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Diego Garoglio

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Diego Garoglio (1866 – 1933), poeta, insegnante e politico italiano.

Versi d'amore e prose di romanzi

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  • La lirica della Vivanti, in conseguenza del suo carattere eccessivamente soggettivo (per questo lato il Carducci non à avuto torto di chiamarla romantica) è una lirica essenzialmente egoistica, che canta quasi soltanto il giocondo oblio delle gravi e tristi cose nell'ebbrezze presenti dell'amore, il ricordo e il rimpianto delle dolcezze passate, il desiderio e la speranza delle future, l'ansiosa preoccupazione, l'aspettazione di fatali ed amari disinganni, il proposito di rifarsene colle tumultuose gioie di nuovi amori:
    Amar stasera ed obliar domani | ecco il mio fato...
    (p. 14)
  • Ricorderò [...] come elemento caratteristico e vivo, e come tale poetico, di parecchie liriche della Vivanti, un non so che di audace, di impetuoso, di vulcanico che invade con larga onda qualche strofa, e attraverso alle incertezze e alle imperfezioni della tecnica, comunica a tutto l'insieme della lirica un calore intimo ed un movimento particolare conseguito anche, in parte, colla ripetizione insistente di un ritornello, di un semplice emistichio. (pp. 17-18)
  • Nelle liriche della Vivanti ci sono difetti fondamentali, che ne scemano molto i notevoli pregi (i quali non si possono disconoscere senza ingiustizia): riguardo al contenuto, un discreto fondo di retorica, una gran quantità di luoghi comuni, un umorismo ed un verismo di cattiva lega che non soltanto fanno cattive addirittura molte liriche, ma guastano anche in parte qualcuna delle buone, e, riguardo alla forma (guaio forse peggiore), la mancanza quasi costante di quel raffinato senso della misura, di quei sereni intendimenti artistici dei quali il poeta non può e non deve fare a meno, checché in contrario si dica o si scriva.
    Mentre in parecchie liriche della giovane poetessa si ammira qua e là e si riconosce come dote preziosa di un vero poeta lirico, la sincerità del sentimento, si rimane poi disgustati spesse volte nell'incontrare delle intere poesie (diciamole pur così) che sono, da cima a fondo, fior di retorica, false cioè e convenzionali, d'un convenzionalismo non meno ripugnante di quello che, come abbiamo sentito, la poetessa proclama di aver tanto in uggia. (p. 20)
  • Le Rime di Argia Sbolenfi non avendo alcun serio valore come opera d'arte, (come riconosce argutamente e prudentemente nella prefazione lo Stecchetti), non meriterebbero certo una recensione, e tanto meno un articolo sul Marzocco, se non si prestassero a parecchie utili osservazioni ed a qualche malinconica riflessione.
    Olindo Guerrini, Lorenzo Stecchetti ed Argia Sbolenfi sono, aimè! la stessa ed unica persona nei diversi avatara di bibliotecario, di poeta romantico-naturalista e di poetessa (?) pornografico-politico-socialista. Olindo Guerrini, com'è risaputo, non avendo mai posseduta un'anima propria di poeta, e pure smaniando di apparire anch'egli cinto del sacro lauro, à sempre sentito il bisogno, per apparir qualcuno e qualchecosa, di esser qualchedun'altro e qualchecos'altro, mistificando da una parte il pubblico, e solleticandone dall'altra, col pretesto del verismo, i più bassi e ciechi istinti. (p. 35)
  • Del poeta il Cena à innegabilmente le caratteristiche essenziali: l'intuizione personale della natura e della vita, il sentimento profondo, l'immaginazione vivace: la musicalità, se non m'inganno, nonostante talune poesie dal ritmo o dalle rime suggestive che mi si potrebbero opporre, (ad es. Ranz de vaches e La Ninna Nanna) egli generalmente non la possiede ancora in grado eminente. (pp. 105-106)
  • [Giovanni Cena] Molte volte, quasi sempre, nella sua lirica troviamo il germe veramente poetico: raramente questo è condotto alla sua più matura espressione d'arte, sicché in tutto il volume [In Umbra] poche sono le poesie che soddisfacciano completamente, assolutamente, nell'insieme come nei particolari. Il poeta spesso non riesce ancora ad elaborare, a trasformare poeticamente che una parte – grande o piccola – della materia a cui vuol dare la seconda vita; e ciò dipende da un grave difetto generale: la mancanza di concentrazione, di sintesi poetica, e della conseguente eliminazione di particolari impoetici – almeno nell'espressione loro. La prolissità, se é difetto grave pur nella prosa che consente l'analisi, é addirittura esiziale nella poesia. Il Cena non à saputo abbastanza guardarsene, e in molte poesie dice spesso in due tre strofe ciò che, addensato in una, avrebbe significato la stessa cosa con maggiore potenza espressiva. (p. 108)
  • [...] la personalità poetica del Cena non si è ancora completamente purificata da influssi di scuola, di scuole più meno moderne. Ora è un rozzo naturalismo Stecchettiano che ci offende, come in Bruti o in Cenci; ora un cattivo ricordo Leopardiano:
    Così colei che fu matrigna sempre | anco per invecchiar non cangia tempre, | feconda ognora d'infelici vite;
    ora il ricorso di abusate forme classiche accanto alle più spontanee e vive; ora il richiamo involontario al Prati, al Pascoli (Il cuore), al Carducci ed al Pascoli (in Lembi d'azzurro), al D'Annunzio ed ai simbolisti francesi (in A mia sorella e specialmente in Apparizione). (p. 109)
  • Leggendo [Lumiere di Sabbio] si direbbe a tutta prima che l'opera dell'Agostini manca d'unità, e che i racconti che si succedono non costituiscono veramente l'organismo di un libro; a mano a mano però che si procede nella lettura, e sopratutto quando siamo arrivati alla fine, l'idea generale informatrice splende nitidamente, come una luce più viva che soverchiando altre luci, pure tra ombre e penombre, illumini tutta la scena di un paesaggio vario d'aspetti e di figure.
    Difatti i racconti, che presi uno per uno, non sembrano veramente tali nel senso più ovvio della parola, tanto scarsa ne è la trama narrativa, e non sono neppure semplici descrizioni per quanto ben fatte, ci si colorano invece come veri capitoli di un libro quando noi li vediamo convergere tutti, come i raggi al mozzo di una ruota, ad uno stato psicologico fondamentale e ad un comune fine estetico e civile. Il ricordo e il rimpianto sereno dell'età più gioconda, dall'infanzia all'adolescenza, trascorsa in un villaggio della Maremma Toscana, che ci dà lo sfondo a tutti i quadri naturali, e il mezzo in cui si muovono, grandi e piccini, tutti i personaggi, costituisce il nucleo narrativo e lirico dell'opera, il filo aureo che unisce tutti i racconti come le perle di una collana. (pp. 301-302)
  • Maestri all'arte dell'Agostini sono stati, tra i viventi, Giosuè Carducci, e massimamente Giovanni Pascoli (la dedica dell'opera a lui ne è già la spontanea, sincera confessione) dal quale à preso le mosse, dal cui influsso anzi non è ancora riuscito a liberarsi del tutto, piuttosto forse per una certa compiacenza di congenialità artistica e per affinità di materia trattata, che per poca lucidità di coscienza artistica e per fiacchezza di propositi. Ma anche nella stessa derivazione dal Pascoli, di cui più d'una pagina serba ancora le visibili impronte, l'Agostini à saputo affermarsi scrittore personale, indipendente. (p. 305)
  • Meno diretti maestri [di Carducci e Pascoli], e forse meno pericolosi al libero sviluppo della sua personalità, sono stati [per Emilio Agostini] i classici greci e latini, e chi dilettandosi nella ricerca delle così dette fonti, sottilmente e minutamente indagasse, in questa o in quella pagina noterebbe derivazioni così da Omero e Pindaro, come da Virgilio e da Orazio. (p. 306)

Bibliografia

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