Giuseppe Biadego

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Giuseppe Biadego (1853 – 1921), bibliotecario, storico e accademico italiano.

Discorsi e profili letterari[modifica]

  • Tra gli artisti nessuno, dopo Giotto, ebbe nei secoli decimoquarto e decimoquinto tanti e così illustri lodatori come il Pisano. Lo salutava principe della pittura in Italia Biondo da Forlì; Basinio da Parma, il napoletano Porcellio Pandone e Guarino Veronese gli consacravano carmi latini; e Tito Vespasiano Strozzi lo paragonava a Zeusi e ad Apelle. (p. 67)
  • Dopo Venezia, dopo Roma, Ferrara ha la gloria di aver accolto il Pisano. Ferrara mortificata dai miasmi delle paludi del basso Po, non avrebbe fiorito per virtù propria. Il medio evo incombeva tetro e snervante con le sue superstizioni, con i suoi terrori: né un alito di vita moderna, fresco, purificatore era spirato tra le sue mura. La vita moderna non fu in Ferrara frutto indigeno; ma si infiltrò scendendo dai colli Euganei, ove errava ancora la dolce eco della canzone petrarchesca, migrando da Firenze ricca d'arti e di floridi commerci, movendo dalle verdi rive del sonante e verde nostro fiume. Le rive dell'Adige appresero a Ferrara il classicismo col Guarino, l'arte della pittura col Pisanello. Periodo veramente splendido nella vita della corte Ferrarese. (pp. 69-70)
  • Rinaldo Fulin fu un appassionato e profondo ricercatore del passato, fu un grande erudito. Basta, per convincersene, dare una rapida occhiata ai suoi scritti. Nei quali trovi quel che raramente incontri in uno scrittore di storia, cioè una grande esattezza di ricerche ed una forma facile ed elegante. Egli aveva l'arte di sapere scrivere di erudizione, senza stancar mai, senza affastellar notizie intralcianti la lucidità della narrazione; egli sapeva dire tutto ciò che gli premeva, senza darsi l'aria di voler mettersi in mostra e far vedere quanto copiosa ed estesa fosse la sua dottrina. (p. 102)
  • Il Fulin ne' suoi studi non esce di Venezia. Chi vorrà per questo accusarlo di municipalismo? Non uno, ma molti uomini del valore di Rinaldo Fulin ci vorrebbero a Venezia, perché la storia della gloriosa Repubblica venisse ampiamente e in tutte le sue parti narrata e illustrata come merita. (p. 106)
  • [Fulin] Raro ingegno, sorprendente attività, acutezza somma nella interpretazione dei documenti storici, eleganza e calore nella ricostruzione esatta, imparziale del passato, ecco i pregi singolarissimi dello scrittore che Venezia e l'Italia hanno perduto. Ma lo scrittore non è tutto l'uomo ; e chi ne discorrerà diffusamente dirà anche, che come grande aveva l'ingegno, così avea buono, modesto e mite l'animo. Non mite per altro a segno da soffrire tacendo le ingiurie e le accuse non meritate che ci venivano spesso d'oltr'alpe. In un fascicolo della Historische Zeitschrift pubblicata per cura di E. Sybel[1], comparve un articolo, in cui, notandosi di trascurata e manchevole una pubblicazione fiorentina, si conclude ch'è fatta alla maniera italiana. Il Fulin, dinanzi a questa asserzione, che avvolgeva nella condanna tutto un paese, non credette onesto il silenzio, e respinse sdegnosamente, con l'autorità che gli dava il suo nome, l'insolente accusa. E mentre si dichiarava disposto a riconoscere i meriti degli studiosi stranieri, e particolarmente dei tedeschi, non si tenne dall'esclamare, che se è molto il sapere dei nostri vicini del settentrione, «è molta anche in alcuni la presunzione, e si potrebbe anche dire leggerezza, con cui, a malgrado della grave soma d'erudizione che portano, trattano qualche volta le cose nostre». (p. 113)
  • Due autori prediligeva la Francesca [Lutti]: Dante e l'Ariosto. E dello studio profondo che sulle opere di questi deve aver fatto, ne sono prova solenne i suoi scritti, in cui la limpidezza e serenità del pensiero non sono vinte che dalla perfezione della forma. (p. 156)
  • Anima mite ed inclinata soprattutto alla pietà e al sagrificio, la Lutti si dimostra ognora ne' suoi versi mesta e addolorata. La sua mestizia non è né finta, né esagerata. E qui faccio osservare che per lo più le poetesse vanno di frequente ricercando i suoni dolorosi della loro lira; ed è naturale. Le donne, che vivono maggiormente nella cerchia ristretta della famiglia, hanno l'animo meglio educato a comprendere i dolori degli altri e a farsene esse medesime interpreti veracissime. (p. 157)
  • La Lutti ha un senso fino della società moderna; sa cogliere le più leggiere sfumature e addentrarsi nelle parti più intime e più difficili del cuore umano. Essa inoltre ha un senso squisito dell'arte, che non le permette di dire e di metter in rilievo se non ciò che artisticamente il verso può riprodurre. (p. 161)
  • Il Righi, che pur aveva ingegno non comune e studi classici nutriti, non seppe cavarsi dalle pastoie di quel romanticismo che aveva già fatto la sua strada e all'appressarsi dei nuovi tempi diventava un fuor d'opera: di quel romanticismo, per dirla con altre parole, che aveva trovato [...] il suo clima storico nelle condizioni politiche e sociali dell'Italia e della Francia dal '30 al '60. (p. 180)
  • Ettore Righi non lasciò, come poeta, un'orma propria; ma egli contribuì, come tanti altri, anche col verso a tener vivo quel sentimento che ci diede una patria libera ed una. Ben se n'accorse il governo austriaco, che cercando, per quanto poteva, di paralizzare l'opera di lui, gli negò, per mezzo dell'Appello Veneto, nel 1861 il permesso di esercitare come avvocato le funzioni di difensore nei processi penali: e ciò, si capisce, in seguito alle informazioni della Polizia. (pp. 180-181)
  • Cesare Betteloni fu un vinto della vita; ma non fu un vinto dell'arte. In tempi quieti non gli sarebbe stato negato subito il posto al quale ha diritto; onde questa commemorazione, lodevolmente promossa da privati cittadini, raccolta e fatta sua dalla vigile autorità del Comune, solerte custode d'ogni gloria cittadina, non può sembrare a nessuno una sterile esumazione d'un nome vano senza soggetto; ma per quanti amano l'arte fatta più cara dalla pietà di una grande sventura, dev'essere considerata una giusta, una dovuta rivendicazione. (p. 268)

Letteratura e patria negli anni della dominazione austriaca[modifica]

  • Carlo Montanari! Qual nome di patriota più alto e più degno può additare al mondo Verona; quale immagine più radiosa di martire può per se stessa invocare Verona?
    Carlo Montanari appare l' uomo, nella maturità dei tempi, destinato ad immolarsi per redimere la sua città: ed egli spontaneo s'immola e volonteroso sale quel patibolo che, come fu giustamente scolpito sul monumento dei martiri del 1853, doveva rovesciare il carnefice. (pp. 6-7)
  • [Carlo Montanari] Architetto valente fu autore di fabbriche che fanno fede del suo gusto squisito; scrittore geniale dettò uno studio sul censimento stabile delle Provincie venete, ove l'erudizione e la critica si danno la mano. Egli avrebbe potuto lasciare un'orma propria nel campo dell'arte e della letteratura scientifica, e facilmente primeggiare in mezzo al marasma del movimento letterario cittadino ridotto alla filologia del padre Sorio, al dilettantismo archeologico di Gaetano Pinali, alle manifestazioni letterarie e scientifiche del Poligrafo, un giornale da cui l'Austria non aveva nulla a temere. (pp. 14-15)
  • [Carlo Montanari] Egli era per l'indole sua ingegno più pratico che speculativo; e stimava che per lui il tempo, non di scrivere, ma d'operare fosse venuto. Mostravasi entusiasta di tutte le scoperte scientifiche, il vapore, il telegrafo, che avrebbero avvicinato affratellato le genti diverse e più lontane; e più dolevasi dell'avvilimento del popolo e più sentiva il bisogno di dare tutte le energie del suo spirito perché "la miseria (son sue parole) orribile causa di nefandezze e delitti scomparisse dalla terra, correggendo le molteplici ingiustizie sociali[2]". (p. 15)
  • Di solito, nelle opere d'uno scrittore non è tutto l'uomo; ma anche dalle opere emana spesso quanto basta per giudicare l'uomo. Gli scritti del Giuliari rivelano il sacerdote pio, zelante del proprio ministero per modo da anteporlo a qualunque miglior soddisfazione del letterato e dell'erudito, quale egli era, valentissimo: il cittadino schietto e coraggioso amico e difensore del suo paese in faccia allo straniero e in tempi difficili, perché, cattolico sincero, non voleva rinunciar nel tempo stesso ad essere italiano. (p. 216)
  • [Giovanni Battista Carlo Giuliari] Le sue opinioni, fortemente sentite e liberamente espresse, gli procacciarono (è facile imaginarlo) dispiaceri ed amarezze. Quando nel 1864 egli tradusse dal francese e pubblicò I principi del 1789 e la dottrina cattolica per l'ab. Leone Godard, ebbe gravi rabbuffi dal suo Vescovo; di che il buon Canonico si meravigliava, perché (egli annotava in calce ad una scheda inedita) il testo francese aveva avuto l'approvazione di una consulta di teologi romani. E a spiegazione del fatto concludeva: spiaceva ai gesuiti e tanto basta; essi valgono quanto e più della s. Sede Romana. Il Giuliari era bene ingenuo a maravigliarsi! Egli pretendeva troppo se voleva che i suoi avversari accettassero come canoni indiscutibili questi principi: cioè che i popoli non sono soggetti capevoli né di signoria né di proprietà; che i territori degli Stati non sono né possono essere in comune proprietà di chicchesia; che i popoli sono di se medesimi ed al comune loro bene, come a proprio fine, ordinati: e infine che i territori appartengono solo ai popoli e allo Stato, del quale il Principe è membro nobilissimo ma non signore e proprietario. (pp. 217-218)
  • Il discorso letto nel 1866 dal Giuliari nella Cattedrale: L'Italia francata a libertà e nazione fu dall'Unità cattolica (1867, n. 34) giudicato degno di Garibaldi: il che (leggesi anche questo in altra scheda, pure autografa e inedita, del Giuliari) pòrse coraggio all'Autore di spedirlo all'illustre Generale, che lo ricambiava di gentile autografo responso. Il nero giornale credette certo di spaventar l'Autore ponendogli innanzi la figura del diavolo; e invece non sortì altro effetto che metterlo di buon umore! Il Giuliari sapeva bene distinguere. (p. 218)

Note[modifica]

  1. Heinrich von Sybel (1817-1895), storico tedesco.
  2. C. Montanari, Il censo stabile delle provincie ex-venete. Memoria, in Memorie dell'Acc. di Agricoltura A. e C. di Verona, vol. XXIX; Verona, 1853, p. 109. [N.d.A]

Bibliografia[modifica]

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