Gustaw Herling-Grudziński

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
(Reindirizzamento da Gustaw Herling)
Gustaw Herling-Grudziński in una foto segnaletica scattata dall'NKVD nel 1940

Gustaw Herling-Grudziński (1919 – 2000), scrittore e saggista polacco.

  • [Su Franz Kafka] Includere questo scrittore profondamente metafisico, a momenti addirittura mistico, nella categoria degli "atei ostinati" (come fece Kolakowski) è un non senso imperdonabile. (dall'articolo Franz Kafka: la colpa infinita, Corriere della sera, 12 gennaio 1994)

Ritratto veneziano[modifica]

Incipit[modifica]

Ho letto ieri tra i necrologi del «Corriere»: «A Venezia, nella sua casa di Calle San Barnaba, è deceduta all'età di 87 anni la Contessa Giuditta Terzan. Si è addormentata per sempre, in pace con Dio. Ne dà notizia a Roma, la sorella Giovanna Olindo. Si prega di non disturbare con condoglianze la sommessa dipartita della defunta».[1]

Citazioni[modifica]

  • A mio parare l'autentica possessione è proprio un amore autentico per il Male.
  • Come riaffluiscono all'improvviso i ricordi lontani? Per ciascuno forse in maniera diversa, in me assumono la forma di una tempesta caotica e violenta.
  • La consuetudine vieta che a un epilogo segua anche un commento: un racconto, per quanto breve, dovrebbe parlare da sè.

Un mondo a parte[modifica]

Incipit[modifica]

Sul finire dell'estate del 1940, mi trovavo a Vitebsk. Nei po­meriggi la luce del sole s'indugiava sulle pietre del cortile della prigione, e poi scompariva dietro la facciata rossa dell'edificio vicino. Suoni familiari dal cortile ci raggiungevano dentro la cel­la: il passo pesante dei prigionieri che si avviavano al reparto dei bagni, misto a parole russe di comando e al tintinnio delle chia­vi. Nel corridoio, il guardiano canticchiava sotto voce; ogni tanto metteva da parte il suo giornale, e, con la debita calma, si ac­costava al finestrino ovale della porta della cella. Come a un segnale dato, duecento paia d'occhi smettevano di contemplare con indifferenza il soffitto, e concentravano gli sguardi sul pic­colo vetro della spia. Un occhio enorme penetrava nella cella, si posava in giro su ciascuno di noi, e scompariva; lo sportello di stagno che ricopriva il vetro dall'altra parte tornava al suo po­sto... Tre calci contro la porta significavano: "Preparatevi per il pranzo".

Citazioni[modifica]

  • Due calci alla porta facevano smettere il chiacchierio, e gruppi di prigionieri guidati dai loro capi spirituali marciavano incolonnati nel corri­doio e si affollavano intorno al secchio della minestra. Ma un giorno un bruno ebreo di Grodno giunse nella cella, e piangen­do amaramente annunciò che Parigi era caduta. Da quell'istante i commenti patriottici a bassa voce e le discussioni politiche sui pagliericci ebbero fine. (cap. I, p. 19)
  • "In uno stato normale," disse, "gli uomini sono liberi di esser contenti, abbastanza contenti, o scontenti. In uno stato in cui si suppone che tutti siano contenti, nasce il sospetto che nes­suno lo sia. In ciascuno dei casi, noi formiamo un solido tutto." (cap. I, p. 32)
  • In altri paesi e in altre condizioni, in prigioni normali, il luogo di questo breve grido di disperazione è tenuto da una vera preghie­ra o dalla sottrazione di un giorno dalla condanna totale, perché è fin troppo comprensibile che un uomo, privato di tutto tranne che della speranza, incominci la sua giornata volgendo i pensieri alla speranza. I prigionieri sovietici sono stati privati perfino del conforto di sperare, perché nessuno di essi può mai sapere con certezza se la sua condanna avrà fine: e può ricordare centinaia di casi in cui le condanne sono state prolungate di altri dieci an­ni con un tratto di penna al Consiglio speciale della Nkvd a Mosca. Solo chi è stato in prigione può intendere tutto il crudele si­gnificato del fatto che, durante l'anno e mezzo che trascorsi nel campo, solo poche volte udii prigionieri contare ad alta voce il numero di anni, mesi, giorni e ore, che restavano ancora delle loro condanne. Questo silenzio si sarebbe detto un tacito accor­do a non tentare la Provvidenza: quanto meno parlavamo delle nostre condanne, quanto meno nutrivamo la speranza di mai riacquistare la libertà, tanto più sembrava probabile che "pro­prio questa volta" ogni cosa sarebbe andata bene. La speranza racchiude il tremendo pericolo della disillusione. Nel nostro si­lenzio, alquanto simile al tabù che proibisce agli uomini di alcune tribù primitive di pronunziare i nomi delle divinità vendicatrici, l'umiltà si univa a una segreta rassegnazione, e al presenti­mento del peggio. Il disinganno era un colpo mortale per un prigioniero privo di questa armatura contro il fato. (cap. III, p. 48)
  • Noi stessi avevamo cura di non essere privati di questa modesta illusione di libertà, perché ogni prigioniero sente la necessità di preserva­re qualche vestigio di una volontà propria. Dimenticando che la prima legge della vita del campo è l'autoconservazione fisica, noi consideravamo la nostra libertà di accettare l'illimitato sfruttamento del nostro lavoro quasi frutto di un accordo volontario, come un privilegio prezioso. Era un'eco della frase di Dostoev­skij: "La parola condannato non significa altro che un uomo pri­vato della sua volontà, e nello spender danaro una volontà pro­pria si esplica". Danaro non ne avevamo, ma potevamo mercan­teggiare i resti della nostra energia fisica, ed eravamo così prodi­ghi di essi come gli esuli zaristi dei loro copechi, quando si trat­tava di mantenere la minima apparenza della nostra umanità. (cap. III, p. 59)
  • Difendendosi contro un futuro ignoto, lottando nei lacci del pre­sente, si faceva responsabile di quel passato che gli era stato im­posto con la violenza. E forse, pochi attimi prima di morire, ave­va salvato la sua fede nella realtà e nel valore della sua esistenza estinta. (cap. III, 3, p. 72)
  • Nella situazione in cui ci trovavamo, parlar loro degli orrori del regime nazista era come dire a tre topi presi in una trappola che il buco più vicino nel pavimento porta a un'altra trappola. (cap. IV, p. 80)
  • L'intero sistema del lavoro forzato nella Russia sovietica – in tutti i suoi stadi: interrogatori, udienze, carcere preliminare, e infine il campo – è inteso principalmente non a punire il colpe­vole, ma piuttosto a sfruttarlo economicamente e trasformarlo psicologicamente. La tortura non viene usata negli interrogatori in base a un principio, ma come strumento ausiliario. Lo scopo reale di un'udienza non è di estorcere al prigioniero la firma a un'accusa fittizia, ma la disintegrazione completa della sua per­sonalità individuale. (cap. V, p. 82)
  • È doloroso scoprire che l'oggetto dei nostri pensieri e delle no­stre attese è insignificante e volgare quando lo si è infine rag­giunto: è meglio desiderare qualcosa di irraggiungibile che sape­re che si è avverata solo l'ombra dei nostri sogni. (cap. VIII, p. 131)
  • Coloro che aspetta­no ancora qualcosa dal futuro possono parlare di speranza; ma come si può infondere speranza in un uomo che è troppo debole anche per troncare le sue sofferenze? Come avrei potuto con­vincere quest'uomo fondamentalmente religioso, che implorava una rapida morte come la più grande benedizione da Dio, che il maggior privilegio dell'uomo è l'esser padrone della propria volontà anche in schiavitù, e che egli conserva pur sempre il diritto di far la sua ultima scelta tra il vivere e il morire? (cap. X, p. 166)
  • Tornai nella baracca e presi le Memorie da una casa di morti dal suo nascondiglio sotto la tra­ve smossa. Mi dispiaceva di dover restituire quel libro, poiché esso mi aveva aperto gli occhi sulla vera realtà del campo, anche se ciò che vedevo ora aveva tutto l'aspetto della morte: ma ero insieme segretamente contento al pensiero che mi liberavo dello strano e distruttivo fascino di quella prosa, così piena di dispera­zione che la vita che raffigura è solamente l'ombra di una inter­minabile agonia di morte quotidiana. (cap. XI, p. 184)
  • C'è sempre posto per la speranza quando la vita diventa co­sì completamente disperata che nessuno ha presa su noi; allora apparteniamo a noi stessi... Capisce? Diventiamo padroni asso­luti delle nostre vite... Quando non c'è speranza di salvezza in vista, non la più sottile breccia nelle mura che ci circondano, quando non possiamo levare la mano contro il destino proprio perché è il nostro destino, c'è una sola cosa che ci resta: rivolge­re quella mano contro noi stessi. (p. 184)
  • Nulla conforta un cuore che soffre quanto la vista della sofferenza altrui; e nulla toglie la speranza quanto il pensiero che solo pochi privilegiati hanno diritto a essa. (cap. XIII, p. 217)
  • Al di sotto di un certo livello di vita l'uomo si lega con un attaccamento fatalistico alla sua mise­ria e tratta con diffidenza ogni occasione di miglioramento; l'amara esperienza gli ha insegnato che il mutamento può esser solo per il peggio. "Lasciatemi in pace," sembra dire. "Voglio soltanto continuare a vivere." Si può trarre da ciò la conclusione conservatrice che nessuno può esser reso felice contro la sua volontà, il che è in un certo senso esatto; la felicità non è mai la stessa per colui che la riceve e per colui che la dà. (cap. XIII, p. 218)
  • Migliaia di uomini in tutto il mondo combattono per diverse ragioni, senza sapere che anche la possibilità della sconfitta, se soltanto può as­sumere il carattere del martirio, diviene gloria e conquista. Gli uomini sconfitti in una lotta solitaria per qualcosa in cui essi cre­dono prendono su di sé volontariamente il carico del martirio come amara ricompensa della loro solitudine. Ma disgraziatamente sono assai pochi coloro la cui resistenza fisica può andare di pari passo con la forza della loro determinazione. (cap. XIII, p. 223)
  • Al corpo di guardia, in presenza di un ufficiale della terza se­zione, firmammo il testo di un telegramma al professor Kot, l'ambasciatore polacco, che allora esercitava le sue funzioni a Kujbyšev, e poi, ancora scortati da Zyskind, ci muovemmo verso il piccolo ospedale aperto di recente all'altro capo del recinto. Camminavamo appoggiandoci l'uno all'altro, eppure leggeri, co­me se in qualsiasi momento potessimo sollevarci dalla terra. Ca­deva una neve fitta, che ricopriva le baracche fino alle finestre illuminate. Tutto era calmo, vuoto e pace. (cap. XIII, p. 231)
  • Dovevo essere un triste spettacolo, accovacciato su una tavola gelata, con la mia camicia svolazzante al vento, guardando fuori alla tempesta di neve che soffiava sulla pianura, con gli oc­chi pieni di lacrime, di dolore, ma anche di orgoglio. (cap. XIII, p. 232)
  • Il duro prezzo della pace completa e dell'ozio era la perdita irrevocabile di ogni speranza. Nessuno, pensando alla baracca alla quale, prima o poi, conducevano tutti i sentieri del campo, avrebbe osato confrontare il suo ozio senza scopo con la quiete di un ospedale. (cap. XIV, p. 234)
  • È uno sbaglio credere che solo chi è stato un mendicante possa capire la miseria e la sofferenza dei suoi antichi compagni. Al contrario, niente disgusta di più un uomo, e lo incita alla ribellione, del quadro della sua condizione umana portata al punto estremo di degradazione, apparsogli im­provvisamente davanti agli occhi. (cap. XIV, p. 240)

Explicit[modifica]

"[...] Mio Dio, cer­tamente uno degli incubi maggiori di tutto il sistema sovietico è questa mania di voler liquidare le loro vittime con tutte le for­malità legali... Non basta conficcare una pallottola nella testa di un uomo, deve egli stesso chiederla cortesemente al processo. Non si contentano di costringere un uomo a una feroce finzione, ma devono avere testimonianze per provarla. La Nkvd non mi nascose che sarei stato rimandato alla foresta se rifiutavo... dovevo scegliere fra la mia stessa morte e quella di quei quattro..."
Si versò ancora vino e con mano tremante portò il bicchiere alle labbra. Attraverso le palpebre abbassate vedevo il suo viso sudato e terrorizzato.
"Scelsi. Non ne potevo più della foresta e di quella terribile lotta quotidiana con la morte. Volevo vivere. Testimoniai. Quat­tro giorni dopo essi furono fucilati fuori del recinto."
Stavamo tutti e due in silenzio. Egli mise il bicchiere vuoto sul tavolo e si rannicchiò sul letto, come aspettando un colpo. Dall'altra parte del muro una stridula voce di soprano cantava una strofa di una canzone italiana e si fermò d'un tratto, inter­rotta da un'imprecazione. Faceva un po' più fresco, ma io riusci­vo quasi a sentire gli pneumatici surriscaldati delle macchine che si staccavano dall'asfalto attaccaticcio con un leggero cigolio.
"Se raccontassi questa storia a qualcuna delle persone in mezzo a cui adesso vivo non mi crederebbe, oppure, se mi credesse, si rifiuterebbe di stringermi la mano. Ma tu devi sapere a che punto ci hanno trascinati, quanto ci hanno avvilito. Di' solo che capisci..."
Sentii il sangue affluirmi alla testa. Immagini e ricordi si affollarono davanti ai miei occhi. A quel tempo, tre anni dopo aver lasciato la Russia, quando cercavo di scacciarle dalla mia mente per poter conservare la fede nella dignità umana, quelle immagini erano confuse e indistinte, mentre ora che ho final­mente riconquistato un po' di pace, le considero con distacco ed esse sono chiare ma completamente lontane. Avrei potuto pro­nunziare la parola che egli mi chiedeva, il giorno dopo la mia li­berazione dal campo. Forse avrei potuto. Ma nel 1945 avevo già tre anni di libertà dietro di me, tre anni di vagabondaggi militari e battaglie, tre anni di sentimenti normali, amore, amicizia, simpatia... I nostri giorni di vita non sono come i nostri giorni di morte, e le nostre leggi di vita, non sono le nostre leggi di morte. Ero tornato in mezzo alla gente, con criteri e concetti umani, e dovevo adesso fuggirne via, abbandonarli, tradirli volontaria­mente? La scelta era la stessa: allora era stata fra la sua vita e quella dei quattro tedeschi, adesso era fra la sua pace e la mia pace. No, non potevo dirlo.
"Allora?" chiese piano.
Mi alzai dal letto e senza guardarlo negli occhi andai verso la finestra. Voltando le spalle alla stanza, lo sentii uscire e chiudere adagio la porta. Tirai su la tenda. Su piazza Colonna una fresca brezza leggera nell'aria pomeridiana aveva raddrizzato i passan­ti, come avrebbe fatto su un campo di grano piegato a terra dal­la siccità. Americani e inglesi ubriachi camminavano lungo i marciapiedi, spingendo via gli italiani, raccogliendo ragazze, cer­cando ombra sotto le tende a strisce dei negozi. Sotto le colonne del fabbricato d'angolo il mercato nero era in piena attività. I "lazzaroni" romani, piccoli laceri figli della guerra, scompariva­no e ricomparivano tra le gambe di negri enormi in uniforme americana. La guerra era finita un mese prima. Roma era libera, Bruxelles era libera, Oslo era libera, Parigi era libera. Parigi, Pa­rigi, Parigi...
Lo seguii con lo sguardo mentre usciva dall'albergo: saltella­va attraversando la strada come un uccello con un'ala spezzata, e scomparve nella folla senza guardarsi indietro.

Bibliografia[modifica]

  • Gustaw Herling, Un mondo a parte, traduzione di Gaspare Magi riveduta dall'autore, Feltrinelli, 1994. ISBN 8807014645
  • Gustaw Herling, Ritratto veneziano, Feltrinelli Editore, 1995.

Altri progetti[modifica]

  1. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937