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Giovanni Amendola

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Giovanni Amendola nel 1923

Giovanni Amendola (1882 – 1926), politico, giornalista e accademico italiano.

Citazioni di Giovanni Amendola

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  • Inibire il dato di un momento della nostra vita non significa distruggerlo – ed una serie d'inibizioni non è una serie di distruzioni che facciano della vita un deserto. Inibire il dato d'un momento significa contenerlo, trattenere cioè la manifestazione di una forza naturale, lasciando per ciò stesso il campo libero ad un'altra che tende pure a manifestarsi e la cui manifestazione rimarrebbe inibita qualora la precedente, che è stata trattenuta dalla volontà, non fosse in qualche modo arrestata.[1]
  • La Patria per il popolo, anche il popolo per la Patria.[2]
  • Mentre si può trascurare di seguire le variazioni del concetto di categoria nei vari neo-kantiani tedeschi, senza perciò perdere alcun nuovo elemento essenziale per la soluzione di questo problema, non si potrebbe invece lasciare in disparte la dottrina di Renouvier, ch'è dottrina nuova, e, sopratutto, feconda di ulteriore progresso: sebbene il nome di neocritticismo, col quale è generalmente conosciuta, faccia credere ad un semplice ritorno a Kant – simile a quello che si operò in Germania per opera dello Zeller e del Lange. In verità, il criticismo di Renouvier non gli tolse di concepire conoscenza e realtà in tale modo, che implica non solo Kant, ma anche l'idealismo da lui derivato, e che costituisce, di fronte alla filosofia tedesca, un tentativo di sintesi e di progresso. Quattro punti ci sembrano sopratutto degni di attenzione nella sua dottrina; e cioè: la concezione della relazione come categoria delle categorie, la distinzione della categoria nei momenti logici nei quali può decomporsi, l'introduzione della categoria della Personalità, e la concezione del rapporto fra la categoria e la realtà.[3]
  • Renouvier si propone di fondare il sistema delle categorie su di un principio generatore unico; egli assume come punto di partenza la filosofia di Kant, ma intende scoprire la legge generale delle categorie kantiane e ridurle ad unità, senza però pregiudicare in questo tentativo il problema del rapporto fra conoscenza e realtà. Come vedremo, per questo riguardo il suo pensiero differisce notevolmente da quello di un Fichte o di un Hegel. Ma, quando egli afferma che la relazione è la legge generalissima alla quale tutte le categorie sono subordinate, egli trae, si può dire, la conclusione dalle dottrine idealistiche che lo hanno preceduto e la esprime con una formula definitiva.[4]
  • Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito "totalitario", il quale non consente all'avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate nella confessione "credo". Questa singolare "guerra di religione" che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede [...] ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza – la vostra e non l'altrui – e vi preclude con una plumbea ipoteca l'avvenire.[5]

In difesa dell'Italia liberale

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  • [...] si obbietta, da destra come da sinistra, che la democrazia non può pretendere di conservare la sua funzione orientatrice, la sua posizione direttiva nella vita pubblica italiana perché essa non ha saputo organizzarsi come partito, perché essa non è un "partito di masse". Ed ecco sorgere, sulla nostra via, il mito dei partiti di masse, che sono, in definitiva, partiti di minoranze, dietro i quali vive e prospera il fenomeno sindacale. Il partito fascista, a mano a mano che subisce l'inflazione sindacalista, assume sempre più il carattere di partito di masse, così come l'assunsero precedentemente, nelle medesime condizioni, il partito socialista ed il partito popolare. Ora codesti partiti, cosiddetti di masse, hanno come caratteristica la dipendenza dagli interessi economici delle classi o categorie raccolte in sindacati, e la disciplinata organizzazione sotto la direttiva di piccoli ceti di professionali della politica; essi stessi possono anzi considerarsi, in più largo senso, come accolte di professionali della politica, i quali ricollegano a tale esercizio professionale, o la difesa di essenziali interessi economici, oppure il proprio ufficio personale congiunto alla propria esistenza. Si tratta, pertanto, di ceti limitati e selezionati, anche quando le tessere si contino a milioni. La grande maggioranza del popolo italiano vive fuori di questi grandi reticolati di sindacati e di tesserati; essa è composta di milioni di uomini i quali consacrano la loro quotidiana esistenza all'esercizio di attività private e non di attività pubbliche, e che traggono i loro mezzi di vita dal lavoro individuale produttivo, e non già dalla politica esercitata su scala più o meno larga o ristretta. Questa grande maggioranza del nostro popolo cerca, col sentimento e con la ragione, nella democrazia, la espressione delle sue idealità, e la tutela degli interessi generali del Paese, e quando pensa e parla di politica, nelle ore lasciate libere al lavoro privato, non pensa agli interessi sindacali ma pensa all'Italia, e si chiede in qual modo la grande maggioranza degli italiani riuscirà ad imporre la sua volontà e la sua anima alle minoranze rumorosamente contendenti, onde comporre finalmente il loro conflitto in un fraterno e fecondo silenzio. Ora, questa maggioranza italiana, disorganizzata se si guarda alla tessera, ma politicamente viva e vibrante, anzi più viva e vibrante delle minoranze compatte ed omogenee che costituiscono i così detti partiti di massa, viventi una vita in gran parte artificiale, sovreccitata dall'esercizio della politica professionale – questa grande maggioranza italiana che custodisce la sanità della stirpe ed è il perno del nostro avvenire, chiede ai politici tutti di arrestare, finalmente, il tumultuoso disordine che impedisce e disturba ogni seria considerazione dei problemi nazionali, ed invoca e comanda che da oggi in avanti non un'ora sia più perduta nella sterile contesa. (p. 53-54)

Citazioni su Giovanni Amendola

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  • Il nostro colloquio durò più d'un ore e fu anche assai interessante; ma io non lo riassumerò. Riassumerò invece l'impressione che riportai di Amendola nella definizione breve che ho posto in testa a queste righe: L'ultimo dei liberali.
    Dei liberali – intendo – del periodo eroico, quando ciò voleva dire combattere un'aspra lotta con la prospettiva continua dell'esilio, della galera, della forca: non già dei profittatori ignobili del liberalismo.
    Si sprigionava dalle sue parole, dalle inflessioni della sua voce, da tutto il suo essere, una convinzione così assoluta nel principio classico della libertà costituzionale come norma di governo, che rendeva superflua ogni discussione. Amendola era veramente l'uomo della legge, intesa in un senso quasi mistico. (Alceste De Ambris)

Note

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  1. Da La volontà è il Bene, p. 23, Libreria ed. romana, Roma 1911; citato in Scipio Slataper, Ibsen, G.C. Sansoni Editore, Firenze 1944.
  2. Citato da Agilulfo Caramia nella pomeridiana del 4 giugno 1948 della Camera dei Deputati.
  3. Da La categoria. Appunti critici sullo svolgimento della dottrina delle categorie da Kant a noi, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna, 1913, cap. IV, pp. 81-82.
  4. Da La categoria. Appunti critici sullo svolgimento della dottrina delle categorie da Kant a noi, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna, 1913, cap. IV, p. 82.
  5. Da Un anno dopo, in: Il Mondo, 2 novembre 1923, cit. in: Il Totalitarismo alla Conquista della Camera Alta. Inventari e Documenti, a cura e con un saggio di Emilio Gentile, Rubbettino Editore, 2002, p. 11.

Bibliografia

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  • Giovanni Amendola, In difesa dell'Italia liberale, in "I Progetti del Corriere della Sera", "I Maestri del pensiero democratico", n. 11.

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