Francisco de Quevedo

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Francisco de Quevedo

Francisco Gómez de Quevedo y Santibáñez Villegas (1580 – 1645), scrittore e poeta spagnolo.

Citazioni di Francisco de Quevedo[modifica]

  • Colui che perde la reputazione per gli affari, perde affari e reputazione.[1]
  • Essi avevano compreso la proposta del Re di Francia, e avrebbero voluto recarsi a rendere obbedienza al suo ordine, ma erano rimasti in tal modo incollati ai sedili (asientos) di Spagna, che non erano in grado di alzarsi. Sarebbero anche andati in Senato trascinandosi dietro i sedili, ma non era possibile sradicarli dal suolo, perché erano inchiodati nel regno di Napoli e in Sicilia ed erano ribattuti con i prestiti alla corona di Spagna.[2]
  • Fanno meno danno cento delinquenti che un cattivo giudice.[3][1]
  • Genova consiste di tante repubbliche quanti sono i nobili, e ha tanti miserabili schiavi quanti sono i plebei. E tutte queste repubbliche personali, si riuniscono in un palazzo al solo scopo di calcolare i nostri beni e mercanzie, per rosicchiarli, facendo salire e scendere la moneta: si comportano come malfattori nei confronti dei nostri beni e cercano sempre di ridurre in povertà la nostra intelligenza. Fanno uso di noi come se fossimo spugne, mandandoci in giro per il mondo in modo che, inzuppandoci negli affari, assorbiamo ricchezza: e poi, quando ci vedono ben gonfi di beni, ci spremono a vantaggio loro. (plebeo genovese[4])
  • Il gusto di compiacere l'amico è un demonio tentatore.
El gusto de complacer al amigo es diablo tentador.[1]
  • Il tanto diventa poco se si desidera ancora un po' di più.[5][1]
  • In Roma cerchi Roma, o pellegrino, | e proprio in Roma Roma non ritrovi; | le vantate muraglie, morti covi | sono, e di sé sepolcro l'Aventino. || Giace, dove regnava, il Palatino; | son limate dal tempo le medaglie; | sembrano più macerie di battaglie | degli evi, che blasone del latino. || Solo è restato il Tevere, corrente | che bagnò la città: or sepoltura, | la piange con funesto suon dolente. || Roma, da quella gloria così pura | fuggì ciò ch'era saldo e solamente | il fuggevole ormai permane e dura. (A Roma sepolta nelle sue rovine, traduzione di Vittorio Bodini, Associazione Culturale Allegorein[6])
  • L'invidia è così magra e pallida perché morde e non mangia.[1]
  • Nelle Indie con onore nasce | e in giro dove il mondo l'accompagna | finisce per morir qui in Spagna | mentre a Genova qualcun lo seppellisce [...].[7]

I sogni[modifica]

  • I Genovesi s'accapigliano per i quattrini? [...] Torno spezzatino! Figlio mio, i Genovesi son come la scrofola, per il danaro; ed è una malattia, questa, che deriva dal praticare con i gatti o con i sacchetti di pelle di gatto pieni di dobloni. E si capisce che si tratta di scrofola, dal fatto che solamente il danaro che va in Francia riesce a guarirla, perché il re di Francia non consente ai Genovesi d'immischiarsi nei suoi commerci. E volevi che io uscissi di qua, proprio quando le strade son piene di codeste rogne delle borse? Vorrei diventare, non dico spezzatino dentro questa boccia, ma addirittura polvere da asciugare lo scritto, piuttosto di vedere codesta gente impadronirsi d'ogni cosa! (marchese, p. 136)
  • La verità fa dimagrire, ma non fallisce: e da ciò si comprende che i Genovesi non sono la verità, perché dimagriscono, sì, ma falliscono. (p. 136)
  • — Ascoltane un'altra [profezia], allora:
    Con le penne voleremo
    ed andremo con due piè:
    sei sarà due volte tre.
    «Con le penne voleremo»: voi credete che io parli per gli uccelli, ma vi sbagliate, e sarebbe una sciocchezza da parte mia. Lo dico invece per i cancellieri e per i Genovesi, perché è tutta gente che con la penna vi fa volar via il danaro dinanzi agli occhi. (p. 145)
  • [...] dicono che io non ho mai detto né male né bene; ma invece le cose stanno proprio al contrario, perché, quando vedevo entrare in casa mia un poeta, dicevo: «Male!», e quando invece ne vedevo uscire un mercante genovese, dicevo: «Bene!». Se vedevo mia moglie con qualche spasimante giovincello, dicevo: «Male!»; ma se la vedevo con un banchiere, dicevo: «Bene!». Se mi scontravo sulle scale di casa con qualche spadaccino, dicevo: «Stramale!»; mentre dicevo: «Strabene!», quando m'imbattevo in commercianti e fornitori. Che altro bene e male avrei potuto dire, più di così? (p. 162)

Sonetti[modifica]

  • Chiudere potrà i miei occhi l'estrema | ombra che a me verrà col bianco giorno, | e l'anima strappare al suo soggiorno | quell'ora che lenisca i miei dolori. (Amor constante más allá de la muerte)[1]
  • Era un uomo attaccato a un naso. (A un hombre de gran nariz)[1]
  • Fu sogno ieri; domani sarà terra! | Poco prima, nulla; e un po' dopo, fumo![1]
  • Ieri sparì, Domani non è giunto, | l'Oggi se ne va via senza fermarsi; | sono un Fu, un Sarà, un È già smunto. (Ehi, della vita! nessuno risponde?)[8]
  • Un'anima che ha avuto un dio per carcere, | vene che a tanto fuoco han dato umore, | midollo che è gloriosamente arso, | il corpo lasceranno, non l'ardore; | anche in cenere, avranno un sentimento; | saran terra, ma terra innamorata. (Gli occhi miei potrà chiudere l'estrema)[9]

Vita del Pitocco[modifica]

Incipit[modifica]

Io, signore, sono di Segovia. Mio padre si chiamò Clemente Paolo (Dio l'abbia in gloria) nativo del borgo appunto di questo nome. Fu, come si dice comunemente, barbiere, quantunque le sue spirazioni fossero tanto elevate che si limava perché chiamato cosí, e diceva che lui era lavoratore della guancia e sartore delle barbe. Era, come si dice, di molto buon vitigno e, a come beveva, c'è da crederci. Aveva in moglie Aldonza Saturno de Rebollo, figlia di Ottavio de Rebollo Codillo e nepote di Lepido Ziuraconte.

Citazioni[modifica]

  • Dio ti guardi da libro cattivo, da sbirri e da donna di pelo rosso, pigolona e dalla faccia di luna piena. (Al lettore)

Libro I[modifica]

  • In questo mondo [...] chi non ruba non vive. (padre di Pablos: cap. I, p. 8)
  • [...] salii su di un cavallo rifinito e languente, il quale, più perché zoppo che perché bene educato, andava facendo continue riverenze. Nel deretano pareva una bertuccia, coda non ne aveva quasi, il collo era quello di un cammello e anche più lungo, in testa non aveva che un occhio e pure sbiancato. Gli si riconoscevano le penitenze, i digiuni patiti, le ladrerie di chi doveva fornirgli la razione. (II, pp. 12-13)
  • [Il dottor Capra] La prima domenica di quaresima entrammo in balìa della fame in persona, giacché quella miseria non poteva esser maggiore. Era un prete lungo come un cannone, uno spilungone ma dalla testa piccola, di pelo rosso: non occorre aggiungere altro per chi conosce il proverbio che dice: uomo rosso e cane lanuto piuttosto morto che conosciuto. Gli occhi aveva rintanati nel fondo della testa, da sembrare che guardasse dal profondo di due corbelli; tanto incavati e oscuri che parevano fatti apposta per servire da fondaci; il naso, un che di mezzo tra Canino e San Marcello poiché gli era stato corroso da certe pustole prodotte da umori freddi, non da viziosità, perché queste costano quattrini. I peli della barba aveva pallidi dalla paura della vicinanza della bocca la quale, dalla gran fame, pareva minacciasse di mangiarseli. Di denti gliene mancava non so quanti e credo che dovettero essere stati mandati in esilio perché sempre in ozio e vagabondi; il gorguzzule lungo come quello di uno struzzo, con la noce tanto sporgente che sembrava andare in cerca di che mangiare, incalzata dalla necessità; le braccia risecchite, le mani ciascuna come una manciata di frasche secche. Guardato dal mezzo in giù pareva una forchetta o un compasso con quelle sue gambe lunghe e magre; incedeva teso teso, che se disordinava un po', le ossa gli crocchiavano come le tabelle della settimana santa.
    Parlava lento, e la barba aveva lunga perché mai se la tagliava per non spendere, mentre lui diceva che era tanta la ripugnanza del sentirsi le mani del barbiere su per la faccia che piuttosto si sarebbe lasciato ammazzare che permettere una tal cosa; i capelli glieli scorciava un garzone dei suoi pensionati. Portava un berretto i giorni di bel tempo, sforacchiato tutto dai topi e guarnito di untume; si vedeva che era stato panno; il fondo era tutto un impasto di forfora. La sottana, al dir di certuni, era un miracolo, perché non si sapeva di che colore fosse. Chi, vedendola cosi spelacchiata, la riteneva per pelle di ranocchio, chi diceva ch'era un'allucinazione: da vicino pareva nera, da lontano poi quasi azzurra. La portava senza cintola; non collare né polsini; sembrava, con que' suoi capelli lunghi e la sottana rifinita e corta, un beccamorti. Ognuna delle sue scarpe poteva essere il sepolcro di un gigante. E la sua abitazione? Non c'erano neanche ragni. Faceva degli scongiuri contro i topi dalla paura che gli rosicchiassero certi seccherelli che riponeva. Aveva il letto per terra e dormiva sempre da un lato per non consumare le lenzuola; in-somma era arcipovero e arcimisero. (III, pp. 16-18)
  • Ma quando a uno gli succedono delle disgrazie, pare che non finiscano mai; sono anelli di una catena, e l'una tira l'altra. (Don Pablos: cap. VI, pp. 42-43)
  • [...] chi non sa che due compari, se cupidi l'uno e l'altro, facendo lega insieme debbono cercare d'ingannarsi a vicenda? (Don Pablos: cap. VI, pp. 52-53)
  • «Possibile che non ci abbiate badato? Non so come fare a dirlo: l'irriverenza è tale che non me ne dà l'animo. Non vi ricordate d'aver detto pio pio ai polli? E Pio è nome di papi, dei Vicari di Dio e capi della Chiesa! O mandatevelo giú quel peccatuccio!». Lei rimase mezza morta e disse: «Paolo, è vero! ma, che Dio non mi perdoni se l'ho fatto a malizia. Io mi ricredo: tu guarda se c'è una via da potersi evitare l'accusa, perché se mi vedessi davanti all'Inquisizione ne morirei». (VI, p. 54)
  • [...] io penso che la coscienza nei commercianti è come la verginità in una ciana [donnaccia], che viene spacciata senza che ci sia. Di quanti sono di questa razza nessuno ha coscienza, perché sentendo dire che essa morde per un nonnulla, risolsero di disfarsene insieme col cordone ombelicale nel venire al mondo. (Don Pablos: cap. X, p. 93)
  • [...] uno poi non si contenta solo di quel che ha, ma l'altrui dà anche qualche pensiero. (Don Pablos: cap. XII, p. 110)
  • Prima di tutto devi sapere che nella capitale [Madrid] c'è sempre il grande stupido e il gran giudizioso, il gran ricco e il gran povero, insomma gli estremi d'ogni cosa; che per i malvagi si lascia correre e vi sono ignorati i buoni; che vi è una certa specie di gente, come sarei io, di cui non si sa né di dove venga, né cosa abbia, né altro che la riguardi. (Hidalgo: cap. XIII, p. 111)
  • [...] chi si sa barcamenare, sta da re col poco che abbia [...]. (Hidalgo: cap. XIII, p. 117)

Libro II[modifica]

  • Ma guardate lí quel mucchio di cenci che pare un fantoccio da ragazzi, piú desolato d'una pasticceria in quaresima, con piú buchi d’un flauto, piú pezzato di una chinea, piú variegato d'un diaspro, piú punteggiato di un libro di musica! [insulto] (studente a soldato; II, p. 140)
  • Ci imbattemmo in un genovese, dico uno di questi anticristi del denaro spagnolo, che saliva al valico con il suo parasole e un paggio dietro, con tutta l'aria del riccone. Attaccammo discorso con lui. Andava sempre a finire sul tema dei quattrini, perché è gente nata apposta per il portafogli.[10] (Don Pablos: cap. III)
  • [...] non nacque mai al mondo un artista come lui [Lorenzo del Pedroso] in dir bugie, tanto che nemmeno per errore diceva la verità. (Don Pablos: cap. III, p. 142)
  • Quattrini e amore non si celano [...]. (Albergatrice: cap. V, p. 159)
  • Credendo che io possedessi del denaro, bisognava vedere come mi dicevano che in me tutto stava bene! Non facevano che dire dei miei discorsi, che non c'era chi avesse nel parlare grazia pari alla mia. Al vederle tanto inuzzolite, io feci la mia dichiarazione d'amore alla ragazza e lei mi stette a sentire, contentona, dicendomi mille cose piacevoli. Ci separammo, e una sera per confermarle di piú nella idea della mia ricchezza, chiuso in camera mia, che era divisa dalla loro da un tramezzo molto sottile, e cavati fuori cinquanta scudi, tante volte li contai che dovettero sentirne contare un seimila. Questo del vedermi possedere, secondo loro, tanto denaro, era quel che potessi desiderare di meglio, perché non dormivano dalla voglia di trattarmi bene e servirmi. (V, p. 159)
  • [...] non c'è donna, per vecchia che sia, che non abbia, in ragione dell'età, altrettanta presunzione. (Don Pablos: VI, p. 169)
  • [...] il denaro che si abbia al nostro comando signoreggia tutto, né c'è alcuno che gli manchi di rispetto [...]. (Don Pablos: cap. VII, p. 172)
  • [...] io non voglio le donne per consigliere né per tenermi allegro, ma per andarci a letto, mentre se son brutte e istruite è lo stesso che andare a letto con Aristotele e Seneca o con un libro [...]. (Don Pablos: VII, p. 174)
  • S'abbia il malanno chi si fonda sui quattrini di mal acquisto: se ne vanno come son venuti! (Don Pablos: cap. VII, p. 181)
  • Fui contento della lettera, perché la donna era davvero intelligente e bella. Mangiai e mi misi il vestito con cui solevo sostenere nelle commedie la parte degli amorosi; me ne andai poi subito alla chiesa, pregai e subito cominciai con gli occhi a passare una per una tutte le incrociature e i pertugi della grata per vedere se lei appariva. Quando Dio volle alla buonora (meglio quando il diavolo volle, alla malora), ecco che sento il segnale usato; cominciò a tossire, cioè, ma era invece un tossir malandrino: contraffacemmo cosí un'infreddatura e pareva che nella chiesa fosse stato sparso del peperone. Alla fine ero già stanco di tossire quando mi si affaccia alla grata una vecchia a tossire. Capisco allora il mio guaio: è segnale quanto mai pericoloso nei conventi la tosse, perché quello che è un segnale per le giovani è abitudine nelle vecchie; cosí che uno crede che sia richiamo per un rosignolo e invece vien fuori una civetta. (IX, pp. 204-205)
  • Non voglio illuminarti intorno ad altro: questo basterà per sapere che devi vivere guardingo, giacché è certo che sono infinite le gherminelle che ti taccio. Si chiama dar morte il portar via il denaro, e l'espressione è propria; garbuglio chiamano il tiro contro l'amico, che per essere davvero cosa ingarbugliata, non è capita; doppi sono coloro che attirano i sempliciotti, perché questi rastrellatori di borse li sveltiscano; bianco chiamano chi è privo di malizia e buono come il pane; nero colui che, avendo fatto del suo meglio, resta deluso. (X, pp. 211-12)

Explicit[modifica]

Vedendo che questa faccenda andava in lungo e piú durava a perseguitarmi la fortuna (non per avere imparato a mie spese, poiché non sono cosí assennato, ma perché pur peccatore caparbio) decisi, consigliandomi prima con la Grajales, di passare alle Indie con lei, per vedere se, mutando mondo e paese, avessi avuto una sorte migliore. Ma fu peggio, giacché non migliora mai la propria condizione chi muta soltanto di paese e non di vita o di costumi.

Note[modifica]

  1. a b c d e f g h Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  2. Da L'ora di tutti, ovvero la Fortuna mette giudizio. Fantasia morale, p. 125
  3. Da Política de Dios y gobierno de Cristo.
  4. Da L'ora di tutti, ovvero la Fortuna mette giudizio. Fantasia morale, p. 161
  5. Da Las cuatro pestes del mundo, "Pobreza".
  6. Citato in Roma in Rima, archivio.unita.news, 20 gennaio 1998.
  7. Da È un cavaliere potente il signor Denaro, vv. 9-12; citato in Elvira Marinelli, Poesia: antologia illustrata, Giunti Editore, 2002, p. 274. ISBN 9788844025496
  8. In Sonetti amorosi e morali.
  9. In Sonetti amorosi e morali, 9-14.
  10. Francisco De Quevedo y Villegas, Il furfante, traduzione di Lucio D'Arcangelo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996, p. 76. ISBN 88-04-40795-6

Bibliografia[modifica]

  • Francisco de Quevedo, I sogni, traduzione di Antonio Gasparetti, Ugo Guanda Editore, Parma, 1988. ISBN 88-7746-304-x
  • Francisco de Quevedo, L'ora di tutti, ovvero la Fortuna mette giudizio. Fantasia morale, traduzione di Walter Ghia, Name, Genova, 2000. ISBN 88-87298-19-X
  • Francisco de Quevedo, Sonetti amorosi e morali, traduzione di V. Bodini, Einaudi, 1965.
  • Francisco de Quevedo, Vita del Pitocco, traduzione di Alfredo Giannini, Formìggini, Roma, 1917.

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