Mimmo Càndito

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Mimmo Càndito (1941 – 2018), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni[modifica]

  • La rivoluzione dei militari, e la conquista del potere da parte del colonnello Menghistu, hanno segnato la fine d'una dinastia: ma quanto alla fine d'un impero, è da dubitare che questa avvenga. Il colpo di stato del '74 ha portato certamente un duro attacco all'egemonia millenaria degli amhara, e la sua vittoria è stata la vittoria del Sud «nero» contro il Nord «bianco»: non soltanto nel senzo d'un trasferimento del potere nelle mani dell'etnia negra e meridionale degli oromo (o galla), alla quale appartiene lo stesso Menghistu: ma anche per il progetto di trasformazione sociale che sta alla base della nuova politica etiopica, dove rivoluzione significa soprattutto decolonizzazione.[1]
  • Come negli altri Paesi dell'Africa che hanno accettato l'aiuto e la presenza dei «tecnici» del mondo comunista, anche qui la divisione delle specializzazioni passa per una sorta di riserve nazionali: se ai cubani spetta l'addestramento agricolo e ai russi quello militare con le armi più sofisticate, i tedeschi dell'Est hanno competenza assoluta nel settore della propaganda, dell'informazione e della sicurezza.[2]
  • In tigrinya, ciao si dice ciao. E sedia, sedia. E tavolo, finestra, elettricista, pompa, lampadina, si dicono come da noi. L'elenco delle parole trasmigrate nella vita quotidiana è lungo per alcune centinaia di nomi, solo macchina si pronuncia macchìna, con l'accento sulla i: e i chicelts, con una bella invenzione figurata, si chiamano mastica, anche questo con l'accento sulla i. La contaminazione linguistica non esclude che il tigrinya abbia anche i suoi termini originali, ma l'uso comune della parola italiana ha finito per soppiantare il vecchio vocabolo e creare l'abitudine all'assimilazione del termine straniero.[3]
  • Le parole italiane usate ogni giorno sono solo un piccolo segnale di superficie, più sotto, nella coscienza collettiva, filtra e si muove il flusso di una memoria «nazionale» che rimanda agli anni della colonia i primi germi di una società più consapevole di sé e della propria identità, sicuramente distinta dalla società pesantemente feudale che era l'Etiopia a quel tempo, e che largamente lo è ancora.[3]
  • I sovietici ne hanno fatto il caposaldo della loro avventura africana; le hanno dato armi per duemila miliardi di lire, coltivano l'approdo di Daklah con l'attenzione ossessiva delle teste di ferro, vi hanno portato uomini, generali e rubli. Da questo altopiano verde, dove gli animali pascolano e uccidono come ancora in un paradiso terrestre, si dominano le tentazioni di mezzo mondo: il continente gli sta tutto di sotto e alle sue pendici s'appoggiano il Medio Oriente e il teatro armato del Golfo. La storia sarà obbligata a passare per la strada di Salomone.[2]
  • La fuga di Menghistu non chiude soltanto 14 anni di potere dittatoriale in uno dei tanti itinerari illusori del socialismo africano. [...] Dietro questa fuga si prepara anche la chiusura residua della decolonizzazione africana.[4]
  • La caduta del muro di Berlino ha fatto un tonfo capace di scuotere anche l'intero continente africano. I socialismi tropicali vanno perdendo, uno dietro l'altro, le ragioni del loro lungo potere, e nei fallimenti di una politica intessuta di sole buone intenzioni e di qualche aiuto dall'Urss vengono giù ora anche gli uomini e i governi che questa politica l'hanno retta. Menghistu è l'ultimo nome di una lista ancora provvisoria.[4]
  • Barre resta nella memoria del tempo come il simbolo amaro del fallimento di un ideale: e però anche in questo, probabilmente, la dimensione che l'analisi politica gli attribuisce supera di molto la taglia reale dei vecchio capopolo, che era un abile distributore di favori e di prebende più che un autentico leader politico.[5]
  • La morte del Negus, il Derg Rosso, e poi la guerra dell'Ogaden, rovesciarono il quadro delle alleanze internazionali, con l'Etiopia che passava ora nel campo sovietico e la Somalia che se ne tornava invece in braccio agli americani: ma l'abilità politica di Barre fu tutta nel saper sfruttare questo dovere di riequilibrio nelle zone d'influenza dei due Grandi, e nel servirsene per sopravvivere alla guerra perduta.[5]
  • Karzai è un uomo perfetto per il ruolo che la conclusione dell'ultima guerra afghana gli sta assegnando. Ha una storia militare ineccepibile, essendo stato uno dei comandanti mujaheddin più prestigiosi, al tempo della guerra contro gli «shuravì» sovietici: non soltanto li sconfisse ripetutamente sul campo, con l'abile gestione della guerra di guerriglia nel territorio che lui meglio conosce, quello di Kandahar, ma riuscì anche a liberare la città con un abile stratagemma senza doverla conquistare a costo d'un sanguinoso attacco diretto contro l'Armata Rossa.[6]
  • I 18.000 soldati americani che tuttoria hanno guarnigione in Afghanistan (più le basi militari prese in affitto dal Pentagono in Uzbekistan e Tajikistan) lasciano credere legittimamente che l'interesse di Washington andava, e va, ben oltre lo smantellamento delle basi di Al Qaeda. E che – come i carri dell'Armata Rossa erano la trasposizione moderna delle fanteria dello Zar di tutte le Russie – allo stesso mondo non pare distorsivo vedere nei marines la proiezione modernizzata di quel Grande Gioco che vide il piccolo Kim scoprire come nella ruota della vita del suo Lama girassero le trame d'una lotta che può decidere la sorte del mondo.[7]
  • [Sulla Repubblica Islamica dell'Afghanistan] Al di là del comprensibile desiderio di Bush di attribuirsi un successo magnificando «la libertà ritrovata» del popolo afghano, resta sul terreno la realtà d'una situazione politica e militare assai più problematica, dove i taleban possono costituire tuttora una minaccia destabilizzante in molte regioni del Sud, dove il traffico della droga insidia qualsiasi progetto credibile di controllo dell'ordine pubblico, e dove il ruolo del presidente Karzai si mostra tuttora fortemente condizionato dalla sopravvivenza del potere concreto che in molte aree vitali gli antichi «signori della guerra» esercitano con le attribuzioni istituzionali di autentici governi alternativi al governo centrale.[7]

Da Il popolo della fame ora assedia Makallé

Sulla carestia etiope del 1983-1985, La Stampa, 23 dicembre 1984

  • Questo nome di vecchie memorie d'Africa, Makallé, oggi è una città assediata. Un esercito di morti viventi le sta addosso immobile, la soffoca nella sua misera puzza di corpi perduti a una dignità umana. Makallé aveva 30 mila abitanti, è un villaggio di base di pietra con stradine piatte, asfaltate al tempo degli italiani. Ora 80 mila scheletri malati di fame stanno accucciati a terra tutt'attorno, e aspettano. Per ognuno che c'è dentro la città ce ne sono almeno altri due fuori, e per ogni boccone che dentro la città uno manda giù, fuori ci sono altri due che se ne contendono il rumore e il diritto di saziarsi solo con quello.
  • La terra è una latrina aperta, dovunque. Qui si vive solo per defecare, una povera diarrea sanguinolenta che solo la morte fa finire. Ma il gelo della notte che sta filando via veloce ha congelato l'aria e i corpi, e non ci sono odori. La puzza viene dopo, lenta, col giorno e col sole. E diventa padrona dell'aria, appesta, riempie i polmoni. La note qui ci sono 2 o 3 gradi, come dentro un gigantesco frigorifero che veglia immobile 80 mila pezzi di carne vivente.
  • Il governo di Addis Abeba ha lanciato un grido d'allarme a marzo, ma è un governo marxista-leninista, con un regime presuntuoso e di troppi orgogli. Gli aiuti stanno arrivando massicciamente solo ora. Quando ormai è tardi.
  • Muoiono di notte, nel gelo del vento. Soprattutto i bambini. In quest'alba livida ne ho trovati quattro, coperti appena da un sacco di iuta. I becchini sono arrivati, scalzi, ghiacciali, con una vecchia barella. Hanno legato il corpicino dentro il sacco e poi l'hanno caricato. Si sono lavati le mani con un filo d'acqua sporca, e sono andati via. Attorno nessuno s'è mosso, stavano tutti fermi, rannicchiati nei loro loculi segnati dal confine delle pietre. Battevano i denti. Ogni corpicino pesava meno della barella, e sulla tela non faceva nemmeno spessore.

Da Dal Negus a Menghistu, è sempre fame

Sulla carestia etiope del 1983-1985, La Stampa, 13 gennaio 1985

  • L'Etiopia che muore di fame è ancora per molti l'Etiopia socialista. Anzi l'Etiopia marxista-leninista, che spaccia dappertutto una falce e martello color rosso sangue e appende ai muri dei palazzi pubblici le facce tristi di Engels, Marx e Lenin, infilate sopra giacche di color marrone. C'è più ortodossia che a Pyongyang. Ora, dopo dieci anni di rivoluzione, c'è anche il partito unico. È tutto vero. Ma è anche noioso, prolisso, irresistibilmente posticcio sui colori vitali dell'Africa.
  • Un tempo qui pioveva per quattro mesi l'anno, e sull'altopiano c'era l'inferno. Ora non piove da dieci anni, e sull'altopiano l'inferno è diventato un altro. Ma il marxismo-leninismo non c'entra niente. Le decine di migliaia, i milioni di contadini disperati che hanno lasciato la loro terra stenta per venire a morire alla periferia delle città, sperando nel grano scaricato da quegli aerei che hanno il ventre gonfio, vengono da una vita dove il massimo della tecnologia è un aratro a chiodo.
  • La creazione di cooperative e di kolkoz sulla montagna ha imposto investimenti che non hanno dato la resa sperata, e le strutture statali (ma riguardano appena il 4 per cento del mondo contadino) si sono sovrapposte troppo rigidamente a una cultura ancora individualista, legata alla tecnica del piccolo campo e ai vincoli della famiglia, della tribù, dei rapporti ancestrali. Comunque non c'è più la servitù, che fino a dieci anni era una pratica diffusa: e i contadini non debbono più dare ai padroni della terra il 70 per cento dei loro prodotti. Ma trovano poco interesse nel prezzo basso che il governo impone alle derrate, e coltivano per l'autoconsumo o, al più, accumulano scorte per gli anni duri.
    Solo che gli anni duri sono arrivati uno dietro l'altro, senza lasciar tirare il fiato. E questa fragile economia della sussistenza è precipitata. Prima i contadini poveri dell'altopiano hanno mangiato le scorte, poi hanno mangiato le sementi, poi hanno bruciato il legno della casa per scaldarsi. Ora stanno nelle spianate di terra grigia che s'allungano alla periferia dei grossi villaggi del Nord, in attesa della morte.
  • L'Etiopia è, tra i Paesi dell'Africa, quello che già riceveva meno aiuti: da 4 a 6 dollari per abitante, contro una media che per il Terzo Mondo è di tre volte tanto. C'erano due ragioni per questo destino d'avarizia. La prima sta nello stesso sottosviluppo del Paese, incapace d'assorbire quote elevate di finanziamentei integrativi dall'estero. Ma la seconda è tutta politica, nasce dalla diffidenza con cui i Paesi dell'Occidente (delle capacità d'aiuto dell'Urss c'è davvero poco da dire; anzi non c'è da dire nulla, vista la sua incapacità) guardavano al regime marxista che controlla il governo di Addis Abeba.

Da Ho visto la disfatta di Menghistu

Sulla guerra d'indipendenza dell'Eritrea e la battaglia di Afabet, La Stampa, 11 maggio 1988

  • Sono entrato, clandestino, in Eritrea per venire a raccontare la più lunga guerra d'Africa. Dura da 26 anni, ma nessuno se ne ricorda. Sono al fronte, ma il fronte non è una linea diritta, né una trincea continua o un pezzo rigido di terreno. Il fronte è un'idea frammentata, un'avventura possibile, un angolo di montagna dove ti nascondi e speri che quel carico di tritolo che apre squarci fin nelle viscere della terra non ti si sfrucelli addosso.
  • Fa un caldo soffocante, siamo a duemila metri e sotto il sole ci sono più di 40 gradi. A Sud, verso le terre basse che finiscono dentro il mare e poi verso l'Asmara, il paesaggio si fa morbido, ci sono orti, giardini, papaie, pomodori, un profumo dolce di cipolle: qui è solo montagna e deserto. Non c'è una goccia d'acqua, non una pianta a parte qualche arbusto spinoso e poche acacie bruciate dal sole. Ma per gli eritrei questa è la loro patria, non ne hanno un'altra; e da 26 anni lottano e muoiono per riconquistarla.
  • Tutto cominciò quando l'Etiopia, nel '62, tradì le decisioni dell'Onu e si prese questa regione che le era stata assegnata soltanto con un regime di federazione. Fu un atto brutale di colonialismo, una sopraffazione che il mondo subì senza troppi scandali, fingendo che il formalismo delle leggi internazionali fosse stato rispettato: Hailé Selassié aveva saputo giocar bene l'autorevolezza del proprio prestigio africano, e le troppe memorie colpevoli che l'Europa ancora si trascinava dietro dai tempi dell'impresa italiana e poi dalla seconda guerra mondiale. Sono passate via estati ed inverni, i bimbi di allora sono cresciuti e si sono fatti uomini, il tempo ha cancellato anche il Negus, ma l'annessione non è mai riuscita, e la resistenza, disperata, ostinata, degli eritrei continua a vincere anche gli Antonov, i Mig, i quattro miliardi di dollari in armamenti che l'Urss ha voluto prestare al socialismo imperiale del colonnello Mariam Hailé Menghistu.
  • Afabet è stata la più grande battaglia africana dai tempi della seconda guerra mondiale, due giorni e due notti di combattimento continuo e certo senza pietà, con pile di morti (8 mila, 10 mila, chi lo sa) ammucchiati nella solitudine del deserto e centinaia di pezzi di artiglieria che ancora puzzano di bruciato e di cadaveri in decomposizione.
  • Afabet oggi non mostra più alcun segno di questa battaglia. Soltanto le baracche della guarnigione vuote sotto il sole ricordano che qui un giorno erano acquartierati ventimila soldati etiopici: c'è l'aria pasticciata delle partenze affrettate, qualche carta vola ancora nel vento, restano a terra un quadro sfondato di Menghistu e un vecchio manifesto con Marx, Engels e Lenin.

Da A Mogadiscio, aspettando la fine

Sullo scoppio della guerra civile in Somalia, La Stampa, 24 luglio 1990

  • Questa cronaca accompagna la fine di un regno. Nessuno sa quanto sia lungo il tempo di questa fine, quanti morti ancora ci saranno, quali sofferenze, i lutti inutili, le torture, la violenza senza ragione. Ma in questo angolo disperato dell'Africa un'altra storia del passato si sta chiudendo per sempre, e il presidente Siad Barre, prigioniero di se stesso e dei venti anni di potere assoluto, attende ora di sapere che cosa gli riserva il suo ultimo destino.
  • Le notti di Mogadiscio ora sono lunghe, e inquiete. Chi ha la pelle bianca non va più tanto in giro, quando il sole precipita nell'afa morbida dell'orizzonte. In poche settimane sono stati ammazzati un inglese, un italiano, un tedesco e un americano: omicidi strani, dove le possibili spiegazioni di una delinquenza sempre più disperata non riescono a cancellare i dubbi dell'assassinio politico, del segnale lanciato dall'interno di un regime ormai allo sbando. L'altro ieri un vecchio amico ha telefonato in ansia: Bisogna chiudersi dentro, gira la voce che stanotte vogliono far fuori un altro italiano. Ho chiuso la portina di legno con la sua fragile zanzariera e ho acceso le pale lente del ventilatore che pende dal soffitto. Un grosso scarafaggio esplorava il mondo umido della notte.
  • Chi può scappa via da qui. E chi può sono i ricchi pescecani del regime, i potenti, i loro affiliati di clan, gli speculatori di vent'anni di potere e di corruzione. Gli altri, sperano nell'aiuto di Allah onnipotente e misericordioso.

Da Afghanistan. Il primo anno di Karzai

Su Hamid Karzai, La Stampa, 23 dicembre 2002

  • Karzai sa benissimo che oggi, un anno dopo, lui è ancora poco più d'un Sindaco di Kabul, e che se soltanto mette il naso in una delle città dove ancora dominano i «signori della guerra» – e sono tutte le citta, da Mazar-i-Sherif dove Dostum comanda e impicca peggio di un Caligola irsuto, a Herat le cui strade Ismail Khan ha riportato al tempo più duro dei talebani imponendo il burka e la frusta alle donne che osano mostrarsi in pubblico – Karzai sa benissimo che lo prenderebbero a fucilate, e lo tratterebbero come un intruso che sta violando il patto non scritto della «devoluzione» afghana, dove ogni capotribù fa quello che vuole a casa propria e non c'è barba di governo centrale che possa pretendere obbedienza, rispetto, anche solo un codice comune.
  • A un anno ormai di distanza, e con tutto quello che sta per accadere in Iraq, la guerra d'Afghanistan ha finito per perdere i veli (propagandistici) e i pudori (verso l'opinione pubblica) dietro i quali ammantava le ragioni dell'attacco contro i taleban e le basi di Al Qaeda. Gli 8.000 marines schierati oggi sul territorio, l'apertura d'una base militare americana insediata a tempo indeterminato, la firma finalmente del contratto per il gasdotto (poi l'oleodotto) che attraverso l'Afghanistan porterà giù verso i mari caldi il petrolio del Caspio, hanno consolidato le linee del progetto strategico di Bush: che era certamente d'acchiappare Osama bin Laden «Dead or Alive», se soltanto ci fosse riuscito, e di far fuori il regime degli scolari di Allah che s'era rivelato troppo inquinato dal fondamentalismo; ma era anche di radicare una presenza forte, credibile, della bandiera stellata nell'Asia Centrale, in modo da controllare strettamente ogni possibile processo di destabilizzazione regionale costruendo una linea di contenimento – a Occidente – del focolaio iraniano e – a Oriente – della crescente influenza della nuova superpotenza cinese.
  • Karzai comunque non è una marionetta, un Quisling venduto alle manovre geostrategiche che lo sovrastano imperiosamente. La dignità con la quale ha denunciato presso i «donors» americani, europei, e giapponesi, il ritardo degli aiuti promessi un anno fa, e la paziente questua che svolge in giro per il mondo a raccattare contributi che possano dar peso alla sua investitura, sono stati gesti compiuti con una piena consapevolezza del proprio ruolo (e, però, anche dei limiti oggettivi che lo condizionano).

Note[modifica]

  1. Da Il mosaico di Menghistu, La Stampa, 29 aprile 1981
  2. a b Da Etiopia, il gioco dei potenti, La Stampa, 8 maggio 1981
  3. a b Da Gli ex scolari di Asmara, La Stampa, 14 giugno 1988
  4. a b Da Un impero da spartire in troppi, La Stampa, 22 maggio 1991
  5. a b Da Addio a Barre, ras delle tangenti, La Stampa, 3 gennaio 1995
  6. Da Il nuovo premier a «stelle e strisce», La Stampa, 6 dicembre 2001.
  7. a b Da Karzai primo presidente della più giovane democrazia del mondo, La Stampa, 8 dicembre 2004.

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