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Wilbur Smith

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Wilbur Smith autografa una copia di The Quest (Alle fonti del Nilo)

Wilbur Addison Smith (1933 – 2021), scrittore zambiano.

Citazioni di Wilbur Smith

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  • Questi sono i frusti sentimenti di una donnetta debole e vile. Sei stanca e non stai bene. Ora dormi. E domani sarai di nuovo coraggiosa. Domani. (Centaine De Thiry in La spiaggia infuocata)
  • Ci sono gli eroi e ci sono anche i mostri, ma siamo quasi tutti comuni mortali, coinvolti in avvenimenti troppo feroci per noi. Forse alla fine di tutte queste lotte non erediteremo che le ceneri di una terra già bella. (Shasa Courteney in I fuochi dell'ira)
  • Essendo un esperto, Shasa sapeva che il denaro non era né buono né cattivo, ma semplicemente amorale. Sapeva che il denaro non ha coscienza, ma contiene il massimo esponenziale di bene e di male che ci sia. Era l'uomo che lo possedeva ad operare la scelta, e quella scelta si chiamava potere. (da I fuochi dell'ira)
  • Quando entrano in concorrenza per lo spazio vitale, gli animali perdono sempre. (da L'ultima preda)
  • Alcune viti crescono nel terreno sbagliato, altre si ammalano prima della vendemmia e altre ancora sono rovinate da un cattivo viticoltore. Non tutta l'uva fa il vino buono. (da La voce del tuono)
  • Il tempo scappa di mano, ancor più della ricchezza. Non c'è banca che possa tenere al sicuro questa cosa così preziosa, che spendiamo così prodigalmente in banalità. (da L'ombra del sole)
  • L'impazienza è sempre stata uno dei miei difetti. Quasi tutti gli errori che ho commesso sono stati provocati da quella. Ma con gli anni sono un po' migliorato... A venti, volevo vivere la vita intera in una settimana. Adesso mi accontenterei di un anno. (Bruce Curry in L'ombra del sole)
  • Se le lacrime potessero pagare i nostri debiti, se con le mie lacrime potessi comperarti un'indulgenza nei confronti di ogni dolore, se piangendo adesso potessi fare in modo che tu non debba mai piangere... allora piangerei fino a consumarmi gli occhi. (Sean Courtney in Il destino del leone)
  • Non scrivere mai per piacere al pubblico, ma per piacere a te. (da Il dio del fiume)
  • Per Dio, adesso capisco perché non vai a puttane. Sei una di loro. (Ralph Ballantyne in Gli angeli piangono)
  • In queste cose non mi sbaglio mai, amore mio. Farebbe di tutto per non disprezzarmi, così come ora fa di tutto per non odiarmi, ma non potrebbe farne a meno. Lui è Sean Courteney, intrappolato tra le ganasce d'acciaio del proprio onore. (in Gli eredi dell'Eden)
  • L'amore è la moneta più preziosa che hai a disposizione, usala nel mercato in cui sei sicuro di non essere ingannato. (da Uccelli da preda)
  • La passione di un uomo è come un incendio che scoppia nell'erba alta e arida: divampa ardente e furioso, ma viene domato ben presto. Una donna è come il calderone di un mago, che deve sobbollire a lungo sui carboni prima di poter sprigionare il suo incantesimo. Sii rapido in tutto, tranne che nell'amore. (da Uccelli da preda)

Incipit di alcune opere

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I Courtney Atto I

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Uccelli da preda

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La brusca inclinazione dell'albero costrinse il ragazzo ad aggrapparsi al bordo della coffa dov'era accovacciato, sessanta piedi sopra il ponte, mentre la nave virava di bordo e prendeva l'abbrivio col vento in poppa. Era una caravella e si chiamava Lady Edwina, dal nome della madre del ragazzo: una donna che lui ricordava a stento.

Monsone

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I tre ragazzi, risalendo la forra, sbucarono alle spalle della cappella, così da non farsi scorgere né dalla casa padronale né dalle scuderie. Come sempre li guidava Tom, il maggiore d'età, ma il fratello più piccolo gli stava alle costole e, non appena Tom fu giunto alla prima svolta del ruscello, in un punto che dominava il villaggio, il bambino riprese a protestare.

Orizzonte

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Fermi sulla battigia, i tre guardavano la luna, che stendeva sulle acque scure un sentiero di riflessi baluginanti e iridescenti.
«Mancano appena due giorni al plenilunio...» disse Jim Courteney in tono sicuro. «E gli steenbras rossi saranno famelici come leoni», aggiunse, riferendosi ai grandi pesci di profondità che appartenevano alla famiglia dei dentici. Spumeggiando, un'onda risalì la spiaggia fino a lambire le sue caviglie.

Il leone d'oro

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Non erano più uomini, erano i detriti della guerra sospinti dall'oceano Indiano sulle sabbie rosse dell'Africa. Molti dei corpi erano stati dilaniati dai colpi d'arma da fuoco o mutilati dalle armi affilate dei nemici. Altri erano annegati e, con la decomposizione, il gas che gonfiava il loro ventre li aveva fatti riaffiorare in superficie come tappi di sughero; gli uccelli marini saprofagi e gli squali se ne erano cibati con gusto. I pochi rimasti erano stati portati dalla risacca fin sulla spiaggia, dove i predatori umani aspettavano di spolparli.
Due bambini precedettero di corsa la madre e la nonna lungo la riva, strillando eccitati ogni qual volta scoprivano qualcosa depositato dal mare, non importava quanto trascurabile e insignificante fosse.
«Ce n'è un altro!» gridò il più grande dei due, in somalo. Indicò il punto in cui il pennone di una nave spiccata sulla spiaggia, unito a un lungo lembo di vela strappata. Vi era attaccato il corpo di un uomo bianco, che nel tentativo di salvarsi si era legato al pennone con una volta di cima di canapa. I due ragazzi si fermarono accanto alla carcassa, ridendo.

Il giorno della tigre

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La Dowager era troppo invelata. Una tiepida brezza monsonica sferzava l'oceano, punteggiandolo di creste bianche che scintillavano nella luce del sole, alto nel cielo color zaffiro. Vele di gabbia e velacci erano talmente gonfi da rischiare di strapparsi. Lo scafo appesantito si dibatteva fra le enormi onde dell'Oceano indiano. La nave stava fuggendo per cercare di mettersi in salvo.
Il comandante Josiah Inchbird era in piedi sul cassero a osservare, a poppavia, la nave che li inseguiva. Era comparsa all'alba, lunga, bassa e lucida come un lupo famelico, lo scafo nero costellato di portelli per i cannoni pitturati di rosso, e stava serrando le distanze.
Controllò l'ammasso di vele che svolazzava sopra la sua testa. Il vento era rinfrescato e le tendeva al massimo, sforzando le cuciture. Non osava bordarne molte altre perché avrebbe rischiato la catastrofe. D'altra parte, la catastrofe era inevitabile se lui non correva il rischio.

Orizzonte

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Fermi sulla battigia, i tre guardavano la luna, che stendeva sulle acque scure un sentiero di riflessi baluginanti e iridescenti.
«Mancano appena due giorni al plenilunio...» disse Jim Courteney in tono sicuro. «E gli steenbras rossi saranno famelici come leoni», aggiunse, riferendosi ai grandi pesci di profondità che appartenevano alla famiglia dei dentici. Spumeggiando, un'onda risalì la spiaggia fino a lambire le sue caviglie.
«Spingiamola in acqua, invece di star qui a chiacchierare», suggerì il cugino, Mansur Courteney, coi capelli che splendevano al chiaro di luna come rame lustro e un sorriso altrettanto luminoso. Diede di gomito al giovane nero che gli stava vicino, vestito solo di un perizoma bianco. Avanti, Zama. Così i tre si chinarono per spingere la piccola imbarcazione, che scivolò in avanti quasi con riluttanza prima di arenarsi nella sabbia umida.

Il fuoco della vendetta

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Fort St George, Madras, India, 1754

I due ragazzi si arrampicarono sul muro per poi lasciarsi cadere nel giardino. L'aria della sera era pervasa dal profumo estivo di fiori di gelsomino e dell'olio di cocco che bruciava nelle lanterne. Lunghe ombre li tennero nascosti mentre si avvicinavano furtivi alla villa.
Erano fratello e sorella. La ragazza, primogenita, portava i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, anche se presto, data l'età, le sarebbe stato richiesto un maggior decoro. Il sole indiano le aveva reso la pelle dorata. Aveva le curve di una donna, ma un morbido viso da ragazzina, pieno di malizia.
«Perché siamo venuti qui, Connie?» le chiese lui. Pur avendo un anno meno della sorella era più alto, cosa di cui andava molto fiero. Era di corporatura robusta e stava cominciando già ad assumere l'aspetto dell'uomo che sarebbe diventato. Aveva capelli rossi arruffati, vivaci occhi castani e un incarnato più scuro di quello della sorella, di un colore bronzo, che poteva farlo passare per indiano come per europeo.
Constance si accovacciò dietro un'anfora di terracotta. «Mr Meridew ha organizzato una riunione. Per soli uomini.»

I Courtney Atto II

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Il destino del leone

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Un fagiano selvatico solitario volava lungo l'erta della collina, quasi rasente i lunghi steli dell'erba. Quando raggiunse la cresta, reclinò le ali e allungò le zampe, poi scomparve al coperto. Dalla valle lo seguivano due ragazzi e un cane. Davanti veniva il cane, con la lingua rosea che penzolava all'angolo della bocca, e i gemelli lo seguivano correndo spalla a spalla. Avevano entrambi scure chiazze di sudore sulla camicia color kaki, poiché il sole africano era ancora caldo, anche se ormai mezzo nascosto dalla linea dell'orizzonte.

La voce del tuono

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Quattro anni di viaggio nella foresta, lontano da ogni strada, avevano ridotto i carri a malpartito. Molti raggi e timoni erano stati rifatti con legno dei bushveld; i teloni di copertura avevano tante toppe che la stoffa originale era appena visibile; decimati dai predatori e dalle malattie, i tiri erano ridotti da diciotto a dieci buoi per carro. Tuttavia quella piccola ed esausta carovana trasportava le zanne di cinquecento elefanti: dieci tonnellate d'avorio, il frutto della carabina di Sean Courteney; avorio che, appena arrivato a Pretoria, egli avrebbe convertito in circa quindicimila sterline d'oro.

Gli eredi dell'Eden

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Sul fronte francese incombeva un cielo livido e ingombro di nuvole basse, che rotolavano con lenta dignità verso le linee tedesche.
Il generale di brigata Sean Courteney aveva già passato quattro inverni in Francia e ormai, grazie anche alla sua esperienza di agricoltore, era in grado di giudicarne il clima con la stessa precisione con cui valutava quello della sua Africa natale.

I Courtney Atto III

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La spiaggia infuocata

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Michael si svegliò al tuono rabbioso dei cannoni. Era l'osceno rito antelucano di sempre. Dai due lati delle alture le poderose artiglierie avversarie sacrificavano selvaggiamente agli dèi della guerra.
Michael rimase sdraiato nel buio sotto il peso delle sei coperte di lana, guardando i lampi delle cannonate attraverso il telo. Sembrava una spaventosa aurora boreale. Le coperte erano fredde e viscide come la pelle di un morto, mentre pioggia e vento schiaffeggiavano la tenda sopra la sua testa. Il freddo cane, che lo mordeva fin sotto le coltri, gli infondeva anche un barlume di speranza: con quel tempo non si poteva volare.

Il potere della spada

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La nebbia gravava sull'oceano, smorzando suoni e colori, ma i primi refoli della brezza mattutina già ne increspavano il grigiore in un lieve turbinio ondeggiante: ben presto sarebbe sparita verso l'entroterra. Il peschereccio era a tre miglia dalla costa e si manteneva ai bordi della corrente, in quella zona di confine in cui le acque luminose dei bassi fondali si mescolano a quelle più scure e ricche di plancton vitale che sorgono dagli abissi, disegnando una linea netta di verde intenso.

I fuochi dell'ira

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Tara Courteney non vestiva di bianco dal giorno delle nozze. Il suo colore preferito era il verde, che meglio si adattava ai folti capelli castani.
Tuttavia l'abito bianco tornava a farla sentire una sposa, oggi, tremula e un po' impaurita, ma con un senso di gioia e dedizione profondo. Colletto alto e polsini erano impreziositi da pizzi, i capelli erano stati spazzolati fino a emettere bagliori rosso rubino nella chiarità solare del Capo. Le guance erano accese dall'eccitazione: benché avesse partorito quattro figli, aveva la vita sottile di una vergine.

L'ultima preda

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Era rimasta seduta senza muoversi per oltre due ore, e il bisogno di farlo era diventato quasi insostenibile. Ogni muscolo del uso corpo anelava alla liberazione. Aveva le natiche intorpidite e nonostante avesse ricevuto il consiglio di svuotare la vescica prima di entrare nel capanno da appostamento lei non lo aveva fatto, imbarazzata dalla compagnia maschile e ancora troppo intimidita dalla savana per allontanarsi da sola fino a un luogo isolato. Ora si rimproverava per quell'eccesso di pudore e di insicurezza.
Guardava dalla feritoia della rozza struttura ricoperta d'erba, situata all'estremità di una stretta galleria scoperta che i portatori avevano scrupolosamente liberato dalla fitta vegetazione della savana, perché anche un solo stelo avrebbe potuto deviare un proiettile lanciato a tremila piedi al secondo. La galleria era lunga una sessantina di iarde, sufficienti per consentire un perfetto allineamento del mirino telescopico del fucile.
Senza muovere la testa Claudia girò gli occhi verso il padre, seduto accanto a lei nel capanno. Aveva appoggiato la canna del fucile davanti a sé, nell'incavo di un ramo, e teneva la mano destra sul calcio: gli sarebbe bastato avvicinarlo alla guancia di pochi pollici per essere pronto a mirare e fare fuoco.

La volpe dorata

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Un nugolo di farfalle s'innalzò nel sole, la brezza le sparpagliò nel cielo estivo e centomila volti giovani e splendenti si volsero per seguirne il volo.
In prima fila tra quella folla immensa c'era una ragazza, la ragazza che lui stava osservando ormai da dieci giorni. Come un cacciatore che studia la preda, aveva finito per conoscere con una bizzarra intimità ogni suo gesto e movimento, il modo di voltare la testa quando qualcosa attirava la sua attenzione, il modo di inclinarla per ascoltare e di scuoterla in segno d'irritazione o d'impazienza. Ora, in un atteggiamento nuovo, la ragazza levava il volto verso la splendida nube d'insetti alati e, persino a quella distanza, l'uomo riusciva a scorgere il brillio dei denti mentre le labbra si atteggiavano in un morbido cerchio rosa di meraviglia.

Ciclo dei Ballantyne

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Quando vola il falco

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L'Africa stava accucciata sull'orizzonte, quasi un leone pronto all'agguato, color fulvo e oro nel primo sole, gelata dal freddo della Corrente del Benguela.
Robyn Ballantyne stava in piedi accanto al parapetto della nave e la guardava. Era lì da un'ora prima dell'alba, molto prima che si cominciasse a vedere la terra. Sapeva che era là, ne sentiva nel buio la vasta presenza enigmatica, ne avvertiva il respiro, caldo e secco di aromi, sopra le fredde esalazioni vischiose della corrente su cui correva la grande nave.

Stirpe di uomini

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Non era mai stato esposto alla luce del giorno, non una sola volta nei duecento milioni di anni da quando aveva assunto la sua attuale forma, eppure sembrava esso stesso una goccia di distillata luce solare.
Era stato concepito in un calore immenso quanto la superficie del sole, nelle impossibili profondità sotto la crosta terrestre, nel magma fuso che sgorgava dal cuore stesso della terra. A quelle terribili temperature ogni impurità era stata bruciata ed eliminata lasciando, soli e puri, gli atomi di carbonio che, sotto pressioni che avrebbero frantumato montagne, erano stati ridotti di volume e compressi a una densità non posseduta in natura da nessun'altra sostanza.

Gli angeli piangono

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Tre uomini uscirono a cavallo dalla foresta con un'impazienza trattenuta che neppure le settimane faticose di continua ricerca avevano potuto smussare.
Si fermarono a fianco a fianco e guardarono giù, in un'altra valle poco profonda. Tutti gli steli dell'erba inaridita dall'inverno portavano un seme lanuginoso d'un rosa tenero, e la brezza leggera li agitava e li faceva danzare, così che sul fondovalle le antilopi nere del branco sembravano immerse fino al ventre in una turbinante nebbia rosata.

La notte del leopardo

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Era un venticello che aveva già percorso più di mille miglia, perché veniva dal Kalahari, il vasto e desolato deserto che i piccoli boscimani gialli chiamano "Il Gran Secco."
Adesso che aveva raggiunto la valle dello Zambesi si rompeva in vortici e mulinelli tra le colline e le scarpate accidentate.

Il richiamo del corvo

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Il sole era gremito. Numerosi giovanotti in abito da sera erano stipati sui banchi, altri assiepati in piedi lungo il perimetro della stanza. L'aria illuminata dalle lampade era greve di sudore e alcol ed eccitazione, come durante un'incontro di pugilato a una fiera di contea.
Ma quella sera non sarebbe stato versato del sangue. Ci si trovava nella Cambridge Union Society, la più antica società di dibattiti del paese e terreno di prova per i futuri governanti della nazione, e l'unico socntro sarebbe stato verbale, le uniche ferite quelle arrecate all'orgoglio. O almeno così stabilivano le regole.
La sezione anteriore della sala era allestita come un parlamento in miniatura. Le due fazioni si fronteggiavano da banchi opposti e separati da una distanza pari alla lunghezza di due spade. Un giovane di nome Fairchild, con capelli di un biondo rossiccio e lineamenti eleganti, si stava rivolgendo al pubblico dall'apposito podio.

I Courtney incontrano i Ballantyne

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Il trionfo del sole

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Rebecca appoggiò i gomiti al davanzale dell'ampia finestra senza vetri, mentre il calore del deserto le soffiava in faccia come le esalazioni di un altoforno. Anche dal fiume sottostante sembrava salire del vapore, quasi fosse un calderone. In quel punto il grande corso d'acqua era largo quasi un miglio, poiché era la stagione della piena del Nilo, e la corrente era così forte da creare vortici e gorghi luccicanti su tutta la sua ampia distesa. Il Nilo Bianco era verde, adesso, e fetido del marciume degli acquitrini dove era appena passato, una zona di paludi che occupava una regione vasta quanto il Belgio. Gli arabi chiamavano quel grande pantano Bahr el Ghazal. Per gli inglesi, era il Sudd.

Il destino del cacciatore

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Il 9 agosto 1906 ricorreva il quarto anniversario dell'incoronazione di Edoardo VII, sovrano del Regno Unito e dei Dominion britannici, e imperatore d'India. Per pura coincidenza era anche il diciannovesimo compleanno di uno dei fedeli sudditi di Sua Maestà, il sottotenente Leon Couteney della compagnia C, terzo battaglione, primo reggimento dei King's African Rifles, più comunemente noti come KAR. Leon stava trascorrendo il compleanno a caccia di ribelli nandi lungo la scarpata della Rift Valley, nel cuore di quel gioiello dell'impero che era l'Africa orientale britannica.

Grido di guerra

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Erano trascorsi due mesi dalla dichiarazione di guerra; il sole autunnale brillava nel terso cielo della Baviera, talmente splendido che sembrava invitare a bere birra e cantare canzoni con voci stentoree e gioiose. L'Oktoberfest però era stata annullata e la limousine Double Phaeton che stava risalendo il vialetto d'accesso della villa di Grunwald, appena fuori Monaco, recava notizie tutt'altro che liete.
L'auto si fermò. Lo chauffeur aprì la portiera del passeggero a un distinto signore, prossimo alla settantina, che un maggiordomo in livrea fece entrare in casa. Dopo un istante Athala, contessa di Meerburg, alzò gli occhi mentre l'avvocato di famiglia, Viktor Solomons, entrava in salotto. Capelli e barba erano ormai argentei e il passo meno vigoroso di un tempo, ma il taglio impeccabile del completo, il candore scintillante del colletto inamidato alla perfezione e l'ineccepibile lucentezza delle scarpe rispecchiavano una mente precisa, acuta e perspicace come non mai.
Si fermò davanti alla poltrona di Athala, le rivolse un rispettoso cenno del capo e disse: «Buongiorno, contessa».
Aveva un'aria mesta, ma era logico che fosse così, rammentò Athala: l'amato figlio di Solomons, Isidore, si trovava al fronte. Nessun genitore poteva sentirsi in pace sapendo che la vita del figlio era alla mercé degli dei della guerra.

La guerra dei Courtney

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Era Parigi in primavera, una città fatta per gli innamorati nella più romantica delle stagioni, e fra tutte le coppie che passeggiavano sottobraccio nel giardino delle Tuileries in quel pomeriggio del Venerdì Santo del 1939 nessuna si amava più di quella formata dalla giovane alta e flessuosa e dall'uomo che la guardava sorridendo incredulo davanti alla propria fortuna. La brezza di inizio aprile racchiudeva ancora una punta di gelo e la ragazza si premette contro la spalla del compagno, poi alzò gli occhi verso i suoi, sapendo che lui non avrebbe resistito alla tentazione di baciarla, e al diavolo le occhiatacce di eventuali passanti scandalizzati.
Altrove, un'accoppiata di perfezione femminile ed eleganza maschile simile sarebbe stata forse liquidata come ostentazione dispendiosa e superficiale, ma a Parigi la bellezza è sempre stata considerata un imperativo morale, e l'uomo e la donna in questione erano davvero magnifici. Lei sfoggiava una figura che avrebbe spinto tutte le case di moda di Rue Cambon o Avenue Montaigne a disputarsene i servigi come modella, se non fosse stato che già se la contendevano come cliente, e il suo viso era altrettanto splendido. I lineamenti, incorniciati da una folta chioma di lucidi capelli neri, lasciavano trasparire tutta la sua forza di carattere. Mascella e zigomi erano ben delineati, il mento saldo, il naso dritto e deciso, ma l'ossatura era talmente delicata e le labbra dotate di una pienezza così invitante da fugare qualsiasi accenno di mascolinità. E gli enormi occhi azzurri, limpidi come il cielo africano sotto cui era nata e orlati di folte ciglia nere che quasi non avevano bisogno di mascara, completavano il quadro di ammaliante femminilità.

Re dei re

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Quando Amber Benbrook passò dal fresco ombreggiato del Gezira Club al sole del Cairo rimase per un attimo abbagliata. Incespicò sui bassi gradini che scendevano sul vialetto di ghiaia e d'istinto si aggrappò al braccio del fidanzato, il maggiore Penrod Ballantyne, che la sorresse e abbassò affettuosamente lo sguardo sui suoi magnifici occhi. Lei gli sorrise.
Temo di non essermi ancora abituata a questi nuovi stivaletti, Penny. La commessa ha detto che sono all'ultima moda ed erano anche terribilmente cari, ma a quanto pare non sono fatti per camminare. Sospirò e spinse fuori un piede da sotto le lunghe pieghe della gonna a strisce, ruotando leggermente la caviglia per esaminare lo stivaletto di camoscio dall'elegante tacco basso e dall'elaborata allacciatura con gancetti, asole e nastri. Nell'harem andavo quasi sempre scalza.
Penrod contrasse la mascella. Il capitano Burnett e il tenente Butcher delle Coldstream Guards di Sua Maestà erano fermi dietro di loro nell'ombra del porticato e avevano sicuramente sentito le parole di Amber: quel commento sull'harem si sarebbe diffuso in tutto il club prima dell'ora di cena.
Lui l'ammirava, l'amava persino, ma sarebbe stato costretto a spiegarle di nuovo che la fidanzata di un alto ufficiale non doveva parlare di certe cose in pubblico, e che il suo soggiorno nell'harem di Osman Atalan, considerato uno dei principali nemici dell'impero britannico, figurava sicuramente fra di esse.

Eredità di guerra

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Kenya, giugno 1951

Nella luce guizzante e fumosa delle fiaccole di ramaglia Kungu Kabaya guardò, dietro la capra macellata stesa al centro della cappella missionaria abbandonata, gli uomini, le donne e i bambini che aspettavano impauriti.
Erano una sessantina, membri della tribù dei kikuyu e squatter, come i proprietari terrieri bianchi chiamavano i propri braccianti neri. Perché a prescindere da quanto lavorava uno squatter, da quanto tempo lui o il padre e persino il nonno avevano trascorso nella tenuta agricola, dalla maestria con cui aveva costruito la capanna in cui viveva con la famiglia, uno squatter rimaneva nella tenuta solo grazie alla benedizione del proprietario e poteva essere cacciato in qualsiasi momento, senza diritto d'appello.
Kabaya spostò lo sguardo sul campanello formato da una ventina di uomini e donne scelti per prendere parte alla cerimonia di quella sera e rivolse un cenno d'assenso al ragazzo in testa al gruppo. Magro e dinoccolato, non doveva avere più di diciotto anni. Con l'avventata baldanza tipica dei giovani si era offerto volontario per prestare giuramento per primo, ma la gravità della decisione presa cominciava già a opprimerlo e il coraggio stava lasciando il posto ad ansia e trepidazione.

Ciclo Hector Cross

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La legge del deserto

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Il khamsin soffiava ormai da cinque giorni. Le nuvole di polvere correvano loro incontro attraverso la cupa vastità del deserto. Hector Cross portava una kefiah al collo e gli occhiali da deserto. La corta barba scura gli proteggeva gran parte del volto, ma le zone esposte della pelle sembravano scorticate dai granelli pungenti della sabbia. Al di sopra del frastuono del vento riusciva a sentire il vibrare cadenzato dell'elicottero che si avvicinava. Anche senza guardarli, era sicuro che nessuno degli uomini attorno a lui se ne fosse ancora accorto.

Vendetta di sangue

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Si svegliò e rimase un attimo lì e con gli occhi chiusi, a valutare la situazione. Il suo istinto di guerriero doveva controllare se c'erano pericoli in agguato. Sentì il profumo di lei, il suo respito leggero e regolare come il rumore delle onde che si frangono sulla spiaggia. Va tutto bene, pensò con un sorriso, e aprì gli occhi. Voltò la testa senza far rumore, per non svegliarla.
Una lama di sole filtrava fra le tende socchiuse disegnando una striscia dorata sul soffitto e su di lei, che giaceva supina con un'espressione serena. Era bellissima, nuda fra le lenzuola. I riccioli biondi sul pube erano lievemente più scuri di quelli che le incorniciavano il viso, i seni erano ingrossati per la gravidanza ormai quasi al termine. La pelle pareva più lucida, da quanti si era tesa per far posto al bambino. Ebbe un piccolo sussulto e lui, pensando alla creatura che si muoveva in quel grembo, si sentì sopraffare dall'amore che provava per la sua donna e per il figlio che stava per nascere.

La notte del predatore

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Hector Cross si svegliò angosciato e per un attimo rimase steso sul letto, immobile, cercando di capire dove fosse. Aprì gli occhi con riluttanza, senza sapere cosa aspettarsi, e attraverso la doppia porta spalancata della camera lo vide avvicinarsi dalla veranda. La luce scintillante della luna formava argentei disegni cangianti sulle squame bagnate dell'animale, che puntava verso di lui facendo dondolare i fianchi, con le unghie che raspavano sul cemento. La coda dell'orrenda creatura oscillava a ogni passo poderoso e le zanne giallastre premevano sul labbro inferiore in un ghigno freddo. Hector sentì un nodo alla gola e il petto che si contraeva, assalito da un'ondata di panico. Il coccodrillo infilò la testa nel vano della porta e si fermò, guardandolo. Gli occhi erano gialli come quelli di un leone, le pupille due fessure nere. Solo a quel punto lui si accorse che era davvero gigantesco: riempiva completamente la soglia e incombeva sul letto, rendendogli impossibile la fuga.
Hector si riprese in fretta dallo shock e rotolò sul fianco. Afferrò la maniglia del cassetto del comodino in cui teneva la Heckler & Koch 9mm e lo aprì. Le unghie grattarono spasmodicamente sul legno mentre cercava l'arma a tastoni, invano. Il cassetto era vuoto e lui indifeso.
Si girò per fronteggiare l'enorme rettile, con le gambe ripiegate sotto di sé e la schiena contro la tastiera del letto. Sollevò le mani e le incrociò all'altezza dei polsi in una posizione di difesa da karateka.

Romanzi egizi

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Il dio del fiume

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Il fiume si snodava lento nel deserto, luminoso come una colata di metallo fuso appena sgorgato dalla fonderia. Il cielo era velato dalla foschia e il sole batteva con la violenza del maglio d'un ramaio. Nel miraggio, le colline spoglie che fiancheggiavano il Nilo parevano tremare sotto i colpi.
La nostra barca procedeva veloce accanto ai papiri, abbastanza vicina perché giungesse fino a noi lo scricchiolio dei secchi pieni d'acqua degli altaleni, dai lunghi bracci controbilanciati, che irrigavano i campi. Quel suono si fondeva con il canto della ragazza seduta a prua.

Il settimo papiro

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L'imbrunire avanzava dal deserto e ombrava di violaceo le dune. Attutiva tutti i suoni come un fitto manto di velluto, e la sera era tranquilla e silenziosa.
Dal punto in cui si trovavano, sulla cresta della duna, potevano scorgere l'oasi e il complesso di piccoli villaggi che la circondavano. Le costruzioni erano bianche, con i tetti piatti, e le palme da dattero svettavano sugli edifici, a eccezione della moschea islamica e della chiesa copta. I due bastioni della fede si fronteggiavano sulle sponde opposte del lago.
L'acqua si stava scurendo. Uno storno di anatre scese rapido a posarsi, sollevando qualche schizzo di schiuma bianca contro i canneti.
L'uomo e la donna erano una coppia disparata. Lui era alto, anche se leggermente curvo, i capelli brizzolati accesi dagli ultimi raggi di sole. Lei era giovane, poco più di trent'anni, snella, attenta, vibrante. Aveva una massa di capelli ricci, raccolti sulla nuca con un cordino.

Figli del Nilo

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Come un serpente che distende sinuoso le sue spire, una fila di carri da combattimento correva lungo la pista tortuosa, scendendo verso il fondovalle. Il ragazzo, aggrappato alla sponda anteriore del carro di testa, alzò gli occhi sulle pareti di roccia che sembravano serrarsi su di loro in una morsa. La pietra scabra era crivellata di fori d'accesso alle tombe antiche, fitte come le celle di un'arnia. Quei pozzi di tenebre lo fissavano come gli occhi implacabili di una legione di jinn. Il principe Nefer Memnone rabbrividì e, con un furtivo segno di scongiuro della mano sinistra, distolse lo sguardo.

Alle fonti del Nilo

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Due figure solitarie scendevano dalle alte montagne. Indossavano pellicce logore per il viaggio ed elmi di cuoio con i paraorecchi legati sotto il mento per proteggersi dal freddo. Avevano la barba incolta, e il volto segnato dalla fatica. Trasportavano sulle spalle tutti i loro sparuti averi. C'era voluto un viaggio difficile e scoraggiante per raggiungere quel luogo. Anche se stava davanti, Meren non aveva idea di dove si trovassero, e neppure era certo del perché si fossero spinti così lontano. Solo il vecchio che lo seguiva a poca distanza lo sapeva, e non aveva ancora deciso di spiegarglielo.

Il dio del deserto

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Il sole stava tramontando quando finalmente Zaras e io riuscimmo a tornare, un po' a nuoto e un po' a guado, dove avevamo lasciato le nostre tre piccole imbarcazioni. Gli uomini furono felicissimi di rivederci. Probabilmente si erano convinti che fossimo stati scoperti ad appellarsi alle loro limitate risorse. Obbedirono di corsa ai miei ordini.
La prima delle numerose e ardue imprese che mi aspettavo era portare tutti i miei uomini massicciamente armati e con indosso l'armatura, quasi nessuno dei quali in grado di nuotare, al di là dei profondi canali del fiume, sino al forte.
A tale scopo scelsi la più piccola e leggera delle nostre tre imbarcazioni, poi dissi agli uomini di prelevare le cime e altri oggetti utili dalle altre due navi. Pensai di bruciare queste ultime ma i cretesi avrebbero sicuramente visto il fumo e mandato soldati a indagare. Diedi invece ordine di frantumare il fondo e affondarle nel punto della laguna in cui l'acqua era più alta.

L'ultimo faraone

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Anche se avrei preferito inghiottire la spada piuttosto di ammetterlo apertamente, in cuor mio sapevo che ormai era finita.
Molti decenni prima le orde di hyksos erano apparse all'improvviso entri i confini del nostro Egitto, giungendo dalle desolate lande orientali. Il loro era un popolo selvaggio e crudele, privo di qualsivoglia dote, e disponeva di un unico elemento che lo rendeva invincibile in battaglia: il carro trainato dai cavalli, che prima di allora noi egizi non avevamo mai visto né sentito nominare e che consideravamo una cosa orribile.
Avevamo tentato di fronteggiare a piedi l'assalto degli hyksos ma ci avevano respinto con violenza, circondandoci agevolmente con i loro carri e riversandoci addosso una pioggia di frecce. Non ci era rimasto che tornare alle nostre imbarcazioni e fuggire verso sud lungo il possente Nilo, trascinandoci attraverso le cateratte e fino al deserto, dove eravamo rimasti per più di dieci anni, bramando la nostra terra natale.

Il nuovo regno

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Sotto lo sguardo attento degli dei, i due ragazzi si inerpicarono fino alla cima dell'altura, dove il passaggio brullo era reso argenteo dal chiarore lunare e intagliato dall'ombra. La brezza fresca proveniente da est trasportava gli aromi terrosi della lussureggiante vegetazione intorno al Nilo.
Erano amici sin dall'infanzia. Hui, il più coraggioso dei due, portava solo un aderente gonnellino di lino annodato all'altezza della vita, che lasciava visibili membra forti e robuste. A Lahun, la città natale da cui si erano allontanati furtivamente al tramonto, molti lo consideravano ancora un bambino, forse per via dei lineamenti adolescenziali e dell'aria innocente: guance un pizzico troppo paffute, nessuna ruga scavata dalle preoccupazioni ai lati della bocca o sulla fronte. Un bambino! Aveva diciassette anni! Arricciò il naso. Ben presto avrebbe dimostrato a quei detrattori che si sbagliavano.
Lo vedi? chiese con voce tremula Kyky, che si era guadagnato il soprannome di Scimmietta grazie alla braccia magre che sembravano arrivargli quasi alle ginocchia e al viso minuto dai grandi occhi scuri.
Hui si premette un dito sulle labbra e, accovacciandosi, allungò il collo per fissare le stelle che riempivano il cielo. Sì, gli dei osservavano sempre tutto, qualsiasi sciocco lo sapeva. Tremò sotto il peso di quegli occhi scintillanti. Lo aspettava un destino grandioso, se le potenze superiori erano d'accordo, e quella notte avrebbe fatto il primo passo sulla strada verso la gloria.

Il nuovo regno

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I due uomini sgattaiolarono lungo il margine del campo di orzo illuminato dalla luna. Avevano la schiena nuda e rigida che grondava sudore, le dita contratte sull'elsa della spada di bronzo e lo sguardo che saettava tutt'intorno. Sull'orizzonte oscillava il bagliore rosso delle fattorie in fiamme che costellavano la lussureggiante valle del Nilo e il caldo vento del deserto soffiava cortine di fumo verso le stelle. Si sentivano soffocare dal puzzo di bruciato mentre nelle loro orecchie risuonavano i lamenti dei moribondi che laceravano il silenzio come grida di gatti selvatici. Il loro era un lugubre compito, ma erano pronti.
Formavano una coppia male assortita. Piay era alto e muscoloso, con mascella forte, zigomi alti e occhi scuri che facevano voltare la testa alle donne al servizio del faraone. Hannu, il suo aiutante, tarchiato e zoppicante, aveva il corpo coperto di una folta peluria nera e una cicatrice irregolare che gli scendeva sulla guancia sinistra fino all'incolta barba scura. Si guardava intorno accigliato, gli occhi che brillavano come carboni ardenti.

L'ombra del sole

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«Che idea balorda!» berciò Wally Hendry. Poi ruttò e, prima di continuare il discorso, raccolse il saporino con la lingua. «Non mi va. Sento puzza di cadavere.» Era sdraiato su uno dei letti, col bicchiere in equilibrio sul petto nudo che sudava abbondantemente nell'afa del Congo.
«Il guaio è che ci tocca andarci lo stesso», disse Bruce Curry senza alzare lo sguardo dal necessario per radersi che stava tirando fuori dallo zaino.
«Dovevi dirgli di arrangiarsi, che non ci muoviamo da Elisabethville. Perché non gliel'hai detto, eh?» Hendry prese il bicchiere e ne tracannò il contenuto.
«Perché non mi pagano mica per discutere.» Bruce parlava con indifferenza, guardandosi allo specchio sopra il lavabo, picchiettato di cacche di mosca. La faccia che vedeva era molto abbronzata. I capelli neri, cortissimi: se fossero stati più lunghi, avrebbero avuto la tendenza ad arricciarsi in disordine. Le sopracciglia nere ai lati piegavano in su: gli occhi erano verdi, incorniciati da ciglia folte, e la bocca inalberava un'espressione a metà strada tra il sorriso e la grinta. Bruce guardò senza alcun compiacimento quei lineamenti gradevoli. Era un pezzo che non provava più emozioni del genere. Restò indifferente anche davanti al nasone, veramente un po' grifagno, che dandogli un'aria da pirata riscattava la sua faccia da un'avvenenza eccessiva.

Ci rivedremo all'inferno

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Flynn Patrick O'Flynn cacciava elefanti di frodo. Lo faceva di professione e ammetteva modestamente di essere il migliore sulla costa orientale dell'Africa.
Rachid El Keb esportava pietre preziose, donne per gli harem e per i magnati arabi e indiani, e avorio di contrabbando. Ma lo ammetteva solo con i clienti fidati; per tutti gli altri era un armatore ricco e rispettabile.
Un pomeriggio del 1912, durante la stagione dei monsoni, Flynn e Rachid, accomunati dall'interesse per i pachidermi, sedevano nel retro del negozio di El Keb nel quartiere arabo di Zanzibar, e prendevano il tè in minuscole tazze di ottone. Il tè bollente faceva sudare Flynn O'Flynn ancor più del solito. C'era un tale caldo umido nella stanza, che persino le mosche sul basso soffitto se ne stavano immobili, languide e intorpidite.

Cacciatori di diamanti

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A Nairobi arrivarono con tre ore di ritardo e quando alla fine il Boeing del volo intercontinentale toccò terra a Londra, nonostante quattro doppi whisky Johnny Lance aveva dormito a spizzichi e male.
Si sentiva come se gli avessero gettato una manciata di terra negli occhi.
Alla fine, dopo il debilitante controllo dei passaporti, emerse nella sala arrivi dell'aeroporto internazionale di Heathrow di pessimo umore.
L'agente londinese della Ven Der Byl Diamonds Company era lì ad attenderlo.
«Piacevole viaggio, Johnny?» «Quanto una puntata all'inferno», fu la risposta. Un grugnito.

Una vena d'odio

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Tutto cominciò quando il mondo si stava formando, prima della comparsa dell'uomo, prima ancora che la vita stessa si fosse evoluta su questo pianeta.
La crosta terrestre era ancora molle e sottile, deformata e lacerata dalle enormi pressioni interne.
Lo scudo compatto che oggi forma il continente africano, stabile e definitivamente assestato, era una serie di alte montagne, un susseguirsi di catene montuose portate in superficie e poi demolite dai movimenti del magma alle grandi profondità. L'uomo non ha mai visto montagne simili; erano così imponenti da ridicolizzare l'Himalaya, montagne di roccia fumante dai crepacci e dalle ferite aperte da cui colava il magma allo stato fuso.

L'uccello del sole

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L'immagine attraversò come una lama il buio della sala di proiezione e si delineò silenziosa sullo schermo... e io non la riconobbi. Attendevo da quindici anni una fotografia del genere e, ora che l'avevo sotto gli occhi, non sapevo trarne alcun significato. Mi aspettavo qualche piccolo oggetto, un teschio, forse... non certo quello schema grigio e surreale.

Un'aquila nel cielo

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Le montagne dell'Hottentots Holland erano coperte di neve e ne veniva un vento simile al lamento di un animale sperduto. L'istruttore era in piedi sulla soglia del suo minuscolo ufficio, ingobbito nel giaccone chiuso con la lampo, le mani profondamente conficcate nelle tasche bordate di lana.
Osservando la Cadillac nera con autista che avanzava tra i cavernosi hangar rivestiti di lamiera, atteggiò il volto a una smorfia acida. Per gli orpelli della ricchezza, Barney Venter provava un'invidia da torcere le budella.

Sulla rotta degli squali

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Era una di quelle stagioni in cui il pesce arriva tardi. Tenevo barca ed equipaggio sotto pressione, spingendomi ogni giorno sempre più a nord e rientrando in porto ogni volta a tarda sera, ma era già il sei novembre quando catturammo il primo di quei grossi bestioni che discendono le acque rossastre della corrente del Mozambico.
A quel punto ero ridotto alla disperazione. Avevo a bordo un agente pubblicitario di New York di nome Chuck McGeorge, uno dei clienti fissi che compivano il pellegrinaggio annuale di novemilasettecento chilometri fino all'isola di Saint Mary per la pesca del marlin. Era un ometto basso e segaligno, calvo come un uovo di struzzo, con le tempie brizzolate e un muso da scimmia scuro e avvizzito, ma aveva le gambe robuste, necessarie per issare i grossi pesci.

Dove finisce l'arcobaleno

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Per Jake Barton le macchine erano femmine, con tutto il fascino, le astuzie e la puttaneria femminili. Così appena le vide, allineate dietro lo scuro fogliame delle piante di mango, esse divennero subito per lui le signore di ferro. Ce n'erano cinque, e spiccavano un po' discosto dalle pile di altro materiale che il Governo di Sua Maestà metteva in vendita.

Come il mare

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Nicholas Berg scese dal tassì sul molo illuminato dai riflettori e sostò a guardare il Warlock. Sollevato dalla marea, galleggiava alto presso la banchina, cosicché le gru che gli torreggiavano accanto non riuscivano a farlo apparire piccolo.
Sebbene fosse stanco, confuso e indolenzito, Nicholas sentì rinascere un senso d'orgoglio e di soddisfazione. Il Warlock sembrava una nave da guerra, agile e spavalda, con l'alta prua svasata e la linea snella che le permettevano di affrontare qualsiasi mare.

L'orma del Califfo

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C'erano solo quindici passeggeri aggiunti per il volo della British Airways all'aeroporto di Victoria dell'isola di Mahé, nella repubblica oceanica delle Seychelles.
Due coppie formavano un gruppo compatto mentre aspettavano il loro turno per sbrigare le formalità d'imbarco. Erano tutti giovani, tutti molto abbronzati, e sembravano tuttora spensierati e rilassati dalla loro vacanza in quell'isola di paradiso. Tra loro, però, una ragazza era talmente splendida da far sembrare insignificanti gli altri giovani con la sua sola presenza.

Il canto dell'elefante

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Era una costruzione di blocchi d'arenaria, priva di finestre e con il tetto di paglia, che Daniel Armstrong aveva costruito con le sue mani quasi dieci anni prima, quando era un ranger di grado inferiore nell'amministrazione dei parchi nazionali. In seguito l'edificio era stato trasformato in un autentico deposito di tesori.
Johnny Nzou infilò la chiave nel grosso lucchetto e spalancò i due battenti di tek tagliati a mano. Johnny era il capo ranger del parco nazionale di Chiwewe. In passato era stato cercatore di tracce e portatore di fucili alle dipendenze di Daniel: a quel tempo era un giovane, intelligente matabele al quale Daniel aveva insegnato a leggere, a scrivere e a parlare correntemente l'inglese alla luce di mille fuochi da bivacco.

Citazioni su Wilbur Smith

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  • Uno scrittore che si chiama Smith non diventerà mai famoso. (Un editore; citato in Enzo Biagi, Giro del mondo, Rizzoli)

Bibliografia

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  • Wilbur Smith, Una vena d'odio, traduzione di Piero Anselmi, Mondadori, 1982.
  • Wilbur Smith, Dove finisce l'arcobaleno, traduzione di Carlo Brera, Longanesi, 1984.
  • Wilbur Smith, La spiaggia infuocata, traduzione di Carlo Brera, Longanesi, 1986. ISBN 8878193852
  • Wilbur Smith, Il potere della spada, traduzione di Carlo Brera, TEA-Longanesi, 1987. ISBN 8878196010
  • Wilbur Smith, I fuochi dell'ira, traduzione di Carlo Brera, TEA, 1988. ISBN 8878191396
  • Wilbur Smith, La notte del leopardo, traduzione di Carlo Brera, Longanesi, 1988. ISBN 8878190313
  • Wilbur Smith, L'ultima preda, traduzione di Carlo Brera, TEA, 1989. ISBN 978-88-7819-295-3
  • Wilbur Smith, La volpe dorata, traduzione di Roberta Rambelli, Longanesi, 1990. ISBN 8878194352
  • Wilbur Smith, L'orma del Califfo, traduzione di Marisa Castino, Longanesi, 1990. ISBN 8878191701
  • Wilbur Smith, La voce del tuono, traduzione di Paola Campioli, TEA, 1990.
  • Wilbur Smith, L'ombra del sole, traduzione di Carlo Brera, Longanesi, 1991. ISBN 8878192538
  • Wilbur Smith, Il canto dell'elefante, traduzione di Roberta Rambelli, Longanesi, 1991. ISBN 8878195235
  • Wilbur Smith, Il destino del leone, traduzione di Marco Biondi, TEA-Longanesi, 1992. ISBN 8878192422
  • Wilbur Smith, Un'aquila nel cielo, traduzione di Giacomo Erba, Longanesi, 1993. ISBN 8878193712
  • Wilbur Smith, Il dio del fiume, traduzione di Roberta Rambelli, TEA, 1993. ISBN 9788878188754
  • Wilbur Smith, Gli angeli piangono, traduzione di Roberta Rambelli, Longanesi, 1994. ISBN 8878196649
  • Wilbur Smith, Cacciatori di diamanti, traduzione di Attilio Veraldi, Longanesi, 1995. ISBN 88-7819-753-X
  • Wilbur Smith, Come il mare, traduzione di Jimmy Boraschi, Longanesi, 1995. ISBN 8878193836
  • Wilbur Smith, Il settimo papiro, traduzione di Roberta Rambelli, TEA, 1995. ISBN 8878186775
  • Wilbur Smith, Quando vola il falco, traduzione di Marco Biondi, Longanesi, 1995. ISBN 8878197521
  • Wilbur Smith, Gli eredi dell'Eden, traduzione di Maria Giulia Castagnone, Longanesi, 1997. ISBN 8878193844
  • Wilbur Smith, Sulla rotta degli squali, traduzione di Lidia Perria, Longanesi, 1997. ISBN 8878182753
  • Wilbur Smith, Uccelli da preda, traduzione di L Perria, Longanesi, 1997. ISBN 8878185817
  • Wilbur Smith, Ci rivedremo all'inferno, traduzione di Tullia Roghi, TEA, 2000. ISBN 8878183660
  • Wilbur Smith, Figli del Nilo, traduzione di Lidia Perria, Longanesi, 2001. ISBN 8830416614
  • Wilbur Smith, Monsone, traduzione di Lidia Perria, TEA, 2001. ISBN 8878188905
  • Wilbur Smith, Orizzonte, traduzione di Lidia Perria, TEA, 2003. ISBN 978-8830419506
  • Wilbur Smith, Il trionfo del sole, traduzione di Studio Oltremare, Longanesi, 2006. ISBN 8850212437
  • Wilbur Smith, Alle fonti del Nilo, traduzione di Giampiero Hirzer, TEA, 2007. ISBN 9788830420960
  • Wilbur Smith, Il destino del cacciatore, traduzione di Giampiero Hirzer, Longanesi, 2009. ISBN 97888304250
  • Wilbur Smith, Stirpe di uomini, traduzione di Attilio Veraldi, TEA, 2009. ISBN 9788850218769
  • Wilbur Smith, La legge del deserto, traduzione di Giampiero Hirzer, TEA, 2013.
  • Wilbur Smith, Vendetta di sangue, traduzione di Lucio Zarchini, Longanesi, 2013, ISBN 978-8830439061
  • Wilbur Smith, Giles Kristian, Il leone d'oro, traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2015, ISBN 9788830438750
  • Wilbur Smith, Tom Cain, La notte del predatore, traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2016, ISBN 978-8830498743
  • Wilbur Smith, David Churchill, Grido di guerra, traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2017. ISBN 978-8830438774
  • Wilbur Smith, L'ultimo faraone, traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2017. ISBN 978-88-304-4823-0
  • Wilbur Smith, Tom Harper, Il giorno della tigre, traduzione di Sara Caraffini, Longanesi, 2017. ISBN 978-8830438767
  • Wilbur Smith, David Churchill, La guerra dei Courtney, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2018. ISBN 978-8869053795
  • Wilbur Smith, Imogen Robertson, Re dei re, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2019. ISBN 978-8869058462
  • Wilbur Smith, Tom Harper, Il fuoco della vendetta, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2019. ISBN 978-8869055454
  • Wilbur Smith, Corban Addison, Il richiamo del corvo, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2020. ISBN 978-8869058127
  • Wilbur Smith, Mark Chadbourn, Il nuovo regno, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2021. ISBN 978-8869059629
  • Wilbur Smith, David Churchill, Eredità di guerra, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2021. ISBN 978-8869058134
  • Wilbur Smith, Mark Chadbourn, Lotta tra titani, traduzione di Sara Caraffini, Harper&Collins, 2022. ISBN 979-12-598-5117-8

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Opere

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