorti degli abitanti, il governo da se medesimo pel naturale istinto delia propria conservazione studia a pareggiare i sudditi in un eguale obbedire. V'ha un capo, v'hanno sotto di lui degli officiali; sonvi infine degli amministratori e degli amministrati, non de' padroni e de' sudditi. Rivulgansi al contrario quelle condizioni: abbiasi un grande Stato rotto in provincie lontane, disformi di costumi, d'instituzioni, di suolo; pochi abitanti, alcune città e piccole, un po' di côlto intorno ad esse, poi vasti deserti, paludi e selve; parte della popolazione nemica o sospetta alla restante; questa conquistatrice con grandi brame e insolenze, l'altra conquistata con molto terrore e miserie: uno Stato simile non si potrà tenere che dividendolo in parti, assegnando queste parti a uomini che le reggano ed usufruitine per proprio conto sotto certe leggi generali, e ne rendano al governo determinati servigi e tributi. Spogliasi cosi il principe del pensiero e della facoltà di migliorare quelle provincie staccate e di trarne maggior frutto (pregio proprio d'ogni buon reggimento): ma non è men vero che bandisce eziandio da sé il sospetto di perderle affatto, e si assicura un'entrata precisa di servigi e denaro. (vol. I, cap. I, pp. 18-19)
  • Ungheri, Saraceni, Normanni non furono i soli venturieri, che militassero per mercede in Italia prima dell'instaurazione de' Comuni. La piaga de' mercenarii era realmente ingenita a qualsiasi reggimento feudale. Infatti, quando i vassalli ribellavansi in massa, quali altre forze se non se le stipendiarie, poteva il principe adoperare a soggettarli? Ed essendo il servigio feudale limitato per tempi e luoghi, quali altre armi, oltre quelle, potean vegliare nella stagione di pace alla persona di lui, alla esecuzione degli ordini più delicati, alla guardia de' luoghi più cari, infine all'adempimento d'imprese non contemplate ne' patti d'infeudazione? Né da questa necessità furono esenti i principi di stirpe normanna: ma allorché le grandi venture e gli splendidi guadagni della conquista furono cessati, e i discendenti di Guiscardo e di Ruggiero presero a regnare sopra sudditi, lasciando il primeggiare tra compagni, apparvero nel regno le armi mercenarie; e qual re cominciò a ricettare a soldo venturieri nostrali e francesi, quale a mantener di continuo co' denari suoi proprii le squadre armate di questo o quel barone. Gli effetti di siffatto consiglio furono quali quest'istoria nostra per lunga serie di esempi mostrerà: abbiezione da una parte, insolenza dall'altra: or gli stipendiarii unirsi a' sudditi per imprigionare il re; ora innalzare con sovversione dello Stato uomo indegnissimo a massimo potere: ora star devoti all'obbedienza d'un eunuco, e quest'eunuco aver la somma delle cose; ora far massa con altri venturieri accorsi di Spagna al rumor de' tumulti. (vol. I, cap. III, pp. 103-104)
  • Due principii erano nati nel mondo quasi ad un tempo, cristianesimo e impero. Sotto di essi, trascorse le invasioni barbariche, s'era per più secoli tenuta insieme l'Europa: sotto di essi s'erano assestati altri principii, come a dire la feudalità, le crociate, la cavalleria. Sa ognuno come papa Leone pervenisse a riunire in certo modo nelle proprie mani i due poteri mediante la coronazione di Carlomagno. Giunse tempo in cui la troppa intrinsechezza generò discordia; perché quando si volle distinguere l'emanazione di un principio dall'emanazione dell'altro, entrambe si trovarono aggruppate in una sola persona: sicché non si potendo dividere, si tentò di rapire. L'impero volle arbitrare nelle elezioni dei vescovi; il papa volle disporre dell'autorità temporale unita nella persona del vescovo alla spirituale. Sorse allora una lotta, che entrambi i poteri forte scrollò. Vinse alla fine la Chiesa; la quale oltre la unità delle sue credenze, s'era appoggiata a un nuovo elemento di forza, la rigenerazione dell'Italia. (vol. I, cap. VII, pp. 245-246)

Volume II

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  • Era principal consigliere nell'esercito imperiale un Uguccione dalla Faggiuola stato poc'anzi vicario di Enrico a Genova. Una selvaggia rocca presso Rimini era stata culla e retaggio a cotest'uomo di animo e di corpo gigantesco: ma in breve l'industria e il valor suo l'avevano innalzato al comando della fazione ghibellina della Romagna e della Toscana. (vol. II, cap. I, p. 9)
  • Militando e trafficando aveva Castruccio passato la gioventù parte in Inghilterra presso un ricco parente, parte in Francia nella compagnia di Alberto Scotto. Essendo stato rimesso in Lucca insieme cogli altri fuorusciti ghibellini per opera d'Uguccione, fu de' più ardenti ad acquistargliela, e de' più forti a confermargliela nella battaglia di Montecatini. Lo avevano poi rinchiuso in carcere, per cagione di certi ladronecci e omicidii commessi in Lunigiana. Di quivi il popolo lo trasse fuori, per balzarlo con un Pagano de' Quartigiani al governo della patria. (vol. II, cap. I, pp. 12-13)
  • Savio parlatore, accorto maneggiatore delle persone, sapeva Castruccio unire in sé ottimamente le doti militari e le civili. Primo a ferire i nemici, ad ascendere le mura, a guadare i fiumi; facile coi soldati, ed amato in modo che la sua sola presenza bastò talora a rintegrare una zuffa o sopire un tumulto; col serbare viva la guerra condusse in capo a quattro anni i cittadini [di Lucca] a darsegli in signoria ereditaria. Quindi ogni pericolo, ogni vittoria esteriore gli furono mezzo a rassodare dentro vieppiù la sua possanza. (vol. II, cap. I, p. 13)

Volume III

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  • [Francesco Bussone] Carmagnola, non dispregevole terra del Piemonte, gli diè nome e oscuri natali verso il 1390. Invogliato al mestiere [3] del soldo dal luccicore delle armi e dalle parole d'un venturiero Tendasco, ancora imberbe lasciò di pascere le vacche, e seguitollo sotto le insegne di Facino Cane. Gagliardo animo in gagliardo corpo, costanza, ardore ad ogni pericolo, furono le doti che gli acquistarono in breve la stima del suo capitano; pur non ne poté mai ottenere una condotta maggiore di dieci cavalli; e di ciò avendo taluno mosso rimprovero a Facino: «costui è tale, (rispose lo scaltro condottiero, alludendo al Carmagnola), che come abbia gustato un pò d'onori non fia mai che s'acqueti; né hacci peggio arroganza di quella dei villani». (vol. III, cap. I, p. 11)
  • [...] quella tanta alacrità, quella indomabile energia del Piccinino partiva da un corpo piccino, zoppo, paralitico e pieno d'altri malanni, cosicché nel camminare doveva sovente farsi sorreggere da due servi, e con grave stento poteva venir messo a cavallo. Né la facondia gli compensava punto la perversa disposizione delle membra: anzi narrasi che nelle consulte era ben raro, che gli escisse di bocca altro che un qualche magro «mi pare». L'animo adunque, l'amino solo invitto trionfava nel Piccinino con perpetua battaglia delle esili forze del corpo; laonde forse quella sollecitudine nel disegnare, quell'impeto tutto suo nel compiere una impresa nasceva in lui appunto dal sentire, come la lena gli mancasse a più diuturna contenzione, e gli fosse perciò uopo di lanciare un forte colpo, e poi riposarsi. (vol. III, cap. IIII, pp. 102-103)
  • [...] ben diverso da lui [Niccolò Piccinino; fu] Francesco Sforza. Maschio animo in maschio corpo, fermo, costante, calcolativo; il disegno concepito una volta eragli in mente come fiaccola, che lo illuminava ed accendeva a ridurgli intorno ogni opera, ogni detto, ogni pensiero; la virtù, se non era ostacolo, volentieri abbracciata, se ostacolo, quasi virtù non fosse, messa in disparte: il male, non mai per abito o scopo, bensì come mezzo necessario accettato: amore ed odio non isconosciuti, ma sottomessi agli intenti: gli intenti poi grandi di grandezza comune, cioè conquista e potenza. (vol. III, cap. IIII, p. 103)
  • [...] Bartolomeo Colleoni, veggendosi impedito dalla fortuna di perpetuare nei proprii figliuoli e nipoti quel nome, di cui era tanto geloso, pensò di immortalarlo con opere di beneficenza, le quali per lui ricchissimo ed alieno dalle vive faccende e dai caldi affetti diventavano in certo modo come un necessario sfogo. Perciò eresse un tempio alla Basella, fabbricò due monasteri a Martinengo, stabilì a Bergamo un luogo pio di 3000 ducati d'entrata per maritare donzelle, ornò di rari marmi e della propria statua la cappella di S. Giovanni Battista su quella piazza, costrusse e destinò ad uso pubblico una gran parte della propria terra di Rumano, donò alla città di Bergamo i bagni solforosi di Trescore ed il canale dei mulini. Tutto ciò rimase a prova della bontà e della potenza di cotest'uomo, a cui la pace, anziché levare, aggiunse lode e autorità. (vol. III, cap. VI, pp. 211-212)
  • Morì il Colleoni di grande età, compiuto quasi il quintodecimo lustro, ma tuttavia così robusto, che passeggiava ogni mattina pel tratto di ben cinque miglia. Ebbe occhi neri e penetranti, corporatura diritta, alta e ben complessa, pelame anziché no fosco e sanguigno: nei lineamenti poi, nell'andare, nell'atteggiarsi una certa virile bontà gli traspariva, che al primo tratto si conciliava riverenza ed affezione. La universal voce lo tacciava di soverchia propensione verso le femmine; e già dicemmo de' suoi amori colla regina Giovanna.[4] (vol. III, cap. VI, p. 213)

Citazioni su Ercole Ricotti

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  • Fin dal settimo anno cominciò in lui ardentissima la smania del leggere; quanti libri in casa e fuori venivangli tra le mani avidamente divorava, anche se di teologia o di medicina, anche Dante senza commenti. Da sé cominciò ad imparare il francese, senza aiuto di grammatica e di dizionario, ingegnandosi d'intendere il Candido del Voltaire, del quale scrittore piacevagli sommamente allora e piacquegli anche più tardi la romanzesca Storia di Carlo XII; libri preferiti in quelle furiose ed arruffate letture il Robinson Crusoe e Plutarco, non le vite piene di strepitosi trionfi, ma quelle degl'integri e degli austeri, di Aristide, di Focione, di Fabio, di Catone.
  • L'animo del Ricotti si ribellava alle volgari compiacenze; si sdegnava nel vedere uomini mediocri usurpare fama nella scienza e nella politica. Altri sarebbe andato innanzi per il proprio cammino con un amaro sorriso sulle labbra e il disgusto nel cuore: egli sentiva prepotente il bisogno di sfogare questo disgusto, di stendere là mano a sfrondare allori non conquistati con la fatica e col merito. Questi sfoghi potevano forse trarre in inganno sull'indole del Ricotti chi non conoscevalo da vicino; ma chiunque ebbe dimestichezza con lui sa com'egli s'inchinava al vero merito, a questo voleva si largissero lodi e onori, s'adoprava, per quanto stava in lui, a procacciarli, ed era pieno di contentezza quando riusciva nel suo desiderio.
  • Un libro di memorie della propria vita, scritto dal Ricotti negli ozii della campagna nel 1875, fu per desiderio suo e dei congiunti destinato alla stampa dopo la sua morte. [...].
    Scrivere la propria vita, anche volendo che il libro sia opera postuma, è cosa immodesta se la vita dello scrittore non merita che altri spenda il tempo a leggerla; peggior cosa se l'autobiografia ebbe altri fini che la narrazione sincera dei proprii fatti. Ma la vita del Ricotti, come vita di un uomo di studio in un periodo notevole della storia civile e letteraria del Piemonte e dell'Italia, come vita di un uomo, che, se non cooperò largamente, ebbe tuttavia qualche parte alle pubbliche faccende nel nostro risorgimento, e sopra tutto come vita da aggiungere ai confortanti esempii del volere è potere, è una vita, che si legge con diletto non solo, ma anche con profitto.

Note

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  1. Francesco I di Francia.
  2. Da Storia della monarchia piemontese, vol. I, G. Barbèra Editore, Firenze, 1861, libro II, cap. II, pp. 174-175.
  3. Nel testo "mestiero".
  4. Giovanna II d'Angiò-Durazzo, nota anche come Giovanna II di Napoli (1371 – 1435).

Bibliografia

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Altri progetti

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