Migrazione umana

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Citazioni sulla migrazione umana.

Citazioni[modifica]

  • Era vero. Il diritto al viaggio e alla mobilità era solo per gente che aveva un passaporto forte e poteva oltrepassare la frontiera. Per gli altri il viaggio era solo morte, sciagura, frontiere che diventavano muri. (Igiaba Scego)
  • Migrare è un gesto totale ma anche molto semplice: quando un vivente in un posto non può sopravvivere, o muore o se ne va. Umani, tonni, cicogne, gnu al galoppo nella savana: le migrazioni sono come le maree, i venti, le orbite dei pianeti e il parto, tutti fenomeni che non è dato fermare. Certo non con la violenza, seppure sia diffusa questa illusione. (Francesca Melandri)
  • Non parliamo di migrazioni solo quando vi fa comodo, perché guardate che gran parte di quelle migrazioni è legata ai cambiamenti climatici. (Marco Grimaldi)
  • Storie di migranti. Quelle che ho visto con i miei occhi. Extracomunitari che alle cinque del mattino, arrivati chissà da che parte della città, attraversano il parcheggio – in un'alba che non vuole arrivare, in un buio che persiste, all'ora che era del risveglio dei nostri nonni contadini -, attraversano la rotaia, superano lo svincolo, scavalcano il guardrail, proprio come stiamo facendo noi ora, e aspettano i furgoni dei caporali che li porteranno nei cantieri meneghini, a fare più bella, più moderna, una città che di giorno non li vuole fra i piedi, ma di notte chiede loro di svegliarsi, di scendere dalla branda per venire qui al mercato delle braccia. Storie di lavoro nero, di lavoro occultato. (Gianni Biondillo)

Kingsley Davis[modifica]

  • Gli esseri umani hanno sempre compiuto migrazioni: tra 100 000 e 400 000 anni fa, il predecessore dell'uomo, l'Homo erectus, si diffuse dalla Cina e da Giava sino all'Inghilterra e al sud Africa. Più tardi, gruppi di uomini di Neanderthal attraversarono l'Europa, il nord Africa e il Vicino Oriente; il moderno Homo sapiens, originario probabilmente dell'Africa, raggiunse Sarawak almeno 40 000 anni fa, l'Australia circa 30 000 anni fa, e il nord e sud America più di 20 000 anni fa. Escludendo le zone artiche, l'uomo paleolitico raggiunse tutte le più importanti regioni del globo e, fatta eccezione per le specie animali che lo seguivano nelle migrazioni, la sua diffusione fu più ampia di quella di qualsiasi altra specie terrestre.
  • La presente marea migratoria dalle nazioni in via di sviluppo a quelle industrializzate può raggiungere un massimo e poi ridursi, ma se così sarà, sarà sostituita da altri tipi di migrazione. Sebbene le particolari correnti migratorie siano temporanee, la pressione alla migrazione è perpetua perché è inerente alla disparità tecnologica.
  • Man mano che i paesi in via di sviluppo divengono più sovraffollati, aumenterà la pressione per ottenere l'accesso ai paesi industrializzati, se non altro per motivi umanitari. Nell'insieme, tuttavia, i problemi dei paesi in via di sviluppo non possono essere risolti con l'emigrazione. Se le nazioni industrializzate cercassero di accettare come immigrati gli abitanti in eccesso di questi paesi, esse dovrebbero ammetterne 53 milioni all'anno. Questo darebbe loro un tasso di crescita della popolazione del 5,2 per cento all'anno che, aggiunto al loro naturale aumento dell'1,1 per cento all'anno, raddoppierebbe la loro popolazione ogni 11 anni.
  • Poiché questa tendenza alla migrazione è esistita in tutte le epoche, la sua spiegazione richiede una teoria indipendente dal periodo storico particolare. La mia opinione personale è che il motivo costante sia la stessa caratteristica che spiega la peculiarità dell'uomo in molti altri campi, e cioè il suo adattamento socio-culturale. Con la crescita e la diversificazione della cultura, si sviluppò uno stimolo profondo e tipicamente umano alla migrazione, rappresentata dall'ineguaglianza tecnologica fra un gruppo territoriale e un altro. Nello stesso tempo la possibilità di migrare fu accresciuta dalla capacità dell'uomo di adattarsi culturalmente a nuovi ambienti senza attendere il lento processo dell'evoluzione organica.

Donatella Di Cesare[modifica]

  • Considerare il migrante dalla riva, anche soltanto per perorarne il liberale diritto di movimento, equivale a rinsaldare la barriera tra "noi" e "loro", il confine tra residenti e stranieri. Soprattutto vuol dire non mettersi dalla parte del migrante, non vestirne i panni, non assumerne il punto di vista.
  • Il migrante smaschera lo Stato. Dal margine esterno ne interroga il fondamento, punta l’indice contro la discriminazione, rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. E perciò spinge a ripensarlo. In tal senso la migrazione porta con sé una carica sovversiva.
  • Il migrare antico, che non sa ancora di nostalgia, né di sdoppiamento, ripristina in un altrove la precedente forma di vita, senza che il mutamento di luogo abbia effetti sul sé e sulla sua introspezione. Ecco perché il carattere collettivo si impone anche quando a spostarsi è il singolo, che resta comunque protetto, non esposto alla spazialità vertiginosa della migrazione moderna.
  • La migrazione, nelle forme e nei modi in cui si manifesta nel nuovo millennio, è fenomeno della modernità. Perché è strettamente legata allo Stato moderno. Nell’intento di vigilare le proprie frontiere, custodire il territorio, controllare la popolazione, sono gli Stati-nazione a discriminare, a segnare la barriera tra i cittadini e gli stranieri. Questo non vuol dire che imperi, monarchie, repubbliche del passato non difendessero i propri confini, ben più blandi e incerti, tuttavia, di quelli giuridicamente stabiliti e militarmente sorvegliati dallo Stato moderno.
  • Migrare non è un dato biologico, bensì un atto esistenziale e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciuto.
  • Migrare non è un semplice movimento, ma uno scambio complesso di luogo che si compie nell’incontro con lo straniero. Chi emigra non chiede di circolare liberamente per il pianeta ; spera piuttosto di essere infine accolto. Il suo è un gesto esistenziale e politico che ha una carica sovversiva.
  • Non mancano nel passato forme diverse di spostamento, dal nomadismo alle conquiste militari, dalle invasioni ai viaggi audaci e avventurosi, sino alle prime vere e proprie fondazioni di colonie. In tutte queste forme domina la collettività: a muoversi è il gruppo che intende stabilire o ampliare il dominio su un territorio. Il singolo partecipa a un agire collettivo, non necessariamente unanime, in cui la sua meta è quella degli altri, è anzi quella di un riconosciuto capo politico o militare.
  • Per i figli della nazione, che sin dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentrica, ancora ben salda e dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato.

Stefano Liberti[modifica]

  • A differenza dei discorsi ufficiali che si fanno in tutto il Nord Africa, dalla Libia al Marocco passando per l'Algeria, in cui i sub-sahariani vengono stigmatizzati in quanto portatori di miseria e malattie, l'emigrazione di transito genera ricchezza e occupazione.
  • I migranti frequentano luoghi precisi, si riuniscono in posti definiti. Lungo le rotte si è creata una specie di topografia del transito, per cui il viaggiatore conosce a menadito quali sono i punti di riparo; quali sono le città dove è opportuno fermarsi; dove sono i propri connazionali.
  • Il percorso era tracciato: andare, lavorare, accumulare e investire. Il fatto che alcuni di loro finissero inghiottiti dal mare o rimanessero bloccati a metà strada non li preoccupava. Esorcizzavano le paure ignorandole. E mostravano tutti un'ostinazione al limite dell'incoscienza. Risoluti ad andare fino in fondo, gli "avventurieri" non consideravano nemmeno lontanamente la possibilità di non arrivare a destinazione. "Non ci fermeremo mai. Se ci picchiano e ci sbattono in galera, torneremo ancora più convinti. Se ci rimpatriano in venti, torneremo in duecento".
  • Mi chiesi se non fosse, questo dell'immigrazione verso l'Europa e del suo contrasto, solo un grande teatrino. Da dove veniva questa sindrome dell'emergenza? Come si era diffusa questa idea di un'invasione imminente che andava fermata? Mi chiesi quanto anche noi giornalisti avessimo avuto e continuassimo ad avere una responsabilità nel dare forma e alimentare quello che mi pareva un gigantesco bluff. Il giornalista spagnolo mandato dal suo direttore in fondo alla Mauritania aveva tutto l'interesse a parlare di "esodo biblico" e a dar voce a chiunque avesse un approccio catastrofista, perché così il suo direttore non gli avrebbe rinfacciato di essere andato lì per niente. Era una grande mistificazione di cui facevamo parte anche noi, lì in quel momento, venuti a Varsavia [sede di Frontex] con il biglietto pagato da Bruxelles ad ascoltare funzionari incompetenti. Anche noi avremmo dovuto giustificare la trasferta ai nostri rispettivi direttori, anche noi avremmo scritto delle storie, anche noi avremmo finito per parlare dell'emergenza immigrazione. Anche noi ci saremmo resi responsabili, in qualche modo, della definizione della "Fortezza Europa", dell'edificazione di quel castello dalle pareti di cartone la cui inconsistenza si misurava proprio lì, in quella stanza uguale a mille altre di un grattacielo senza identità nel centro di Varsavia.

Voci correlate[modifica]

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