Vittorio Bersezio

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Vittorio Bersezio

Vittorio Bersezio (1828 – 1900), scrittore, giornalista e deputato italiano.

Citazioni di Vittorio Bersezio[modifica]

  • Felice Romani, di persona, io non lo conobbi che negli ultimi suoi anni. Era, più che stanco, scoraggiato da sei lustri di giornalismo, di lavoro incessante da pubblicista. È questa una vita di lotte, non sempre leali, spesso amarissime e spietate. Alle punture dell'invidia, alle maligne insinuazioni dei rivali, aveva visto succedere l'abbandono di chi men doveva, la sconoscenza di tali che avrebbero avuto per obbligo di circondarne d'ogni omaggio la vecchiaia. Vedeva invadere e crescere nel campo delle buone lettere l'onda del cattivo gusto, vedeva il ciarlatanismo trionfare, l'umor partigiano prepotere nella critica, gl'interessi delle consorterie tener luogo di regole del bello, propagarsi la letteratura mestierante, celebrarsi le mediocrità procaccianti che sapevano procurarsi il chiasso della lode dai compari. Il suo sorriso arguto aveva preso una tinta d'amarezza: il frizzo veniva più raro alle sue labbra, e la parola era meno espansiva e confidente. Ma nulla aveva alterato la sua cortesia; e pei giovani che, punti dall'assillo della letteratura, ricorrevano a lui per consigli, codesta cortesia, facilmente, dopo breve tempo, prendeva qualche cosa di paterno. Un poco di frequenza nel trattarlo conduceva un'amorevole domestichezza; e in questa riappariva il Romani d'un tempo, dotto senza superbia, purista senza pedanteria, epigrammatico senza malignità, ilare, scherzoso, modesto. (Da Felice Romani critico, prefazione a Felice Romani, Critica letteraria. Articoli raccolti e pubblicati a cura di sua moglie Emilia Branca, Ermanno Loescher, Torino, 1883, vol. I, p. VI)
  • [ su Desiderato Chiaves] La facilita di verseggiare in lui era veramente meravigliosa; le strofe e le rime gli sgorgavano giù dalla penna e anche dalle labbra, come un'acqua che scorre dalla fonte; parodiando l'allora di moda abbondosa risonanza della strofa avvolgentesi sopraccarica d'epiteti, egli era capace d'improvvisare per ore carmi alla Prati[1], in cui la melodia vi accarezzava l'orecchio, e non c'era in quel profluvio di parole né pensieri e talvolta né anche il senso. Quante volte, ho visto il Prati medesimo ridere di cuore a quella amena parodia della sua maniera! (Desiderato Chiaves, Discorsi commemorativi di glorie italiane Roux Frassati e C. editori, Torino, 1896, Prefazione di Vittorio Bersezio, p. 7)
  • [...] ritornando alla Camera, nel 1866, dopo parecchi anni in cui aveva voluto rimanere all'infuori della vita parlamentare per consacrarsi al suo ufficio d'avvocato e ai domestici interessi, il Chiaves, con parola incisiva, con ironia garbata, elegante, ma amaramente severa, condannava i metodi empirici, senza convinzione, qualche volta senza dignità, di governo e di condotta parlamentare del Depretis, il quale iniziava allora quel così detto trasformismo, che eccitava nelle aure governative la confusione, la immoralità, lo scetticismo. (Desiderato Chiaves, Discorsi commemorativi di glorie italiane Roux Frassati e C. editori, Torino, 1896, Prefazione di Vittorio Bersezio, p. 23)
  • [ su Carmine Crocco] Un tristo, un ladro, un assassino. (Il regno di Vittorio Emanuele II, Roux e Favale, 1895, p. 25)

Domenico Santorno[modifica]

Incipit[modifica]

Era inoltrata la sera del 18 marzo 1848.
Una nebbia fine, fitta ed umidiccia, la quale a poco andare s'era risolta in pioviggina minutissima spruzzaglia, s'era abbattuta sulla città di Milano, e ne bagnava il lastrico delle strade. Traverso quella nebbia i lampioni mandavano una luce fatta rossigna, la quale ti tornava, direi, melanconica e rimessa, e si rifletteva tristemente nel bagnato del pavimento.
Nella strada principale d'uno dei più importanti e popolosi quartieri della città, camminava sollecito, studiatamente avvolto in ampio e scuro mantello, un uomo alto di persona, ben fatto, giovane ed aitante, il quale, benché vestisse alla civile, aveva quella certa andatura diritta e quel certo portamento rigido che all'occhio d'un osservatore disvelano tosto un militare.

Citazioni[modifica]

  • Domenico Santorno aveva circa cinquant'anni. Bassotto di statura. ma tarchiale di spalle e forte e robusto più che altri al mondo, la faccia larga ed aperta, la fronte non alta ma piana, la guardatura schietta, il sorriso pronto e benigno, corto il collo e facili a contrarsi per lo sdegno le sembianze del volto, aveva egli insieme l'aspetto d'una bonarietà leale e quello d'una singolare tenacità di propositi, potente in ogni preso partito.
    E massimi affetti della sua brava anima erano il suo paese e la sua famiglia. (p. 24)

Massimo d'Azeglio[modifica]

Incipit[modifica]

  • Il dire che artisti e letterati hanno quasi identica l'opera è vieta frase consecrata dall'uso. E l'uso questa volta ha ragione. È camminano per vie diverse ma vicine e convergenti ad un medesimo scopo, in traccia di medesimi effetti, adoratori d'un medesimo nume; cultori e gli uni e gli altri del bello terreno nelle sue forme sensibili; parlano tutti all'animo, al cuore, alla mente dell'uomo con immagini evocate e postegli dinanzi agli occhi od alla fantasia definite nella forma. Perciò se il poeta disse: uti pictura poesis, parmi debba il pittore leggere la sentenza al rovescio e dire altresì: uti poesis pictura: e questa e quella rappresentazione del vero nel bello e nel buono.

Citazioni[modifica]

  • [Massimo d'Azeglio] Pittore e scrittore, artista e letterato; in sé congiunge le due diverse forme della stessa sostanza. È dipinge il paese e vi annette una circostanza storica; scrive romanzi ed all'orditura trovata dall'immaginazione ed agli eventi ricavati dalla storia immette un pensiero patrio di cose pubbliche moderne. — La penna ed il pennello, il libro e la tela, le bellezze della natura e gl'insegnamenti delle storie ha fatto, colla misura delle sue forze, concorrere a dire ai presenti il concetto capitale e necessario dell'Italia de' suoi tempi. (p. 641)
  • Dio ci volle nascosta l'anima al riparo dal nostro indiscreto sguardo degli occhi: ma pure non ha voluto che di tutto ci dovessimo l'uno all'altro affidar ciecamente con troppo pericolo di inganni, tradimenti e sciagure. (p. 642)
  • Iddio nella nostra faccia ha stampato l'immagine del nostro spirito, e dello sguardo ne ha fatto — è vecchio dettato — lo specchio dell'anima. (p. 642)
  • Animo d'artista, indole di romanziere, fantasia di poeta, senno di chi ha fatto non leggieri studi, buon senso dell'uom che pensa, vezzi ed eleganza d'antica nobiltà, spirito e cuore d'Italiano: eccovi Massimo d'Azeglio celebre pittore, scrittore egregio, coraggioso soldato, amatore di patria, uomo di Stato, ministro — e galantuomo! (p. 644)
  • La scuola della povertà è la nutrice dei grandi animi: si è quella che prepara e dispone gli uomini alle cose eccelse; è quella che sforza la volontà a porre in mostra, e ripulire, mediante il lavoro, gli attributi dell'ingegno, è quella che dalla spessa corteccia dell'uomo di mondo, desta, riscuote, sprigiona, incita al volo la farfalla del genio. (p. 648)
  • Torino non fu mai propizia abbastanza alle arti: né lo è anche adesso, e lo era tanto meno a que' tempi. (p. 649)

Incipit di Le miserie 'd monsú Travet[modifica]

Madama Travet (da 'ndrinta) Ma fa' sté ciuto côla masnà.
Travet (come sopra) Eh! I t'vëdi ben c'a l'è mes'ora ch'i la bautio. Là là, Giromin, là, là, piorôma pi nen. (La masnà a piora pi fort) Oh! Santa passienssa!
Giachëtta (dal fond) A s'peul-lo?
Madama Travet (come sopra) Ciama la serva.
Travet (come sopra) A l'è an piassa.
Madama Travet (come sopra) E Marianin? Ciama un po' chila.
Travet (come sopra) Marianin, Marianin!

Citazioni sull'opera[modifica]

  • Se credo di avere avuto nella mia vita un momento di felice ispirazione, si è quello in cui ho trovato il nome Travet. Sono persuaso che nel felice successo della commedia, per una buona metà ci ha conferito la convenienza del nome. Pensate alle impalcature che sostengono i tetti. Le grosse travi appariscenti fanno la forza maggiore; ma che potrebbero esse senza le travette che corrono dall'una all'altra a sorreggere le tegole? E nessuno lor bada, e sono sempre là, intente all'opera loro, e mentre le grosse travi, ancorché tarlate, possono tuttavia rimanere al posto e farci la buona figura, essi, i travicelli, se vengono a mancare, precipitano le tegole. Il mio povero, buono, onesto impiegato, sarà il Travet dell'edificio amministrativo. (citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 734)

Incipit di alcune opere[modifica]

La carità del prossimo[modifica]

Siamo in una stanzaccia ampia, alta, nuda, illuminata da un lucernario di vetro a mezzo il soffitto, colle pareti grigiastre tappezzate di quadri abbozzati, di braccia e di gambe di gesso, di pipe e di ragnateli: in una parola, lo studio e l'abitazione di un pittore. Non occorre dire che ci troviamo sotto le tegole del tetto, al di sopra di quattro piani d'una gran casona, alveare umano che alberga una quantità di famiglie.
Questo studio è anche la dimora del pittore—che sto per presentarvi—e della sua famiglia; poiché il nostro eroe, per dirvela ad un tratto, possiede un gran buon cuore, buon umore da venderne, poco coraggio, non troppo ingegno, povere fortune, una moglie borbottona e quattro bimbi.

La plebe[modifica]

Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino. Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini; chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle; chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della miseria ed al cattivo tempo della stagione.

La testa della vipera[modifica]

Erano già le tre del mattino, e i giuocatori, sempre più accaniti intorno al tappeto verde, chiedevano nuovi mazzi di carte ai servitori sonnacchiosi del club.
Uno di questi aprì l'uscio di quel salotto dall'afa soffocante, s'inoltrò fino al tavolo dei giuocatori, e toccò discretamente sopra la spalla un uomo di circa quarant'anni, che, anche da seduto, appariva alto di statura, con un testone tanto fatto, irto di capelli rossigni tagliati corti che parevano punte di lesina, con ispalle grosse, rotonde, quasi gibbose.
Quest'uomo si voltò bruscamente e saettò chi l'aveva tocco di uno sguardo irritato cogli occhî grigi, che, in mezzo a quel faccione, apparivano piccolissimi, ma luccicavano d'un fuoco maligno.

Tre racconti[modifica]

Il cane del cieco[modifica]

Era un brutto cane davvero; d'una razza così mista che i più abili genealogisti ci avrebbero perduta la bussola a volerne rintracciare l'origine in mezzo alla licenza disordinata degl'incrociamenti. Troppo basso delle gambe anteriori, troppo alto di quelle posteriori, con un naso appuntato, su cui pochi peli irti, con un pelame sempre sporco, scarno da far compassione, e un ugiolare così fastidioso che metteva ribrezzo e paura. Ma nella parte superiore di quel muso inqualificabile, sotto due ciuffi di peli di colore indefinibile, la povera bestia aveva due occhi, che, quando fissavano i vostri, vi facevano stranamente pensare. Avevano, quegli occhi straordinari, un'espressione d'intelligenza, di mestizia, di rassegnazione: vi parevano rivelare — sissignori, anche in un povero e brutto cane, — una vita tutta di dolori. Non so se abbiate osservato mai che gli occhi di questo animale, adoratore dell'uomo, ridono talvolta, mentre la coda si dimena festosamente. Ebbene, gli occhi di questo disgraziato di cui vi parlo, non ridevano mai, come non si dimenava mai con allegro moto quel mozzicone corroso che gli faceva da coda.

Un genio sconosciuto[modifica]

Era un genio davvero. Dio glie ne aveva data la scintilla immortale. Egli la volle nascondere, e fece che traversasse ignorata la vita terrena.
Non vi dirò il luogo in cui il mio eroe, circondato d'oscurità, mise per anni ed anni tutto il suo impegno a tener segregata dal mondo la luce della sua intelligenza. Gli ho promesso di tacerlo, e coll'ultima stretta di mano che abbiamo scambiata, ho dato ragione alla sua misantropica e valorosa rinuncia. Il suo nome, ch'egli decretò e volle seppellito nel più profondo oblìo, non comparirà su queste carte. A me stesso egli lo tacque, e se anche ho potuto indovinarlo, non contristerò, svelandolo, la memoria di quell'anima infelice.

Galatea[modifica]

Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno. Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che rattristava con freddi riflessi il paese e la sera.

Note[modifica]

Bibliografia[modifica]

  • Vittorio Bersezio, La carità del prossimo, Treves, 1868.
  • Vittorio Bersezio, Domenico Santorno, Società Editrice Sonzogno, Milano 1912.
  • Vittorio Bersezio, La plebe, Favale, 1869.
  • Vittorio Bersezio, La testa della vipera, Sonzogno, 1896.
  • Vittorio Bersezio, Le miserie 'd monsú Travet, in "Il teatro Italiano", volume V, "La commedia e il dramma borghese dell'Ottocento", tomo secondo, Einaudi, 1979. ISBN 8806464031
  • Vittorio Bersezio, Massimo d'Azeglio, Rivista contemporanea, Volume III, Pelazza Tipografia Subalpina, Torino 1855.
  • Vittorio Bersezio, Tre racconti, Barbèra, 1876.

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Opere[modifica]