Robert Hughes
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Robert Studley Forrest Hughes (1938 – 2012), critico d'arte e saggista australiano.
La cultura del piagnisteo
[modifica]- Anche le arti popolari, già meraviglia e delizia del mondo, sono decadute; c'è stato un tempo, a memoria di alcuni di noi, in cui la musica popolare americana era esaltante, struggente, spiritosa, e seduceva gli adulti. Oggi, al posto della cruda intensità di Muddy Waters o della vigorosa inventiva di Duke Ellington, abbiamo Michael Jackson, e da George Gershwin e Cole Porter siamo scesi a musical da analfabeti, che parlano di gatti o della caduta di Saigon. Il grande rock-'n'-roll americano si è super tecnologizzato e, passato nel tritacarne delle corporations, è diventato al 95% un prodotto sintetico. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 21)
- Milioni di americani, specie delle giovani generazioni, immaginano che la «verità» sull'assassinio di Kennedy risieda nel film di Oliver Stone, il vivido e menzognero JFK, con la sua paranoide elevazione di uno screditato procuratore distrettuale di New Orleans a eroe politico perseguitato da un malvagio e onnipresente apparato militare, che uccise Kennedy per farci restare in Vietnam. Quanti di loro hanno trovato da ridire sulle ripetute dichiarazioni di Stone, che pretende di aver «creato un contro-mito» da opporre alle conclusioni della Commissione Warren? Come se la conoscenza del passato si identificasse con la propagazione di un mito. [...] in tempi di docudrammi e simulazioni, quando la differenza tra TV e eventi reali si offusca sempre più non per caso, ma per deliberata politica dei boss dei media elettronici -, simili operazioni si inseriscono in uno scenario limaccioso e ansiogeno di sospesa incredulità, del tutto assente nella pseudostoria della vecchia Hollywood. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 21-22)
- Poi, dato che l'arte induce il cittadino sensibile a distinguere tra artisti di vaglia, artisti mediocri e assolute nullità, e dato che le ultime due categorie sono sempre più numerose della prima, bisogna politicizzare anche l'arte; eccoci dunque ad abborracciare metodi critici per dimostrare che, mentre sappiamo benissimo cosa intendiamo per qualità dell'ambiente, nell'esperienza estetica il concetto di «qualità» è poco più di una finzione paternalistica, intesa a rendere la vita difficile agli artisti negri, alle donne e agli omosessuali - i quali devono essere giudicati in base alla razza, al sesso e alla cartella clinica, e non ai meriti del loro lavoro. Col diffondersi anche in campo artistico di una lacrimosa avversione all'eccellenza, la discriminazione estetica viene tacciata di discriminazione razziale o sessuale. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 22)
- La vacca sacra della cultura americana è, attualmente, l'Ego: l'«autostima» è inviolabile, sicché ci affanniamo a trasformare le accademie in un sistema in cui nessuno può fallire. In questo spirito potremmo purgare il tennis dei suoi sottintesi elitari: basta abolire la rete. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 23)
- La diffusa rivendicazione del rango di vittima corona la cultura terapeutica, da tempo cara all'America. Mostrarsi forti può celare semplicemente una traballante impalcatura di denegazione, ma essere vulnerabili è garanzia di invincibilità. La doglianza dà potere - anche se è solo il potere del ricatto emotivo, che crea un tasso di sensi di colpa sociali mai registrato in precedenza. Dichiarati innocente, e ci rimetti la testa. I cambiamenti prodotti da questo andazzo sono visibili ovunque, e tendono curiosamente a far convergere la «destra» e la «sinistra». Prendiamo la forma assunta di recente dal dibattito sulle questioni sessuali, sempre più incentrato sul vittimismo: gli antiabortisti attingono al gergo femminista e chiamano l'aborto «stupro chirurgico» (poco importa che l'atto sia del tutto volontario). (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 25)
- Intanto, la nuova ortodossia del femminismo sta abbandonando l'immagine della donna autonoma ed esistenzialmente responsabile a favore della donna vista come vittima inerme dell'oppressione maschile; trattarla da eguale di fronte alla legge significa aggravare la sua condizione di vittima. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 25)
- [...] veniamo creando un'infantilistica cultura del piagnisteo, dove c'è sempre un Padre-padrone a cui dare la colpa e dove l'ampliamento dei diritti procede senza l'altra faccia della società civile: il vincolo degli obblighi e dei doveri. L'atteggiamento infantile è un modo regressivo di far fronte allo stress della cultura aziendale: non calpestarmi, sono fragile. L'accento cade sulla soggettività: le sensazioni che proviamo, anziché ciò che pensiamo o siamo in grado di sapere. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 26)
- Nella società, come in agricoltura, la monocultura funziona male. Impoverisce il terreno. La ricchezza sociale dell'America, che tanto colpisce il forestiero, deriva dalla diversità delle sue tribù. La sua capacità di coesione, di trovare un qualche comune accordo sul da farsi, deriva dalla disposizione di quelle tribù a non trasformare le loro differenze culturali in barriere e bastioni insormontabili, a non fare un feticcio dell'«africanità» o dell'«italianità» (che le mantengono distinte), a spese dell'americanità (che invece dà loro un vasto terreno comune). Leggere l'America è come esaminare un mosaico. Se si guarda l'insieme non se ne scorgono le componenti, le singole tessere, ognuna di colore diverso. Se ci si concentra sulle tessere, si perde di vista il quadro generale. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 30-31)
- Come i nostri progenitori del Quattrocento erano ossessionati dalla creazione di santi e i nostri antenati dell'Ottocento dalla produzione di eroi (da Cristoforo Colombo a George Washington), così in noi c'è l'assillo di individuare, celebrare e, se occorre, fabbricare vittime che abbiano un unico tratto comune: la negazione della parità con la Bestia Bionda dell'immaginazione sentimentale, il maschio bianco eterosessuale benestante. L'assortimento di vittime disponibile una decina d'anni fa - negri, chicanos, indiani, donne, omosessuali - è venuto allargandosi fino a comprendere ogni combinazione di ciechi, zoppi, paralitici e bassi di statura o, per usare i termini corretti, di non vedenti, non deambulanti e verticalmente svantaggiati. Mai, nel corso della storia umana, tante perifrasi hanno inseguito un'identità. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 33-34)
- Trent'anni fa prese avvio negli Stati Uniti una fase epica del processo di affermazione della dignità umana: il movimento per i diritti civili. Ma oggi (dopo che per più di un decennio il governo ha fatto del suo meglio per ignorare le questioni razziali, quando non cercava di rintuzzare i progressi degli anni Sessanta) l'abituale risposta americana alle disparità è di chiamarle con un altro nome, nella speranza che così spariscano. Questo modo d'agire, come osservava George Orwell nel suo Politics and the English Language, devasta la lingua senza smuovere la realtà di un millimetro. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 34)
- Chi ha un linguaggio limitato (o un linguaggio al servizio di un programma), nell'impeto della collera ricorre alla parola più emotiva che gli viene in mente: l'esempio principe, oggigiorno, è «razzista», una parola che, come «fascista», evoca tanti piani di indistinta denuncia da aver perso il significato (opinabile) che aveva una volta. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 36)
- Se il linguaggio diviene, nell'aggredire, grottescamente turgido, nel difendere si fa timidamente floscio, e cerca parole che non possano recare offesa, seppure immaginaria. Non facciamo fiasco, riusciamo meno bene del previsto. Non siamo drogati, eccediamo nell'uso di sostanze stupefacenti. Non siamo paralizzati, ma affetti da tetraplegia. [...] Se questi leziosi contorsionismi inducessero la gente a trattarsi vicendevolmente con maggiore civiltà e comprensione, si potrebbe anche apprezzarli; ma in realtà non sortiscono alcun effetto. I negri, nella parlata educata dei bianchi di settant'anni fa, erano chiamati «gente di colore»; poi diventarono «neri»; ora sono «afroamericani», o di nuovo «persone di colore». Ma per milioni di americani bianchi, dal tempo di George Wallace a quello di David Duke, erano e restano niggers, e i cambiamenti di nome non hanno modificato le realtà del razzismo [...] (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 37)
- L'idea che si cambi una situazione trovandole un nome nuovo e più gradevole deriva dalla vecchia abitudine americana all'eufemismo, alla circonlocuzione e al disperato annaspare in fatto di galateo, abitudine generata dal timore che la concretezza possa offendere. Ed è un'abitudine tipicamente americana. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 37)
- Ma perché tanta agitazione attorno a man? Chiunque conosca la storia della lingua inglese sa che nell'antico anglosassone il suffisso -man era di genere neutro: aveva, e conserva tuttora, lo stesso significato odierno di «persona», applicabile a uomini e donne senza distinzione. Per denotare il sesso aveva bisogno di essere qualificato: il maschio era chiamato waepman, la femmina wifman. Questo uso neutro di man ci dà forme come chairman, fisherman, craftsman, che designano semplicemente persone dell'uno o dell'altro sesso impegnate in una determinata professione o attività. L'antico sopruso sessista che si presume racchiuso in questa parola sin dal tempo di Beowulf si rivela inesistente. Ciò nonostante, esso offre abbondanti occasioni di sfoggiare cavillose virtù di correttezza politica [...] (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 38-39)
- [Sull'uso dei termini "afroamericano", "asioamericano" e "nativo americano"] Quando i bianchi avranno accumulato abbastanza sensi di colpa da autodefinirsi «euroamericani», sarà venuto il momento di far piazza pulita del gergo del divisionismo nevrotico: tutti, gialli, neri, rossi e bianchi, potranno ridiventare, vivaddio, «americani» e basta. Le parole, comunque, non sono fatti, e la pura nomenclatura non cambia granché. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 40)
- Nel femminismo americano c'è un'ampia frangia repressiva, autocaricaturale e spesso di una piccineria abissale, come la squadra accademica di polizia-del-pensiero che recentemente è riuscita a far togliere da un'aula dell'Università di Pennsylvania una riproduzione della Maya desnuda di Goya. E ci sono puritane demenziali come la scrittrice Andrea Dworkin, che giudica ogni rapporto sessuale con gli uomini, per quanto consensuale, una forma politicizzata di stupro. Ma questo sminuisce forse, in qualche modo, la fortissima aspirazione di milioni di donne americane ad avere parità di diritti con gli uomini, a essere libere da molestie sessuali sul posto di lavoro, a vedersi riconosciuto il diritto, in materia di procreazione, di essere prima persone e poi madri? (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 48-49)
- La TV è la musa della passività. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 60)
- [Ronald Reagan] Ha lasciato il suo paese, nel 1988, un poco più stupido di quel che era nel 1980, e molto più tollerante verso le bugie, perché il suo stile di presentazione per immagini tagliava il tessuto connettivo tra le idee, costruito dal ragionamento, e quindi favoriva la sconfitta del pensiero medesimo. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 60)
- Il successo di McCarthy consisté nell'aprire le cateratte del monismo americano, la lungamente accumulata intolleranza nativista per la diversità; e nel farla entrare in gioco sul terreno specificamente ideologico dello scontro tra comunismo e democrazia liberale proprio nel momento in cui l'America prendeva le armi contro un paese comunista, la Corea del Nord. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 69)
- Più che un movimento politico, il maccartismo fu una Crociata dei Fanciulli, un evento irrazionale semireligioso. Tanto il suo successo iniziale quanto il suo collasso finale furono dovuti alla vaghezza dei bersagli, alla loro carenza di corpi e di nomi. Il maccartismo, opportunista per natura, difettava di messa a fuoco. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 69)
- [Sul movimento pro-life] Quando gli assedianti di una clinica dove si pratica l'aborto dichiarano di essere «per la vita», possiamo essere certi che ad angustiarli non è quella della spaurita adolescente incinta; e in gioco non è tanto la sopravvivenza del feto, bensì la misura del controllo maschile sul corpo delle donne che questa società è disposta a concedere. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 70)
- L'innocenza del feto è fuori dubbio, ma non c'entra: anche un cespo di lattuga è innocente. Il feto non pecca perché non può peccare. Non può peccare perché, almeno a quanto è dato saperne, non ha libero arbitrio e non gli si offrono occasioni di peccato. L'utero è privo di tentazioni; è come il paradiso terrestre prima del serpente. Presumibilmente è per questo che gli antiabortisti, con il loro gergo politicamente corretto sull'innocenza e le potenzialità, preferiscono il non-nato al nato: nascendo noi cadiamo in un mondo imperfetto, mentre il feto [...], d'aspetto manifestamente prenatale e circonfuso da un'amniotica aureola di luce - è l'emissario di un mondo perfetto: la condizione uterina, l'utero con Vista, di cui tutte le nostre dispendiose comodità, dai divani alle piscine riscaldate, non sono che metafore. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 74)
- Che oggi nelle università americane quasi tutti i docenti di materie umanistiche vengano assillati (a dir poco) da rivendicazioni p.c., e abbiano bisogno di una robusta indipendenza di spirito per resistervi, non è una fantasia della destra. Il metodo è analogo a quello praticato un tempo in ambito religioso — svergognare una persona e farle il vuoto intorno —, e serve anche a stabilire quali insegnanti saranno assunti in ruolo e quali no; e trae forza dalle dimensioni stesse del mondo accademico, dalla sua inflazione numerica, dalla sensazione che il pubblico universitario è già di per sé un pubblico di massa, sicché non occorre tener conto di lettori al di fuori dei suoi confini autoreferenziali e troppo spesso conformisti. Non c'è che dire, l'ambiente accademico ha preso gusto alle etichette che sostituiscono alla riflessione e alla capacità di giudizio un facile moralismo: razzista, sessista, omofobico, progressista, reazionario. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 78)
- Il problema fu che tra gli studenti con diploma di scuola superiore che chiedevano di entrare a Berkeley, gli asiatici (cinoamericani e nippoamericani) si qualificavano nella misura del 30%, contro il 15% dei bianchi, il 6% dei chicanos, e solo il 4% dei negri. Il perché non era un mistero: i ragazzi asiatici lavoravano sodo e provenivano in genere da famiglie molto unite che li sostenevano e li facevano sgobbare. Così Berkeley cambiò i criteri di ammissione: ai negri si richiese, per entrare, solo un punteggio di 4800 su 8000, mentre la soglia per gli asiatici fu fissata a 7000. Naturalmente da parte della comunità asiatica vi furono proteste indignate. Nondimeno, il sistema dell'istruzione superiore continua a coltivare l'idea che gli studenti negri e di altre minoranze possano essere in qualche modo «abilitati» e messi in grado di «giocare alla pari» modificando i criteri di ammissione. Ma la sola cosa che un'università può ragionevolmente sperare di fare, in questo ambito controverso, è aiutare gli studenti intelligenti svantaggiati a superare ostacoli che gli studenti intelligenti avvantaggiati superano più facilmente. Per quanto riguarda l'accesso alle università, la politica più equa, come sostengono Dinesh D'Souza e altri, sarebbe quella di collegare le facilitazioni alla povertà di uno studente, non alla sua estrazione etnica. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 84)
- Le università sono istituti di cultura superiore, non (almeno non principalmente) di terapia sociale. Hanno il diritto di abbassare i criteri d'ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo, a scapito del diritto all'istruzione degli studenti più capaci? Se si ritiene che le università siano un campo di addestramento delle élites sia pure con l'accesso più largo possibile, la risposta dev'essere no. Ma l'atteggiamento più diffuso, nei docenti formatisi durante o dopo gli anni Sessanta, è ardentemente quasi automaticamente antielitario. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 84)
- Non esercitati all'analisi logica, male attrezzati per sviluppare e capire un'argomentazione, non avvezzi a consultare testi per documentarsi, gli studenti hanno ripiegato sulla sola posizione che potevano rivendicare come propria: le loro sensazioni su questo o quello. Quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione, attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene, o addirittura un attentato ai suoi «diritti» o supposti tali; ogni argumentum diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la violenza vera e propria. (pp. 87-88) [sul soggettivismo]
- Mi viene in mente l'Australia terra delle cause perse biologiche: come i marsupiali macropodi e i mammiferi ovipari (i canguri, gli wallaby, le echidne, gli ornitorinchi), molto dopo essersi estinti in tutto il resto del globo, prosperarono indisturbati sulla loro scheggia di continente staccatasi dal primevo Gondwana, così gli ultimi derridiani, lyotardiani e baudrillardiani sono ancora lì che saltano e stronfiano per gli atenei americani anni dopo che i loro mentori intellettuali hanno smesso di interessare i francesi. Ed è questa gente a lagnarsi del colonialismo culturale! (p. 95)
- [...] il separatismo non è, come sostengono certi conservatori, l'inevitabile risultato del multiculturalismo. Le due cose sono in realtà contrapposte. Il multiculturalismo afferma che persone di radici diverse possono coesistere, possono imparare a leggere la banca immagini di un altro, possono e devono guardare al di là delle frontiere di razza, lingua, sesso ed età senza pregiudizi né illusioni, e imparare a pensare sullo sfondo di una società eterogenea; osserva, sommessamente, che alcune delle cose più interessanti della storia e della cultura avvengono nell'interfaccia tra più culture; vuole mediare situazioni di confine, non solo perché affascinanti in sé, ma perché la loro comprensione può essere fonte di un poco di speranza per il mondo. Il separatismo nega la validità e la possibilità stessa di un simile dialogo. Rifiuta lo scambio. È un multiculturalismo inacidito, fermentato nella disperazione e nel rancore, e che (in America, se non in Bosnia-Erzegovina o in Medio Oriente) sembra destinato al fallimento. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, pp. 107-108)
- Né umili né tronfi: l'atteggiamento giusto è un normale, rilassato portamento eretto. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 116)
- Chi pappagalleggia frasi tipo «maschio bianco morto» dovrebbe riflettere sul fatto che in letteratura la morte è un cosa relativa: Lord Rochester è morto come Saffo, ma nient’affatto moribondo come Brett Easton Ellis e Andrea Dworkin. Statisticamente, la maggior parte degli autori sono effettivamente defunti, ma alcuni di loro continuano a parlarci con una vividezza e un'urgenza morale con cui pochi viventi possono competere. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 135)
- Questa usanza retrospettiva di giudicare gli scrittori in base alla loro presunta capacità di migliorare la coscienza sociale sarà forse una disdetta per lo snobistico Proust e il demoralizzante Leopardi, per l'intimista Henry James e per un figlio del privilegio borghese come Montaigne, ma lo è anche di più per gli studenti, che ne cavano l'impressione che il modo giusto di affrontare un testo sia di misurarlo alla svelta col politicometro, per poi dare la stura a un fiotto di stereotipi moraleggianti. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 140)
- Oppressione è ciò che facciamo in Occidente; ciò che fanno in Medio Oriente è «la loro cultura». (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, pp. 141-142)
- È in campo storico, che la correttezza politica ha riportato i suoi maggiori successi. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 143)
- Il razzismo dimostrato dagli storici tradizionali dell'Ottocento e del primo Novecento nel trattare delle culture dell'Africa è terrificante. I più, fra loro, non credevano che le società africane avessero una storia degna di essere raccontata, o anche solo di essere oggetto di ricerca. Il catalogo delle citazioni sarebbe interminabile, ma ne basti una per tutte, da Arnold Toynbee, in A Study of History: «Se classifichiamo l'umanità per colore, l'unica tra le razze principali ... che non abbia dato un singolo contributo creativo a nessuna delle nostre ventuno civiltà è la razza negra». (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 163)
- [Con l'opera Piss Christ] Serrano voleva sottolineare in modo netto e scioccante due cose: primo, lo scadimento nel kitsch delle raffigurazioni religiose di massa [...]; secondo, l'avversione dell'autore per la moralità coercitiva delle sue radici ispano-cattoliche. [...] Tutte le immagini hanno una storia, e quelle di Serrano appartengono a un filone non nuovo dell'arte moderna: la profanazione anticlericale surrealista. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 184)
- Nel Portfolio X, la violenza pornografica dei soggetti riconduce brutalmente all'immediatezza lo chic manierato delle immagini. Ma io non penso che lo chic sia un valore. Mi sentivo in disaccordo con la cultura della fredda citazione che si era impadronita dell'arte newyorkese, e il mio concetto di estasi sessuale non coincideva con quello di Mapplethorpe; [...] trovavo le immagini di umiliazione e tortura sessuale ivi contenute (sodomia con il pugno, bondage spinto, un uomo che piscia in bocca a un altro giocherellone acquatico) troppo disgustose per parlarne con entusiasmo [...]. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, pp. 187-188)
- [Sui documentari della PBS] [...] l'inesauribile filone di quei filmati naturalistici - orpelli elettronici ambientalistici - noti ai cinici del settore come «maggiolini che scopano a tempo di Mozart». (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 197)
- La bellezza americana, molto più che nella cultura, risiedeva nella natura. Così all'americano intelligente, se aveva modo di visitare l'Europa, accadeva di subire, grazie a una sorta di lampo pentecostale, un'istantanea trasformazione del gusto davanti a un singolo monumento antico; come fu per Jefferson alla vista della Maison carrée di Nîmes, il tempio romano che plasmò il suo concetto dell'architettura pubblica. Un'ora con la Venere Medici a Firenze o con l'Apollo del Belvedere in Vaticano poteva soverchiare tutta l'esperienza estetica precedente del grezzo figlio della nuova repubblica. E l'inesperienza dotava le opere inglesi o europee di una prodigiosa autorevolezza. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 202)
- È male usare parole come genio, a meno che non si parli di Jean-Michel Basquiat, il Chatterton nero degli anni Ottanta [...]. La prima fase del destino di Basquiat, a metà degli anni Ottanta, fu di essere acclamato da un'industria artistica tanto banalizzata dalla moda e accecata dal denaro da non sapere distinguere uno scarabocchio da un Leonardo. La seconda fase fu di essere piantato in asso da quello stesso pubblico, una volta sfumata la novità del suo lavoro. La terza fu un tentativo di apoteosi a quattro anni dalla sua morte, con una grande retrospettiva al Whitney Museum intesa a purificare la sua breve vita frenetica e a fare di lui una figura di martire per così dire multiuso e gonfiabile — restaurando in questo modo il valore monetario della sua mano in un periodo di crollo dei prezzi dell'arte contemporanea americana. Durante questo solenne esercizio di Vittimologia Eroica furono rispolverate tutte le iperboli sull'artista-demiurgo. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, pp. 217-218)
- Nel 1991 uscì su «Art in America» una perla di intervista a Karen Finley, in cui questa artista della performance, ex cattolica, dichiarava che la misura della sua oppressione in quanto donna era che lei non aveva nessuna possibilità, non una al mondo, di diventare papa. E lo diceva seriamente. Difficile immaginare un esempio più lampante dell'egocentrismo dell'artista-vittima. Sono anch'io un ex cattolico, e il pensiero di questa ingiustizia non mi ha trovato insensibile. Ma pensandoci su, sono giunto alla conclusione che c'è in realtà una ragione per non ammettere Karen Finley al papato. Il papa è infallibile solo in certe occasioni, quando parla ex cathedra di questioni di fede e di morale. Questa artista della performance, nel radicalismo del suo rango di vittima, è infallibile sempre. E nessuna istituzione, neanche antica e scaltrita come la Chiesa cattolica, potrebbe reggere il peso dell'infallibilità permanente del suo capo. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 219)
- Rivera ha dato probabilmente al Messico, quanto a consapevolezza di sé e orgoglio culturale, più di ogni altro artista messicano; ma ha potuto darlo soltanto perché aveva assorbito e completamente assimilato la grande tradizione della pittura d'affresco rinascimentale che, fondendosi con il suo profondo interesse per il modernismo francese, per l'arte del Messico precolombiano e per l'arte popolare viva, produsse i risultati straordinari che vediamo sulle pareti del Palacio Nacional di Città del Messico. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 229)
- Il compito della democrazia, nel campo dell'arte, è di proteggere l'elitarismo. Non un elitarismo basato sulla razza o il denaro o il rango sociale, ma sul talento e l'immaginazione. Bravura e intensità di visione, insieme, sono la sola cosa che renda l'arte popolare. In sostanza è per questo che il Rijksmuseum è pieno di gente, e le benintenzionate gallerie-scantinato di Amsterdam no. I più grandi spettacoli popolari d'America sono elitari fino al midollo: rugby, baseball, pallacanestro, tennis. Ma nessuno è disposto a pagare per vedere me che faccio gli 800 metri stile libero in 35', nonostante la mia posizione privilegiata di maschio europeo bianco non-propriamente-morto. Come lo sport, l'arte è un campo in cui l'elitarismo può avere libero corso a un prezzo trascurabile in termini di danno sociale. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 233)
- Discriminare è nella natura umana: facciamo scelte e diamo giudizi ogni giorno. Queste scelte sono parte dell'esperienza concreta. Naturalmente vengono influenzate dagli altri, ma in sostanza non sono il prodotto di una reazione passiva all'autorità. E noi sappiamo che una delle esperienze più concrete della vita culturale è quella dell'inuguaglianza fra libri, esecuzioni musicali, dipinti ed altre opere d'arte. Certe cose ci colpiscono più di altre - ci appaiono più articolate, più illuminanti. Possiamo avere difficoltà a spiegare perché, ma l'esperienza rimane. Il principio del piacere nell'arte ha un'importanza enorme, e quelli che vorrebbero vederlo declassato a favore di pronunciamenti ideologici mi ricordano i puritani inglesi, che avvresavano il circo dell'orso contro i cani non perché facesse soffrire l'orso, ma perché dava piacere agli spettatori. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 233-34)
- Per esempio, il mio hobby e la falegnameria. Me la cavo decorosamente, per un dilettante. [...] So che quando vedo uno stipo Hepplewhite in un museo, o una casa in legno a Sag Harbor, posso leggerli - capirne la struttura, apprezzarne le finezze — meglio che se non avessi mai lavorato il legno con le mie mani. Ma so anche che le mani morte che fecero l’aggetto centrale dell'uno e la veranda dell’altra erano molto migliori delle mie; sagomavano modanature più belle, si intendevano di dilatazione, e le loro impiallacciature non avevano bozzi. [...] so che non potrei fare niente del genere neanche se avessi ancora tutta la vita davanti. Chi sa fare cose simili è un'élite, e si è guadagnato il diritto di esserlo. A me, con i miei angoli da taglialegna a 89 o 91 gradi, questo riempie forse l’animo di rancore? Assolutamente no. Reverenza e piacere, piuttosto. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 237)
Bibliografia
[modifica]- Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto (The Culture of Complaint), traduzione di Marina Antonielli, Adelphi Edizioni, Milano, 2003. ISBN 88-459-1093-8
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