L'amore è tra me e quel fondo abissale che c'è dentro di me, a cui io posso accedere grazie a te. L'amore è molto solipsistico; e tu, con cui faccio l'amore, sei quel Virgilio che mi consente di andare nel mio Inferno, da cui poi emergo grazie alla tua presenza (perché non è mica detto che chi va all'Inferno poi riesca a uscire di nuovo). Grazie alla tua presenza io emergo: per questo non si fa l'amore con chiunque, ma con colui/lei di cui ci si fida; e di che cos'è che ci si fida? Della possibilità che dopo l'affondo nel mio abisso mi riporti fuori. (da La casa di psiche)
Noi viviamo nell'ambito della tradizione giudaico cristiana e non sappiamo affrontare la morte se non affidandoci a speranza ultraterrene. Abbiamo un concetto molto alto di noi, meritevoli di immortalità. Ma questa credenza è rivelatrice di una verità o di uno spropositato amore di sé? Perché, nel secondo caso, forse varrebbe la pena di consegnarci con largo anticipo al nostro limite, seguendo la saggezza greca là dove insegna: Chi conosce il suo limite non teme il destino.
Godiamo, Lidia, piano, Perché il fato non apprezza chi di mano Gli strappa via il piacere. Furtivi sottraiamo all'orto-mondo I depredandi pomi. Non svegliamo, dove dorme, l'erinni Che frena ogni piacere. Come un ruscello, muti passeggeri, Godiamo di nascosto. La sorte è invidiosa, Lidia. Ammutoliamo.
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