Tommaso Giartosio

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Tommaso Giartosio (1963 – vivente), scrittore e saggista italiano.

Doppio ritratto[modifica]

Incipit[modifica]

Sole. Caldo. Sono coperto di sudore. Corro. Devo in fretta. a casa n retta. Sfreccio per le viuzze di Alvesta, tra i muri, nell'ombra, nell'afa, facendo schioccare sulle pietre i sandali bagnati. Ho ancora della sabbia tra le dita dei piedi. Potrei fermarmi sui gradini del municipio, scrollare via i granelli ormai asciutti: invece so che li ritroverò stanotte nel buio del mio letto. Ho fretta. Non guardo neppure i turisti tedeschi, le loro grandi pance bianche come fantasmi nel deserto del primo pomeriggio. Non vedo neppure i fumetti imprigionati dietro la saracinesca del giornalaio. Non mi fermo neppure davanti all'acquario del ristorante, dove i pesci muovono la bocca senza parlare. Ho fretta. Corro tutto piegato in avanti, e sono un fantino; agli angoli mi butto di lato, e sono un motociclista. Ho fretta e sono in ritardo, ma non è per questo che corro. Corro per il gusto di correre. Salto il tombino pensandolo aperto, nero e senza fondo. Lo salto, ecco, l'ho saltato: un grande applauso. Ma non mi fermo. Corro. Corro. Corro.

Citazioni[modifica]

  • Ricordare è – deve esserlo – un gesto attivo: scovare lo scandalo di un evento unico, oppure forzare il grigiore dei fatti quotidiani; cercare di capire, sulle tracce di qualche minimo indizio, ciò che non mi è stato possibile nascondere a me stesso. Ricordare è interpretare. O meglio, esiste un punto intimo, un istante di passione segreta, in cui ricordare e interpretare si sovrappongono, coincidono. (cap. I, p. 17)
  • Io volevo scrivere, nel senso più pieno del verbo; quindi non soltanto di me, ma del mondo e di me nel mondo. Non bastava fare un ritratto, dovevo fare un doppio ritratto. (cap. I, p. 19)
  • Allora accoppiando alla mia storia quella di Alfieri potevo andare più lontano. Capire come si scrive – quale è la posizione; e qual è il patto. (cap. I, p. 21)
  • La poesia, a quanto pare, non ce l'abbiamo dentro fin dall'inizio; e non ha origine nemmeno nell'infanzia-paradiso, quando il bimbo Adamo nomina le forme del mondo. Quel tempo è dimenticato, scaduto. Il bambino-poeta nasce dopo, nei conflitti della puerizia; nasce dalla sofferenza, dall'esclusione: dall'alienazione. La poesia, che è libertà, nasce dalla servitù. Dal suo silenzio. Forse... ne ha bisogno. (cap. II, p. 42)
  • Anche quando cerchiamo di essere chiari – anzi, soprattutto allora – finiamo per nasconderci in tutti sincerità tra distinzioni e mezze luci: è questa infatti la chiarezza della nostra mente; il distacco di sé dal sé, l'autocoscienza che dovrebbe acuire la visione, spesso la offusca. (cap. III, p. 59)
  • Ma c'è una seconda risposta, più sostanziale. Vittorio potrà diventare poeta se trova una sua voce, e questo significa tornare all'infanzia: anzi, alla Puerizia. Il bambino-poeta aveva dentro una forza intima – come un fuoco – che nella lotta con i grandi diventava forza poetica, inventava un linguaggio. Ora il giovane uomo, se vuole riscrivere il vocabolario dei grandi poeti, deve recuperare quel linguaggio. (cap. V, p. 77)
  • Io credo che noi leggiamo perché siamo avidi di vita. I libri ci mettono in mano pezzi di vita; i migliori le impediscono per sempre di morire, la fanno respirare. (cap. V, p. 79)
  • L'Europa, dice Alfieri, si compiace di credersi «illuminata», ma rimane una catena di gulag in cui tutti sono o servi o padroni. Ma anch'io – aggiunge – benché mi sforzi di essere un uomo libero, sono un servo, perché dentro di me è imprigionato un poeta: sono il carceriere di me stesso. (cap. VII, p. 112)
  • In fondo era questa, la risposta che andavo cercando: il vero finale della storia di Vittorio ed Elia. L'albero della poesia nasceva da un seme duro e sepolto: una parola vera. Bisognava dirla. Ma una così assoluta fedeltà a se stessi la si trovava solo rinnegando ogni sotterfugio servile, ogni travestimento. Per questo Mirra [nell'opera omonima di Alfieri] in punto di morte si ferma ancora un attimo e (sotto l'apparenza di un rimprovero) sottolinea alla sua balia di aver fatto tutto da sola. (cap. VIII, p. 161)
  • Quante cose non sapevo (e adesso ero certamente io a trascinare in fretta la valigia verso la porta del vagone): proprio in quel "momento" mi era capitato di menzionare per la prima volta a Matteo il ritratto di gentiluomo appeso all'angolo dello scalone, quel quadro che avevo sempre creduto "solamente mio": ma lui a sorpresa si era animato, ne aveva parlato con calore, lo amava. E adesso d'un tratto salutandomi mi abbracciava, e io lo abbracciavo, come se fosse una cosa naturale.
    Della mia infanzia ricordo poco. Di quella di mio cugino Matteo, oltre a ciò che ho scritto fin qui, devo avere cancellato ogni ricordo – "allora". Si ripartiva. Ma per usare tutta la forza compressa nel punto d'origine era necessario staccarsene. Io potevo viaggiare. Lui no. Me ne sono sentito responsabile: ma non prima che il treno avesse doppiato la cappelletti del porto, e Matteo e la villa e Alvesta uno dopo l'altro fossero scomparsi, e non rimanesse più nessuno a cui risponderne. Eppure è "allora" che ho cominciato a cercare la parola giusta. (cap. IX, p. 171)
  • La scrittura è un atto di potere. Aumenta il nostro potere. Noi scriviamo, e nel momento in cui scriviamo siamo i salvati:[1] con la scrittura si ottiene la salvezza e la si esibisce. [...]
    Per un linguaggio che affiora, quanti ne affondano? Occorre un lavoro, un far-affiorare, un far-parlare: un dar "loro" la parola, dicendo "noi". Ma le nostre parole non possono riprodurre il loro silenzio. Il nostro è un compito impossibile; e forse anche un dovere peloso, che nasconde il bisogno di sbarazzarsi del loro linguaggio muto, di quella loro parola incompiuta che fruscia e sfrega: forse vorremmo fingere di soddisfarla e dirla, ma in realtà distorcerla, farla tacere. E salvarci a sue spese. (cap. X, pp. 188 sg.)
  • Perché adesso so una cosa: che se anche accetto che quel verso della Mirra rifiuta l'interrogativo che gli pongo, se anche mi rassegno a leggerlo come se affiorasse dal nulla al nulla per comunicare una certa versione della storia del servo e del padrone, la responsabilità che ad Alfieri non può venir tolta né attribuita slitta semplicemente sulle mie spalle. Devo ancora domandarmi se il silenzio della poesia sia un bene o un male; chiedermi quale significato, quale valore, quale uso possa avere la soluzione del mio quesito; interrogare il punto in cui avviene la scrittura, cercando di strappargli una risposta. Non mi risponderà. Rimarrà muto. Ma dalla risposta che io invento — e che sarà, per cominciare, la scoperta che un'opera d'arte è una risposta estetica che suscita una domanda etica — dipenderà tutto il mio modo di pensare la scrittura. (cap. XI, pp. 199 sg.)
  • In questa scrittura l'intenzione dell'autore non è un elemento tra tanti, ma il cuore stesso dello scrivere: uno scrivere che è prima di tutto un voler scrivere. [...] Ogni riga una svolta, ogni nuova rotta un nuovo dubbio. «E un bene, o un male ciò?». Lo saprò solo scrivendo. [...]
    La Vita è un lungo viaggio, dalla parola nascente a un silenzio imposto, e poi di nuovo alla parola poetica, e poi di nuovo al silenzio e alla morte. Nelle lettere la parola lotta e il silenzio quasi subito vince. La Vita è bellissima. Le lettere stanno al di qua di una bellezza che non raggiungeranno mai. Ma nel momento in cui Francesco Elia scrive con tutte le sue forze, le sue parole fanno contatto con qualunque pezzo di carta scritta; con chiunque scriva. D'un balzo Alfieri è raggiunto in un "noi" che non è quello dei piemontesi o degli italiani o degli scrivani o dei poeti, ma quello di noi tutti: di noi che possiamo scrivere, di noi che potremmo venire sommersi. (cap. XII, pp. 227 sg.)

Explicit[modifica]

Matteo è morto mentre scrivevo di lui. È morto del suo male, in fretta e di soppiatto, prima che potessi rivederlo. Non lo vedevo da due anni. Ci vedevamo sempre meno. La sua morte mi ha tagliato il fiato come una bastonata allo stomaco. Ne ho ricevute. So com'è. È così. Da allora ho scritto più piano. Ho riscritto, ho corretto. Ho divagato. Fino a capire un giorno che era tutto uno sforzo per tenerlo in vita. Un polmone artificiale. Un mormorio interminabile. Il libro si mescolava a lui. Era dedicato a lui. Era fedele. Tutto questo mi ripugnava. Ho finito il libro. Me lo riprendo. Te lo affido. Devi capire che non c'entra nulla con lui. Se esiste un punto di contatto, è stretto come un abisso. È un sentimento. Non puoi conoscerlo. Non posso conoscerlo. Forse non c'è. O forse c'è. Ma tu pensa al resto. Alla distanza. Alla distanza tra la cosa morta che hai tra le mani, e un uomo che meritava amore. Che voleva vivere.

Perché non possiamo non dirci[modifica]

  • Anche se in apparenza il suo aspetto carnevalesco è rivolto agli eterosessuali, in realtà il Pride serve prima di tutto ai gay che vi partecipano. Lo scopo fondamentale dell'intreccio di politica e spettacolo è contarsi, vedersi, sentirsi forti. Per moltissimi attivisti gay il primo pride è stato uno stimolo insostituibile a darsi da fare. (p. 35)
  • I diritti sono importanti; alla lunga essere trasgressivi non è molto divertente, se si rimane dei paria; e spesso non è neanche molto utile. Perciò va bene "riscoprire" gli anni settanta, purché questo non serva a far spallucce sulle battaglie in corso. Perché allora la nostalgia del gay trasgressivo mi manda in bestia. [...] Finché non esisti, non esisti; ma dal momento in cui esisti devi essere ben riconoscibile. (p. 40)
  • Un'idea che mi piace: il concetto di "trasversalità". L'ha formulato il filosofo Gilles Deleuze, riprendendolo da David Hume. È l'idea che un effetto prodotto in un dato modo può sempre essere prodotto anche in altri modi. [....] credo che il riconoscersi omosessuali o eterosessuali non derivi in linea retta da un orientamento sessuale originario, ma nasca lungo un percorso a zig-zag, per un gioco di spinte tra le quali il desiderio gay o etero a volte svolge addirittura un ruolo accessorio. (p. 45)
  • Ecco, si può sperare che l'omofobia diventi questo: un repertorio di innocui stereotipi che pochi imbecilli prendono sul serio, mentre tutti gli altri ci giocano. (p. 47)
  • Ora, un elemento che caratterizza la condizione omosessuale è questo: mentre l'identità del nero o dell'ebreo solitamente è rafforzata dal suo nascere e maturare entro una comunità compatta (in senso spaziale e generazionale), quella dell'omosessuale, come è noto, manca di qualsiasi continuità biologica e ambientale. I gay saltano fuori in qualsiasi ceto, cultura, religione, nazione. Ci si scopre omosessuali quasi sempre da soli. E ovviamente un gay di rado è figlio di altri gay, soprattutto di gay dichiarati. [...] C'è questa discontinuità, nella condizione gay, che è qualcosa di importantissimo. [...] Perché rende l'omosessualità debole e forte al tempo stesso. Debole perché in principio solitaria, dispersa in centomila città e famiglie, distribuita in gradazioni diseguali e in varianti personali, facile da dissimulare, incline ai vuoti di memoria storica. ma anche forte e tenace, perché a ogni nuova generazione rigermoglia in modo imprevedibile e non immediatamente riconoscibile. [...] Finora la cultura dominante ha quasi sempre sentito l'omosessualità come qualcosa di pericoloso – fino a circondarla a volte con un cordone sanitario – perché sapeva che l'omosessuale era ancora più interno a essa rispetto, poniamo, all'ebraismo assimilato del primo Novecento. Paradossalmente, il gay vive in un mondo etero che lo considera "dei suoi": o almeno lo fa finché la differenza non diventa evidente, e anche dopo continua a cercare di dimenticarsene. Del resto il gay stesso è ben cosciente di come, sotto moltissimi aspetti, egli abbia un mondo in comune con gli etero.
  • E la morale è questa: finora l'omosessuale è apparso davvero come una parte integrante del corpo sociale omofobo e "sano", perciò la coabitazione risulta più intima e scandalosa, e il contagio, reale o metaforico, è un incubo più angosciante. (p. 53)
  • Il multiculturalismo diventa spesso una commercializzazione di pacchetti identitari. (p. 67)
  • A causa di quella discontinuità di cui abbiamo già parlato a lungo, la compenetrazione tra l'omosessualità e l'omofobia dominante è particolarmente intima: liquida, pervasiva, corporea, originaria, inestricabile... [...] Opposizione, eterosessismo, e tuttavia, di fatto, compenetrazione. Un po' come nelle liti in famiglia. Per questo la discriminazione spesso non viene percepita, neppure dai diretti interessati: più è radicata, meno è visibile. [...] Ogni gruppo discriminato tende a interiorizzare in parte i pregiudizi di cui è oggetto. (p. 87)
  • Ci sono molte famiglie in cui lo zio gay insaccato del suo segreto di Pulcinella pesa come un macigno sui raduni natalizi o estivi. Gli etero non saranno mai realmente liberi finché non lo saranno i gay; e questo vale, ovviamente, per ogni altro schieramento sui due versanti di un muro di discriminazione. (p. 93)
  • Ogni riconoscimento di diritti si trascina dietro ciarpame simile – il sospetto perbenistico verso chi di quel diritto non vuole avvalersi. Dai una casa a tutti i senzatetto, e chi si ostina a rifiutarla sembrerà a molti un tipo losco, un iperbarbone. (p. 95)
  • L'omosessualità è semplicemente qualcosa che sta in tutti noi da sempre. Per questo si innerva (come realtà sconosciuta sfiorata, elusa, metaforizzata, taciuta, ambita, tabuizzata, perseguitata, implicata in altri discorsi...) anche nello scrittore più eterosessuale. (p. 127)

Note[modifica]

  1. Commentando I sommersi e i salvati di Primo Levi.

Bibliografia[modifica]

  • Tommaso Giartosio, Doppio ritratto, Fazi Editore, Roma, 1998. ISBN 8881120763
  • Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, 2004. ISBN 8807103680

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